Da parecchi giorni don Vincenzo Callisto non si faceva vedere e i suoi discepoli, preoccupati, non si spiegavano il perché. Nemmeno il fido don Andrea Vaccarone metteva piede nel giardino della piazzetta dove erano soliti ritrovarsi. Senza la presenza di don Vincenzo il posto non era lo stesso, il livello delle conversazioni restava basso, ognuno si sentiva inadeguato a sostenere un qualsiasi discorso.
Poi, finalmente, don Andrea Vaccarone, che si fregiava del prefisso grazie all’amicizia di una vita con don Vincenzo, si fece vivo e informò il gruppo dei maliziosi che il loro nobile amico era ricoverato in ospedale per un improvviso problema di salute. Lui stesso non si era fatto vivo perché sentiva il dovere di andarlo a trovare tutti i giorni.
La notizia turbò molto gli amici. Chi scuoteva la testa, chi diceva “oh, povero don Vincenzo”, ma potete star certi che era solo una contrizione di facciata. In realtà non faceva loro né caldo né freddo, egoisti che tenevano solo ai fatti propri.
Don Vincenzo dunque era in ospedale. I giorni passavano e qualcuno cominciava a pensare ad esiti gravi, faceva congetture irripetibili; qualcun altro, più istintivo e saputo, già dava il maestro per spacciato.
Nel frattempo, per tutta la durata del ricovero, era don Andrea che teneva informati gli amici (i quali, detto fra noi, si guardarono bene dall’andare a far visita al malato quando rientrò a casa).
Sappiamo così che il nobile don Vincenzo si era dovuto sottoporre a una operazione urgente. L’intervento era andato benissimo, ma poi si erano verificate delle complicazioni che lo avevano costretto a una degenza più lunga del previsto. Per sua fortuna, e anche nostra perché altrimenti non potremmo più raccontare le sue ore, Don Vincenzo si riprese e uscì dall’ospedale.
Così un pomeriggio, inaspettato, fece finalmente la sua comparsa. Bianco come cera, dal passo incerto e tremolante, appoggiandosi pesantemente al suo bastone, si fece vivo nella piazzetta. Si sedette subito sulla panca più alta esagerando artatamente i suoi movimenti sofferenti come se solo lui avesse patito tanto sulla faccia della terra. Sembrava che fosse reduce da disavventure e sofferenze indicibili di cui gli altri non avevano neppure l’idea.
I discepoli lo attorniarono, premurosi e gentili, gli diedero la mano, qualcuno azzardò un abbraccio a cui don Callisto cercò di sottrarsi, non per rifiuto della considerazione e dell’affetto ma per tenere le dovute distanze tra popolino e nobiltà.
Gli chiesero come stava. Dopo essersi accomodato a dovere ed aver tratto la sua inseparabile pipa dalla tasca della giacca, rispose in modo affettato: “Devo dire la verità, se non fosse per un po’ di affanno quando mi muovo o per l’artrosi che mi tortura notte e giorno, o per una piccola eccedenza di glicemia e di azotemia e per il dolore alla prostata, mi sentirei proprio bene. A volte avverto dei capogiri, ma niente di preoccupante. Solo le gambe non hanno più la scioltezza di prima e in quanto alla vista, beh, è diminuita alquanto ma, non temete, ci vedo ancora abbastanza. Certo potrei star meglio, avere dei reni più funzionanti o non dover ricorrere al calcio per via della tiroide che non ho più. Non si può avere tutto nella vita. Peccato che quel fatto là, nemmeno a parlarne!”.
Raffaelone, uomo pratico e contabile esperto, si chiese nell’intimo se Don Callisto avesse ancora qualcosa a posto. Il viso era molto più emaciato del solito anche se il piglio risoluto denotava il carattere forte dell’uomo.
“Ah, la prostata, e chi non ce l’ha?”, fece l’ex impiegato comunale Vittorio Caiazzo.
Subito gli rispose il maestro Peppe Chirozzi che aveva con lui sempre qualcosa da precisare: “Tutti ce l’abbiamo ma c’è ci ne soffre e chi no!”.
“Quel fatto là!… Eeeh!..” dicevano tutti e con la mano esprimevano platealmente il loro dubbio. “Da mo’!”, dicevano e si guardavano l’un l’altro e si sorridevano con una complicità ironica.
“Don Vincè, non ci pensate!” esclamò Giggino mezzolitro così chiamato per la sua abitudine di scolarsi mezzo litro a pasto, rosso d’inverno e bianco imperlato d’estate. E quando diciamo pasto intendiamo non solo quello canonico di mezzogiorno o la cena ma ogni assunzione sia pur piccola di cibo durante la giornata. La colazione a base di pane e formaggio si accompagnava a un mezzo litro di piacere, così la fetta imburrata di metà mattinata o lo spuntino pomeridiano o qualsiasi altra attività masticatoria erano innaffiate da un mezzo litro. Si badi, non di più, ci teneva a sottolinearlo ogni volta che si discuteva dell’argomento. No, lui non eccedeva, era corretto, non andava oltre il mezzo litro.
Don Vincenzo Callisto era contento di aver ritrovato tutti i suoi amici discepoli. Nulla era cambiato a Sarginazze da quando era stato ricoverato in ospedale. La stessa fauna continuava ad occupare la piazza, ad affaccendarsi, affrettarsi, bighellonare per le strade. Aveva finalmente ritrovato il suo habitat in cui dispensava sentenze e consigli, mostrava una saggezza inarrivabile, capiva tutti e ogni cosa.
E meno male che c’era la piazzetta con la fontana e le panche sui cui riunirsi all’ombra della quercia. Soltanto lì le gerarchie abituali permanevano intatte. Lì don Vincenzo sedeva sulla panca più alta in guisa di re o di papa, avendo a fianco il fido Vaccarone che lo sosteneva e gli faceva da spalla e parlava per lui alla bisogna. E poi c’erano gli altri, i discepoli, un po’ discoli, per essere precisi, ai quali il nostro vate elargiva con generosità i suoi insegnamenti e che a volte bevevano sciocchezze senza fiatare, altre volte rifiutavano o mettevano alla berlina sacrosante verità.
Si, meno male che c’era la piazzetta, perché a casa propria, dove diceva di comandare, era quasi un estraneo, un intruso, uno che si sopportava e basta.
“Avete ritrovato la vostra famiglia, la vostra signora, donna Carmina, vostro figlio e il vostro nipotino. Don Vincenzo, i giorni brutti sono alle vostre spalle”, disse con enfasi commossa don Andrea Vaccarone. “Adesso dovete solo pensare a rimettervi. Stare tranquillo, mangiare cibi genuini, fare le vostre passeggiate quotidiane e stare con noi che vi abbiamo aspettato con ansia”.
C’era poca verità in quest’ultima affermazione, ma la diplomazia ha le sue regole.
“Si, adesso dovete badare solo a voi stesso”, disse Raffaelone, “non preoccuparvi di niente e giocate con il vostro nipotino”.
“Per i bambini i nonni sono come il padreterno. Don Vincenzo, voi siete il padreterno di vostro nipote!”, esclamò don Andrea con sempre maggior passione.
Don Vincenzo ascoltava, commosso e compiaciuto di tante attenzioni e una lacrima gli rigò il volto rugoso. Un groppo alla gola gli impedì di rispondere. Poi, facendosi forza e dopo aver tirato due o tre lente boccate dalla sua pipa esclamò: “Già, i nipoti! Adesso vi racconto quello che mi è capitato”.
I discepoli zittirono. Quando parlava don Vincenzo si doveva prestare attenzione.
“Ebbene”, disse, “dovete sapere che il figlio di mio figlio, un tipetto di quattro anni che porta il mio stesso nome...” - Assensi dell’uditorio - “prima che io mi ammalassi” - facce contrite - “ mi voleva un gran bene, voleva sempre giocare con me, si faceva raccontare delle storie. Voi sapete che mi riesce bene! I piccoli sono fatti così...” - Altri segni approvazione tra gli uni e gli altri.
“Era così legato a me - continuò don Vincenzo – che voleva fare tutto quello che facevo io, voleva usare le mie cose, finanche il mio bagno. Voglio andare nel bagno del nonno, diceva. Questo mi dava una grande gioia!”
Pausa per aspirare un’altra pipata odorosa.
“Anch’io ho un nipote che sta sempre in mezzo alle mie cose. Quando cerco un attrezzo particolare non lo trovo mai”, si intromise l’ex impiegato comunale Vittorio Caiazzo.
“Che c’importa di tuo nipote?”, lo redarguì puntualmente il maestro elementare Chirozzi, “sta parlando Don Vincenzo, lascialo continuare, perdinci!”
“Beato voi”, approfittò dell’istante Raffaelone che aveva avuto qualche problema col figlio.
“Non t’intromettere anche tu!”, esclamò il maestro Chirozzi. Ogni tanto l’uditorio si agitava provocando qualche interruzione. Ma adesso don Vincenzo non manifestava più l’insofferenza di prima, anzi ne approfittava per riposarsi un attimo e succhiare il bocchino della pipa.
Quando tornò il silenzio don Vincenzo proseguì: “Ebbene, quando sono tornato a casa, quanti giorni sono passati, don Andrea? Una ventina? Un mese?”.
“Quasi due mesi!”, suggerì don Andrea.
“Quando sono tornato, dicevo, mi è accaduto un fatto che mi ha addolorato tanto. Il nipotino che voleva condividere tutto con me, ha fatto delle storie incredibili quando mi ha visto entrare nel bagno. Strilli e pianti, pianti e strilli, non si poteva tenere. Il bagno è mio, diceva, il bagno è mio! In poche parole, mi ha impedito di usarlo, e non solo quel giorno ma anche nei giorni seguenti. Mi ha espropriato, capite? Questa è la parola...”
E qui don Vincenzo tirò con ancora più forza dalla pipa. L’emozione era evidente e indusse gli amici al silenzio. Il vecchio saggio, che sembrava più vecchio del solito, ingoiò un boccone di amarezza.
“Che volete che sia, don Vincenzo, non ve la prendete!”, fece il maestro Peppe Chirozzi che di bambini se ne doveva intendere. “E’ un capriccio passeggero, presto sarà tutto come prima!”. Gli astanti si sentirono sollevati da questo intervento così autorevole che li liberava dalla necessità di confortare il loro illustre amico.
“Già, non bisogna darci troppo peso”, riprese don Vincenzo. “Crescerà, ma mi ha dato l’occasione per una riflessione”.
Il cerchio degli amici si strinse ancora di più. Le riflessioni di don Vincenzo erano sempre accolte con grande interesse. Egli riusciva a vedere nei fatti della vita cose che essi non immaginavano neppure. In ciò consisteva la sua saggezza di nobile.
Seguì un’altra lunga pausa che l’ex impiegato comunale Vittorio Caiazzo non ce la fece a sopportare: “Su parlate, stiamo tutt’orecchi!”.
Don Vincenzo non si fece pregare oltre: “Vedete, questo che mi è capitato rappresenta il naturale svolgersi della vita. Il trapasso delle generazioni. I vecchi devono cedere il passo ai giovani. Questi non aspettano altro che prendere il posto dei vecchi”.
“Panda rem!”, disse il maestro di guerra. Egli aveva un rapporto difficile con l’italiano, figuriamoci col greco, ma era al sicuro da ogni correzione.
Raffaelone annuì. Aveva dovuto cedere al figlio il terreno in riva al fiume e ora passava le giornate insieme agli altri vecchi all’ombra della quercia.
“Deve andare così, non c’è rimedio!”, concluse don Vincenzo, “io già mi sto preparando... Ma lo trovo duro da digerire!”. E tacque perché il groppo gli chiuse definitivamente la gola.
Ecco, una tale conclusione veniva a illuminare quelle menti un po’ ottuse che vedevano confermata la loro idea circa la saggezza del maestro.