"Vuoi preparare il te, cara?", disse la signorina Ada.
"Che ore sono ?", chiese la signorina Clotilde, alzando gli occhi dal ricamo e fissandola di sopra le lenti.
La signorina Ada alzò a sua volta lo sguardo verso la parete di fronte su cui campeggiava un grosso orologio a pendolo.
"Sono le cinque e due minuti", disse.
"Una pausa ci farà proprio bene", acconsentì la signorina Clotilde. Ripose il telaio sulla sedia che aveva accanto, chiuse con cura gli occhiali dorati nell'astuccio di coccodrillo e si levò dal sofà sul quale era adagiata come una piuma. Diede un'occhiata fugace oltre la vetrata e si avviò verso la cucina.
Fuori, gli ultimi bagliori di un sole settembrino lambivano le chiome dei pioppi e di tanto in tanto avvolgevano la veranda, proiettando larghe chiazze di colore sulle pareti della stanza.
"E' proprio un bel pomeriggio!", esclamò la signorina Clotilde. Sulla soglia si fermò un attimo e si voltò a guardare quello che le appariva come un magnifico quadro di Raffaello. La figura di sua sorella, seduta nella poltrona di velluto blu merlettato di bianco, si stagliava contro il rosso fuoco che penetrava attraverso i vetri.
La signorina Ada attendeva in silenzio al suo lavoro e il suo volto esprimeva un calore che faceva tenerezza. Da molti anni vivevano sole e appartate e molto raramente ricevevano qualche visita, per lo più di persone alle quali si affidavano per delle faccende. Erano tutte e due perennemente prese dai loro ricami i quali facevano bella mostra per le stanze, ornamento e occupazione delle loro giornate.
La signorina Clotilde sentiva per la sorella minore una vera e propria venerazione che era andata aumentando nel tempo, e la considerava la vera padrona della casa, la guida spirituale e materiale. Col passare degli anni aveva ritagliato per se stessa un ruolo modesto, fatto di soggezione ma del quale non era affatto scontenta. Anzi era ben felice di accudire quella che aveva finito per diventare una madre e un padre e tutto!
Quella immagine che si staccava contro la luce della veranda la tranquillizzava, le dava sicurezza. Con tale intima soddisfazione la signorina Clotilde si accinse ad armeggiare in cucina. Mise a bollire l'acqua e preparò il vassoio poggiandovi tre candidi tovaglioli ricamati. Sui due estremi pose le tazze dai disegni delicati e sul terzo, al centro, allineò dei biscotti. La signorina Ada teneva all'ordine e alla precisione e conveniva assecondarla. Nel frattempo la voce della sorella la raggiunse:
"Mi prendi il gomitolo nuovo, cara? "
"Eccomi, Ada, arrivo". La signorina Clotilde, sempre sollecita, si affrettò a riattraversare la stanza. Prese il gomitolo dal cesto, ai piedi della signorina Ada, e glielo porse.
"No, non quello, dammi quello rosa!"
"Subito, cara" .
"Non vedi che sto lavorando col rosa?", disse la signorina Ada con tono di dolce rimprovero. "Scusa, cara, non ci avevo badato".
La signorina Clotilde ritornò in cucina. L'acqua bolliva da un pezzo e per metà si era versata. Vi aggiunse un cucchiaio di tè nero e girò lentamente. Poi filtrò il miscuglio nella teiera dorata dal cui becco usciva un delicato filo di vapore. Ordinò il tutto sul vassoio e, dopo aver dato un'ultima occhiata di verifica, fece la sua entrata trionfale come uno chef del Savoy.
"Quanto zucchero, cara?"
"Ma Clotilde, lo sai che il tè lo preferisco senza zucchero. Ogni volta la stessa domanda!".
"Oh, è vero, che sbadata che sono", rispose la signorina Clotilde. "A me piace molto dolce, invece. Se non è dolce preferisco farne a meno".
Mentre girava il cucchiaino nella tazza si sedette di fronte alla sorella.
Sorseggiarono in silenzio, di tanto in tanto lanciandosi sguardi indagatori.
La signorina Ada osservava la signorina Clotilde con severità. Unica detentrice del potere, ella attendeva alla sua funzione con meticolosa diligenza. Sapeva che la sorella, quantunque più anziana di lei di cinque anni, era piuttosto sbadata e debole di carattere, perciò bisognava guidarla e indirizzarla. E così, per la salvezza della famiglia e il decoro del casato, esercitava la propria autorità senza tentennamenti, senza debolezze, pronta a riprendere qualsiasi errore o negligenza.
La signorina Ada passava il tempo a leggere e ricamare, sprofondata nel sofà e da quella sorta di trono dispensava ordini, sorrisi e bacchettate.
La signorina Clotilde, dal canto suo, era alla mercè della volontà e degli umori della sorella, la quale era da sempre abituata ad avere l'ultima parola. Viveva, perciò, in uno stato di ansia permanente e la sua perenne preoccupazione era quella di esaudire, anzi prevenire, ogni desiderio della signorina Ada, verso la quale nutriva anche dell'ammirazione, perché sapeva fare, sapeva parlare, sapeva tutto.
Essa era sempre provvisoriamente appoggiata al suo posto, pronta a scattare come un velocista sul blocco di partenza, con lo sguardo vigile a osservare la sorella per coglierne ogni minimo movimento, per ubbidire prima di essere comandata.
"Ada, sorellina mia, devo dirti una cosa. Ma non arrabbiarti. Prometti che non ti arrabbierai con me".
"Sentiamo, cos'altro hai combinato", fece la signorina Ada, con tono materno ma già messa sull'avviso di una sicura malefatta e perciò pronta a sgridare.
"Mi devi promettere che non dirai nulla", riprese la signorina Clotilde, con la tazza in punta di labbra.
"Va bene, parla, per amor del cielo", rispose la signorina Ada, già spazientita. "Qualcosa avrai combinato di certo, come al solito".
La signorina Clotilde dovette farsi molto coraggio prima di riprendere:
"Poco fa, in cucina, ho rotto la tazza del servizio buono".
"Coosa?", esclamò la signorina Ada, lasciandosi cadere in grembo il telaio e fulminando la sorella maggiore dal centro delle sue lenti spesse. "Il servizio buono! Quello della buonanima di nostra madre?".
"Si", rispose contrita la signorina Clotilde, con un vago presagio di sciagure. "Quello orlato d'oro, a fiorellini gialli?". Era incredula, la signorina Ada! "Già, proprio quello. Non so come ho fatto, la tazza mi è scivolata di mano".
"Perché sei una sbadata, ecco cosa sei. Una sbadata e basta. Quando fai una cosa, non presti mai attenzione" .
La signorina Clotilde cercò di giustificarsi ma la signorina Ada non le diede il tempo e la zittì con una scarica di lamenti:
"Quando imparerai a essere più attenta? Il servizio di mamma, il servizio della povera mamma mia! Ci tenevo tanto. Era per me il ricordo più caro che mi avesse lasciato e tu, con la tua sbadataggine, me lo hai distrutto".
"A chi lo aveva lasciato?" fece la signorina Clotilde, apparentemente trasecolata. "E hai l'impudenza di dire che mamma lo aveva lasciato a te? Certo hai avuto tanta cura per lei nei suoi ultimi giorni che l'hai fatta morire di crepacuore".
Tutto ha un limite, anche la sudditanza della signorina Clotilde nei confronti della signorina Ada. Aveva ragione ma ci voleva del coraggio da parte sua per ristabilire la verità.
Naturalmente questo argomento, riproposto ad ogni scatenarsi di burrasca, non era nuovo ma faceva immensamente arrabbiare la signorina Ada la quale, non potendo usare argomenti consistenti, dava fondo agli improperi:
"Quella tua bocca, quante eresie è capace di dire. Ma si sa, tu non hai fatto la puttana solo per mancanza di tempo. Puttana!". Sentenziò, inappellabile.
"E tu, allora?" fece di rimando la signorina Clotilde. "Dietro di te sono venuti cani e porci e tutti hai illuso e preso in giro. Ti conosceva tutto il quartiere ... "
"Ti sbagli, cara, sul mio conto non c'è stato mai niente da dire. Ho sempre camminato a testa alta, io, non come certe persone che andavano rovinando la pace delle famiglie!".
La signorina Ada aveva una espressione sardonica, il volto livido e tirato faceva smorfie terribili e il braccio si agitava senza controllo.
"Non è vero, non è vero", esclamò indignata e disperata la signorina Clotilde, "sono solo delle infamie. Sei un'arpìa, ecco quello che sei. Un mostro!", e corse via piangendo, lasciando la signorina Ada altrettanto agitata.
Ognuna dal proprio posto, la signorina Ada dal suo trono, la signorina Clotilde dalla cucina, stettero un bel pezzo a mormorarsi ingiurie e ad augurarsi scambievolmente sequenze di disgrazie fino a che, così come era cominciato, improvviso, il battibecco finì.
La casa ricadde nel silenzio più assoluto, tanto da sembrare disabitata. I fuochi del tramonto, intanto, si erano del tutto spenti ed avevano lasciato la veranda nella semioscurità. Solo un debole chiarore rosa si scorgeva appena al di là delle chiome dei pioppi.
La signorina Ada, un po' alla volta, si era calmata e si era rimessa comodamente a lavorare.
La signorina Clotilde ritornò, leggera, senza rumore, calma anche lei, a sparecchiare il vassoio del tè.
La signorina Clotilde chiese alla signorina Ada se desiderasse qualcosa prima che lei si sedesse. "Grazie, cara", rispose la signorina Ada, "puoi portare via". E così fece la signorina Clotilde. Dopo di che venne a sedersi anche lei, trasse gli occhiali dorati dal loro astuccio e li inforcò con gesto sicuro. Prese il telaio dalla sedia su cui l'aveva poggiato e riprese a ricamare.
In capo a qualche minuto continuò un discorso che non si era interrotto:
"E' stato un bel pomeriggio, vero?"
La signorina Ada guardò fuori di sbieco, al di sopra dei suoi occhiali, senza smettere di ricamare, e rispose in un sospiro.
"Si, è stata proprio una bella giornata!".