Erano da poco passate le quattro del pomeriggio. La campana della chiesa l’aveva appena comunicato col suo rintocco molesto. Lo spiazzo erboso all’ombra della quercia si era andato lentamente affollando di anziani e perdigiorno. Don Vincenzo Callisto e i suoi amici se ne stavano accanto alla fontana e facevano gruppo a sé.
Giunse per ultimo Pompeo Bortone, tutto trafelato perché in ritardo. Del resto a nessuno piaceva arrivare in ritardo o andar via prima degli altri per il timore dei commenti fatti alle proprie spalle. Gli amici, per modo di dire, non si risparmiavano nei loro pettegolezzi, spesso pesanti e crudeli. D’altronde non avevano riguardo nemmeno in presenza dell’interessato di turno sebbene ci si limitasse solo a punzecchiature e allusioni più blande. Alcuni erano oggetto più di altri delle maldicenze del gruppo, vuoi perché di animo più semplice, vuoi per una qualche caratteristica particolare. Ad ogni modo chi non arrivava in tempo e chi si ritirava in anticipo erano a maggiore rischio di malignità.
Così, quando Pompeo Bortone, che una volta era stato guardiano in una azienda agricola, giunse quasi di corsa, non persero occasione di subissarlo di apprezzamenti ironici.
“Tua moglie ti ha dato il permesso, finalmente!”.
“Non conti più nulla!”.
“Ma che comandi e comandi? Sei tu che ti muovi a comando!”
E ognuno diceva e aggiungeva.
Al che il pover’uomo ribatteva come poteva, tra il divertito e il piccato:
“E che, forse tu comandi a casa tua?”, diceva a uno, oppure:
“Ma va’, tu esci solo se hai il permesso scritto!”, diceva a un altro.
E così, su questo tema si incrociavano burle e canzonature. E non la finivano perché poi non era più una questione tra Pompeo e gli altri ma di ognuno contro tutti.
Don Vincenzo Callisto ascoltava divertito dal suo trono, pronunciando ogni tanto, anche lui, la parolina che dava nuovo vigore ai commenti. Poi, approfittando di una pausa, si intromise per bacchettare tutti quanti.
“Io non vi capisco”, diceva don Callisto, “Ma che uomini siete? Proprio non riesco a immaginare una cosa del genere. Devo essere sincero, è una situazione che non mi riguarda affatto!”.
“Si, vabbè!”, gli rispondevano.
“Davvero! Io sono una persona democratica, anzi molto democratica, voi lo sapete. Dite un po’! Con quanta benevolenza vi tratto, eh? Ripeto, sono democratico, eppure penso che in una famiglia ci devono essere delle gerarchie, altrimenti va a rotoli. L’uomo comanda, non si discute. Che c’è scritto sullo stato di famiglia accanto al nome del marito? C.F. Capo Famiglia. Perciò a casa mia comando io”. Affermazione perentoria che chiedeva di essere accettata senza ribattere.
“Le mogli cercano sempre di prendere il sopravvento” – proseguì don Callisto - “e la mia signora non fa eccezione. Ma che uomo è quello che si fa mettere il cappello in testa e deve chiedere il permesso per ogni cosa?”.
“Giusto, però anche voi...”, azzardò Pompeo, quasi per rivincita.
Pausa di riflessione.
Don Vincenzo proseguì: “Io ho il mio metodo a cui ricorro ogni tanto, per ricordare a tutti che non mi si possono mettere le briglie”.
“Sarebbe?”, fece il fido don Andrea, amico e discepolo prediletto, che, all’occorrenza, sapeva far da spalla.
“Vi faccio qualche esempio. Se la mia signora (Ancora! Era nobile anche in questo, don Callisto, per il modo in cui citava la moglie) mi ricorda che alle venti la cena è in tavola o che a tale altra ora dobbiamo andare per una certa commissione, io mi presento un’ora dopo!”.
Pausa rafforzativa.
“E vostra moglie non dice nulla? (A don Vincenzo Callisto si dava sempre del voi). A parlare era stato Raffaelone, il cui fondo in riva al fiume apparteneva ormai al figlio per cui veniva a passare il tempo in piazza, insieme agli altri pensionati.
“Nulla”, rispose don Callisto, categorico. “E come potrebbe? Lei sa che deve stare al posto suo. Ve l’ho detto, a casa mia comando io”.
“Uhm!”, disse mastro Minico, che la sapeva lunga.
“Uhm!”, disse Peppuccio, il maniscalco senza più cavalli.
“Uhm!”, disse Vittorio Caiazzo, ex impiegato al Comune, che sapeva tutto. “Conoscendo vostra moglie mi va di non crederci”.
Annuiva ogni volta Graziano che non apriva mai bocca se non per pronunciare qualche monosillabo.
“Eppure è così! Ve l’assicuro”, disse don Vincenzo sempre più convinto. “Ne volete un’altra? Sapete che faccio ogni volta che torno a casa? Per mettere le cose in chiaro batto il pugno sul tavolo! E guai a chi osa ribattere!”
“Forse in casa non c’è nessuno”, disse con un ghigno mastro Minico, spietato, che conosceva a proprie spese l’autorità femminile.
“Nooo”, rispose don Callisto, “io affermo la mia autorità!”
Pausa dubitativa.
Nessuno sembrava persuaso di quello che diceva il maestro. Evidentemente non riuscivano a immedesimarsi in una condizione diversa dalla loro, così pensava don Callisto. Tutti avevano delle consorti a cui ubbidire senza fiatare, a cominciare dall’impiegato comunale, completamente schiavo della moglie.
La discussione andò avanti per un bel pezzo con don Callisto che cercava di persuadere i discepoli e questi sempre più riluttanti e scettici.
Infervorati nel dibattito, non si accorsero che a un certo punto era comparsa sul prato spelacchiato donna Carmina, la riverita consorte di don Callisto, proprietaria di terre, per la qual cosa, chissà, il marito si fregiava del don e si attribuiva un grano di nobiltà.
“Don Vincenzo, forse avete dimenticato che abbiamo da fare una visita di cortesia alla mia amica donna Giuseppa!”. Che distinzione, quel parlarsi tra nobili! Disse questo, però, in modo fermo e gelido. Il suo sguardo non ammetteva repliche. E non s’era mai vista una moglie venire a redarguire il marito in pubblico.
Don Vincenzo Callisto, che soleva sedere sulla panca più alta, dava lezioni di moda e dispensava saggezza come un vecchio patriarca, entrò in confusione. “Si, Donna Carmina! Vengo subito, cara! Scusate, cara!”.
“Bene. Vi concedo un minuto per salutare i vostri amici”, disse donna Carmina. Girò i tacchi e scomparve.
Don Callisto la seguì mogio mogio: “Amici, ci vediamo domani”.
I discepoli tacquero ma sui loro volti era percepibile un lieve sorriso sardonico.