L’incerto chiarore dell’alba si insinuava lentamente, attraverso gli scuri socchiusi, nell’ampia camera da letto. Don Vincenzo Callisto era sveglio già da un bel pezzo. Anzi aveva l’impressione di non essersi proprio addormentato. Era impaziente di alzarsi. Di minuto in minuto scorgeva più chiaramente il mobilio alquanto lugubre, eredità di un’epoca passata. Una delle cose sulle quali non gli era stata chiesta la propria opinione. E, d’altronde, lui non si era permesso di esprimerla. La casa, sì, era opera sua, di affermato imprenditore edile, costruita senza badare a spese e misure, quantunque avesse accolto di buon grado osservazioni e suggerimenti dell’allora futura moglie. Per ingraziarsela e farle piacere. Ma anche per dare un segno tangibile delle sue possibilità alla famiglia nobile, pur se decaduta, che l’aveva accolto così prontamente. Ma l’arredamento era stato di esclusiva competenza di donna Carmina Iemma, che, in quanto nobile, per Don Vincenzo era depositaria assoluta di gusto e di stile.
Così non aveva battuto ciglio di fronte alla decisione della sposa di arredare la casa con il mobilio di famiglia, già appartenuto ai nonni e forse ai bisnonni.
Dal proprio letto egli osservava con occhi malinconici quell’esposizione di pezzi di antiquariato, imponenti, scuri, tutti in noce massiccio, qua e là tarlati, emananti un tanfo di stantìo e verso i quali non nutriva alcuna affezione. Gli riuscivano freddi ed estranei. La stessa freddezza ed estraneità che gli ispirava la visione della nobile signora, ancora addormentata nel letto accanto.
Il suo sguardo si posava con un misto di astio e ripugnanza sui due grandi letti con baldacchini e testiere grandi, sul comò specchiera con quattro cassettoni sul quale troneggiava un san Giovanni nella campana di vetro, sullo scrittoio con ribaltina, mai usato, e vari cassetti nell’ampio secrétaire, sulle tre sedie, una davanti allo scrittoio e due accanto ai letti, con sedute e schienali in pelle consunta, sul cassettone ai piedi del letto della padrona e sul grande lampadario in ferro battuto con pendenti di cristallo, o sulla bacinella retta da un treppiede, che non serviva a nulla perché fuori della stanza c’erano due bagni, uno grande per donna Carmina e uno più piccolo per sé.
Il giro d’orizzonte si arrestò su donna Carmina che ronfava nel suo letto, riversa, la bocca leggermente aperta. Gli sembrava un componente perfettamente appropriato a quell’arredo antico, inutile, ammuffito. Nei tanti anni, ormai, di vita coniugale non ricordava di averla vista diversamente da adesso, né un corpo attraente né un carattere piacevole, in qualche modo amabile e cordiale. La loro era stata un’unione di convenienza, per tutti e due. Lei aveva profittato dell’imprevisto buon partito che le permetteva di condurre un’esistenza senza preoccupazioni, lui si era fregiato di un piccolo distintivo di nobiltà, da esibire e far fruttare nel piccolo ambiente paesano. Buongiorno, don Vincenzo!… Don Vincenzo, favorite!… Gli ossequi della gente ne erano la dimostrazione. Dopo un iniziale periodo di cordialità, i rapporti si erano subito incanalati in una reciproca ancorché vantaggiosa sopportazione. Lei con le sue inalterate manie di grandezza, lui, praticone irriducibile, senza interessi né ambizioni al di fuori del proprio lavoro.
”Come ho potuto?”, gli venne da pensare ancora una volta. Ma fu solo un attimo. Subito distolse lo sguardo e rientrò in se stesso, l’unico posto in cui si sentiva a proprio agio, nel quale aveva imparato a rifugiarsi da anni.
Si alzò con furia dal letto e andò a scrutare la piazza attraverso gli scuri accostati. S’era fatto giorno ma non c’era ancora nessuno in giro. Chi lavorava in campagna era già partito prima dell’alba e chi rimaneva in paese forse era ancora a letto in balìa dei sogni, o degli incubi, mattutini. Non come lui che non riusciva più a dormire, tutto preso da pensieri che non avrebbe saputo dire nemmeno su che cosa.
Donna Carmina diede un colpo di tosse, si girò rumorosamente su un fianco facendo cigolare il letto e riprese a russare.
Don Vincenzo si voltò appena a guardarla, poi continuò a esaminare l’ultimo tratto della strada che terminava nella piazzetta, là in fondo, con la fontana monumentale che faceva festa a se stessa, dove, più tardi, avrebbe incontrato i suoi amici. Non si vedeva anima viva. No, al contrario, c’era qualcuno seduto sulla panchina. Era girato di spalle e seminascosto da un cespuglio. Ma si, era Raffaelone, lo riconosceva dalla corporatura tarchiata e dai folti capelli bianchi. Che ci faceva a quell’ora, tutto solo, nella piazzetta deserta?
Non stette più a lungo a osservare quel discepolo dell’ultima ora, si vestì velocemente, oddìo, gli anni si facevano sentire, e in breve si ritrovò in strada, bastone nella destra e pipa in bocca, stuzzicato da una picevole curiosità. Si avvicinò a Raffaelone che se ne stava tutto raggomitolato, con lo sguardo rivolto a terra. Quando si vide accanto i piedi nuovi arrivati alzò gli occhi lagrimosi, disperati, che fecero un certo effetto anche a quell’insensibile cuore di don Callisto.
Non si rivolsero parole di saluto. Abitudine. Erano entrambi schivi, e, soprattutto don Vincenzo, non usi a forme di cortesia. Don Vincenzo si sedette anche lui sulla panchina, appoggiò il mento sul manico del bastone e rimase in silenzio.
A un certo punto Raffaelone, che aveva ceduto al figlio il testimone dell’azienda agricola di famiglia, si portò agli occhi il fazzoletto a grossi quadri rossi e verdi. In realtà il suo nome era Raffaele ma tutti lo chiamavano Raffaelone a motivo del suo fisico possente, temprato dai lavori pesanti, ma anche per una certa grossolanità nei modi e nelle espressioni da uomo pratico e smaliziato. In quel momento, più che un omaccione, sembrava un fanciullo piagnucoloso e disperato.
L’aria era calma. Solo lo zampillo dell’acqua della fontana rompeva sommessamente il silenzio di quell’ora. Una vecchietta attraversò con passo lento la piazza, diretta alla chiesa. Poi passò un carro carico di fasci di canapa trainato da un bue lento, preceduto e seguito dal cigolìo delle ruote sul selciato. In cima al carico sonnecchiava un contadino con un cappellaccio in testa.
Raffaelone lo seguì con uno sguardo invidioso e parve commuoversi ancora di più. Lui, purtroppo, aveva ceduto sciaguratamente alle insistenze pressanti del figlio, quell’ingrato, che lo aveva implorato di subentrargli nella conduzione del fondo in riva al fiume. Adesso se ne pentiva. Ne piangeva proprio!
“Ho sbagliato tutto. Non mi dovevo arrendere”, esclamò a un certo punto Raffelone, come a conclusione di un discorso.
“Eh?”, sussultò don Vincenzo.
“Sì, nun aveva lassà la proprietà a quel senza cuore di mio figlio. Dopo tante fatiche. Anni e anni di sacrifici per portare annanz ‘a famiglia. Senza un giorno di riposo, senza ‘na festa, nemmanco di quelle comandate! Ho detto: facciamolo contento questo figlio, vediamo che sa fare. Vuole la terra? Gliela do e lo benedico. E’ giovane, ha altre vedute, sicuramente farà meglio ‘e me”.
“Hai fatto bene”, interloquì don Vincenzo.
“Nu cuorno. Scusate, don Vincè, se vi parlo così. E’ che sono troppo amareggiato”. Allargò le braccia, voleva continuare ma un groppo alla gola gli impedì di proseguire.
Don Vincenzo fece un cenno di comprensione.
“Maramé, non doveva finire così”, riprese Raffaelone dopo essersi alquanto controllato. “Pensavo di contare ancora qualcosa, volevo dare nu cunsiglio, curare nu giardiniello, badare a qualche animale da cortile, solo questo. Non volevo cummannà”.
“Invece?, disse di nuovo don Vincenzo.
“Invece mi hanno cacciato, mi hanno messo alla porta”.
“Ti hanno messo alla porta?”
“Si, mio figlio, ingrato, e quella vipera della moglie che l’a miso contro ‘e me. Lo tormenta e lo mortifica ad ogni minuto della giornata”.
Tacque di nuovo e don Vincenzo non aggiunse parola. Un po’ gli faceva pena, quel poveretto, e lo capiva, anche. Era una situazione che pure lui provava da tempo. Ma prendeva il sopravvento il suo istinto indagatore, predatorio, di tutti gli affari degli altri. Come si sa, ne godeva pienamente.
“E così, ti hanno fatto fuori da tutto?”, interrogò con interesse don Vincenzo, affondando con soddisfazione il dito nella piaga.
“Da tutto, da tutto. In casa, in campagna, da tutto. Nun conto cchiù niente. Mo’, so’ sulamente ‘nu viecchio fasteriuso che nun sape addo’ se mettere perché non sa più qual’è il posto suo. Che v’aggia dicere? Nisciuno mi chiede cchiù niente, nu parere, nu cunsiglio, ecco. Una vita di fatica per sfamarli e mo’ mi trattano peggio ‘e nu cane!”.
Don Vincenzo annuiva, sguazzava compiaciuto dentro quella disperazione. L’umanità gli offriva un altro caso da esaminare, da indagare, per ricercarvi un remoto, intimo piacere…
“Pazienza! Un po di pazienza! Tutto si aggiusterà, vedrai”.
“Vulite pazzià? Ormai sono finito. Non mi resta che uscirmene di casa ra’ matina priesto perché quello che vedo, o che sento, me fa sta’ mmalamente. Vedete, don Vincè, sono talmente abituato ad alzarmi prima che ffa juorne che non ho badato all’ora. Mi sono detto: vado dagli amici miei nella piazzetta. Ma a chest’ora…!”.
“E hai fatto bene. Come vedi sono qui anch’io. Mi sento solo come te. Confidati, in me trovi un amico che ti sta a sentire e consigliarti”
“Lo so, don Vincè. Grazie”, e chinò di nuovo la testa fin quasi ad appoggiarla sulle ginocchia, continuando a rimuginare sulla sua nuova condizione, abbandonato su una panchina, nei pressi della fontana che zampillava senza badargli. Non gli restava che attendere l’arrivo degli altri amici ai quali si era aggregato da poco tempo.