Quando la motonave attracca al molo di Arbatax, al termine di alcune ore di traversata su un mare piatto fino alla noia e solo di tanto in tanto bucato da neri delfini che fanno moine come cani saltellanti intorno al padrone, non abbiamo neppure una pallida idea di quello che ci aspetta sulla seconda isola del Mediterraneo. Si viene in Sardegna per il mare, non c’è dubbio. Le acque cristalline, dove è bello nuotare in mezzo a banchi di pesci, gli scorci panoramici, le rocce rosse e, non ultima, la cordialità della gente e la tranquillità dei luoghi invogliano a tornare.
E’ uno di quei posti in cui il paesaggio e lo spirito degli abitanti appaiono come due aspetti dello stesso universo, l’uno il riflesso dell’altro. In ogni angolo c’è qualcosa di selvaggio e di antico. Si ha la sensazione di un processo sospeso per sempre. Si avverte nelle parole, nei gesti, nei sentimenti qualcosa che ha a che fare col Tempo Immutabile, che vi penetra e vi conquista.
Nelle donne e negli uomini sardi c’è la forza del vento e l’aspetto primitivo dei monti, la gentilezza dei merletti e la forza corposa del Cannonau.
Colpisce il carattere forte degli abitanti e la loro ospitalità una volta che hanno sentito la tua amicizia. Essi si identificano con la loro terra aspra, difficile, eppure madre.
Non siamo qui solo per il mare. Siamo attesi sui monti. Vogliamo penetrare in questa terra, conoscerla intimamente. Allora partiamo subito per andare verso l’interno alla scoperta di quella catena che scorgiamo da lontano. E’ il Gennargentu, la “porta d’argento”. Sembra di sentire ancora la voce del vecchio maestro mentre spiega a una scolaresca perduta nei sogni: “Le montagne più alte della Sardegna si trovano nel massiccio del Gennargentu. Questo è bagnato dal fiume Flumendosa…”
Il ricordo delle elementari è indelebile a causa di questi strani nomi che ai bambini incutono un certo timore. Delle Alpi e degli Appennini abbiamo sentito parlare per tutta la vita per via dei luoghi di villeggiatura, di lavoro, per il meteo, per il bollettino del traffico, per i fatti di cronaca.
Del Gennargentu non ha parlato più nessuno dopo il signor maestro. Rimane lì, inchiodato nella memoria come un quadro antico appeso alla parete di casa, tanto familiare quanto distante, sfocato, senza più significato perché ormai non lo si guarda nemmeno più.
Il Gennargentu rimane, nell’immaginario, un luogo misterioso, più un antro abitato da esseri terrificanti che una montagna arsa dal sole. Gennargentu, già il nome mette paura.
Per chi non è sardo i nomi dei paesi intorno hanno un fascino misterioso. Arzana, Lanusei, Usassai, Aritzo, Asuai e tanti altri che fanno da corona a questo ammasso di roccia scistosa che è il più antico del continente europeo e comprende le cime più alte dell’isola come Punta la Marmora, il Bruncu Spina, la Punta Paulino…
Iniziamo il viaggio dal versante orientale partendo da Arzana, sulle pendici del Monte Idolo, e cominciamo a salire per una strada che già si è fatta deserta. Maria, la nostra guida, ci fa notare che solo qualche raro pastore ha la necessità di inerpicarsi per queste montagne. Le bestie vagano incustodite, su un terreno senza confini, senza recinti. Qua e là si notano capanni abbandonati senza la benché minima traccia dell’uomo. Gli unici segni di vita sono proprio i rari animali, immobili come monumenti. Vacche e cavalli, pecore e maiali, con il muso permanentemente a terra a brucare radi fili d’erba, si muovono di tanto in tanto senza curarsi di questi insoliti visitatori.
Sappiamo che nelle zone più inaccessibili si possono incontrare il muflone, il cinghiale, il daino, il grifone ma nel nostro viaggio non abbiamo incontrato nessun esemplare.
Dopo un bel po’ di strada facciamo una sosta per sgranchirci le gambe. Ci fermiamo davanti a una grossa pietra con una mappa del Gennargentu Arzanese.
Il sole è alto e forte ma non fastidioso per via di un leggero venticello che allevia l’effetto dei raggi. Anzi si desidera coprirsi con un leggero indumento. Che differenza con l’afa che ci siamo lasciati alle spalle!
Riprendiamo il cammino. Adesso la strada non è più asfaltata ma in terra battuta, disseminata di pietrisco. Dobbiamo procedere lentamente. I tornanti si susseguono, le prospettive cambiano. Non cambia il paesaggio. La terra è sempre più brulla. Poca erba, radi alberi rachitici, attorcigliati su se stessi, bassi, curvati da un lato a causa del vento permanente. Rappresentano bene le difficoltà della vita su questo ammasso deserto. Ci si chiede come abbia potuto vivere qui l’uomo, di cui pure vi sono tracce riconoscibili.
La persona che ci accompagna ci racconta della vita dei padri. I pastori rimanevano isolati per giorni e giorni, per settimane e anche per quindicine e tornavano a casa solo per rifornirsi e per fare figli. Isolati, soli con le loro bestie, non vedevano anima viva. Proviamo a immaginare la vita in questi posti ma ci spaventiamo al solo pensiero.
Continuiamo. La strada è sempre uguale, la nostra mèta ancora non si intravede. Da lontano vediamo la cresta più alta della catena avvolta un una leggerissima nebbiolina che ne sfuma i contorni fino a confonderla col cielo. Sulla sinistra si intravede la Punta La Marmora una specie di monolito roccioso che si erge su una altura come un turgido capezzolo.
Passiamo vicino a delle bestie che non ci degnano di uno sguardo. Tutte senza custode. Per quanto aguzziamo la vista non vediamo nessuno. Proviamo a guardare col binocolo verso alcuni pendii in lontananza ricoperti da una vegetazione più fitta. In un punto seminascosto dagli alberi c’è un capanno di pietre mezzo crollato. Non c’è altro.
Sarà così fino al termine del viaggio, ci dice la guida.
Strada facendo incontriamo un laghetto semi prosciugato e un fiumiciattolo. E' il Flumendosa, ma non abbiamo notato sorgenti. Saranno in posti inaccessibili che solo i pastori conoscono. Ma spesso nemmeno chi è di questi luoghi conosce tutti gli anfratti. Ci sono posti, ci viene spiegato,che non hanno mai visto un essere umano.
Il terreno brullo cede qua e là a piccoli pascoli che in questo periodo sono arsi dal sole e dal vento. Qualche rachitico pino tenta di sopravvivere in tanta desolazione, qualche acero, qualche castagno sfidano imperterriti i venti. Solo sui versanti più alti si scorgono boschi di querce, di castagni e di noccioli.
All’improvviso, su un pianoro, un po' distante dalla strada, ci appare la maestà decaduta di un grosso nuraghe franato. Lasciamo la macchina e ci incamminiamo sul pendìo arso. Ci inerpichiamo sui massi che una volta costituivano le pareti e arriviamo in cima. Pochi metri di altezza ma si ha la sensazione di essere saliti sulla cima di un monte. Guardiamo il paesaggio dall'alto della storia di gente senza nome, dalla profondità del tempo, da epoche remote da cui sono arrivati fino a noi reperti megalitici come i Menhir e le Domus de Janas, le case delle streghe.
Poi, finalmente, arriviamo sulla gobba di un monte che è la nostra mèta. Davanti a noi si apre una piccola radura al centro della quale c'è una costruzione in pietra con un piccolo porticato di legno dal lato dell'ingresso. Veniamo accolti dai padroni con una cordialità commovente, lui un tipo scattante, tarchiato, con un paio di mustacchi neri, lei piccolina, minuta e svelta, e i loro figlioli, due giovinette e un ragazzo vispi e allegri ma anche silenziosi come sanno esserlo i figli delle famiglie con sani principi e buona educazione. L'atmosfera è molto cordiale e ci mettono subito a nostro agio come se ci conoscessimo da anni.
Il senso dell'ospitalità della famigliola ci porta a visitare la casa e le annesse dipendenze. Entriamo in un locale semibuio a forma di nuraghe. Dentro è fresco. Su delle tavole disposte da una parte all'altra della costruzione sono sistemate delle file di forme di formaggio di un delicato color paglierino. Non restiamo a lungo per non alterare la temperatura dell'ambiente che sorprendentemente si mantiene fresca nonostante il sole di fuori.
All'uscita il sole ci acceca per un attimo, ma la nostra attenzione è attratta da un casotto dove stanno cuocendo alla brace la pecora e il porceddu. C'è una maestria antica nelle persone che sorvegliano i due grossi spiedi e di tanto in tanto accudiscono al fuoco. Ci accolgono anche loro con sorrisi sinceri. I ragazzi vanno e vengono diligentemente ognuno col proprio da fare. Il profumo della carne ci stuzzica ma non c'è da aspettare molto. Infatti siamo subito chiamati a tavola e comincia ad arrivare ogni ben di Dio. Prosciutto delle meraviglie, salami saporiti, formaggi dal profumo intenso, culurgiones, la tipica pasta sarda che ti servono ovunque, e poi il porceddu e la pecora e una gran varietà di dolci e il fantastico Cannonau a innaffiare il tutto con balsamici sorsi.
Vi risparmiamo ulteriori dettagli. In questo posto lontano dal mondo, situato più verso il cielo attraversato ogni tanto da nuvolette come ciuffi di ovatta, in cui nessun rumore viene a disturbare la quiete e, anzi, le nostre voci sembrano perdersi per non offendere la selvaggia natura d'intorno, ci sembra di vivere in una sospensione divina. Devono essere così le beatitudini..
I pensieri, le occupazioni e le preoccupazioni da cui siamo mortalmente presi qui non esistono. Al momento di accomiatarci dai nostri ospiti la cui sollecitudine ha qualcosa dell'antica Grecia, viene quasi l'impulso a rimanere per sempre qui, sul Gennargentu.