“Sembra ieri”, disse il vecchio più vecchio. In testa aveva un berretto scuro, difficile sapere se fosse per l’originario colore nero o per lo sporco sedimentato. Indossava una camicia che una volta doveva essere rossa e che ora mostrava qua e là chiazze di un rosa slavato. Portava pantaloni di velluto consunti all’altezza delle ginocchia, che sembravano fuori luogo considerata la stagione, ma, si sa, i vecchi non vi badano troppo. Ai piedi aveva dei sandali che mostravano anch’essi i segni dell’usura. Una lunga pipa di terracotta, spenta, pendeva dalla sua bocca, necessario ornamento alla sua figura d’altri tempi.
“Eppure ne sono passate di stagioni. Ne abbiamo viste di sventure”, aggiunse il vecchio più giovane, anche lui in abbigliamento trascurato ma più leggero, anche lui armato di un nodoso bastone.
I due amici avevano condiviso gioie e dolori, avevano riso e pianto, goduto e sofferto, sempre insieme, come due fratelli. Anche adesso che erano vecchi e si sentivano più spettatori che attori della vita passavano gran parte delle loro giornate in compagnia, raccontandosi a vicenda i fatti di una volta, trasformati e reinventati col passare degli anni.
Si sedevano all’ombra di un grande albero frondoso e da lì osservavano quel piccolo angolo di mondo che una volta era stato il loro parco giochi, poi il punto di ritrovo della festa, il testimone discreto dei convegni amorosi e adesso, completamente trasformato, sentivano estraneo.
Il vecchio più vecchio che, lo possiamo dire, si chiamava Fortunato, teneva entrambe le mani poggiate sul manico del bastone e sulle mani poggiava il mento. I suoi occhi lacrimosi fissavano un punto lontano e vago. Non guardava il fiume che scorreva lento davanti a sé né i salici che si curvavano sulle sue acque fino a lambirle, specchiandovi la loro verdura. Una volta vi si tuffava nelle calde giornate d’estate, insieme ai suoi compagni. E sulle sue rive andava in cerca di nidi o si sedeva a pescare. Ce n’erano di pesci allora, carpe, anguille, storioni e tanti altri. Ora i pesci non c’erano più, e non c’erano più nemmeno i compagni di allora. Dei tanti era rimasto solo Giuseppe che gli sedeva accanto.
No, non osservava l’acqua del fiume divenuta ormai torbida ma vagava a ritroso nel tempo frugando tra i suoi ricordi.
Anche il vecchio più giovane, Giuseppe, era perso in chissà quale dimensione. La loro conversazione si era interrotta e ognuno aveva preso la propria strada verso il passato. La calma assoluta dell’ora, di quando in quando rotta dal cinguettio di qualche uccello che giocava tra le fronde dei salici o dal canto monotono di una cicala, e il lento scorrere del fiume che pareva non aver alcuna voglia di andare verso il mare, e quella brezza leggera e gradevole che veniva a rinfrescare il posto ombreggiato mentre tutt'intorno la calura addentava uomini e cose, favorivano, come un lettino da terapeuta, l'emergere alla coscienza di ricordi che parevano rimossi.
Deliziose note di una fisarmonica giungevano dal piccolo bar nascosto fra i platani poco lontano. Un motivetto allegro e dispettoso che fendeva l'aria già afosa della tarda mattinata.
Fortunato chiuse gli occhi e un po' alla volta si abbandonò all'onda cullante di quel suono inseguendolo come i famosi topi del pifferaio e facendosi trasportare a tanti anni addietro, quando l’esuberanza giovanile percorreva le sue membra e la sua mente era occupata da altri pensieri che non quelli di adesso.
Un'altra fisarmonica cominciò a suonare nella sua mente, prima appena appena percettibile, poi sempre più forte e chiara. Quelle note affioravano come da una nebbia mentre in sottofondo avvertiva un parlottare sommesso, punteggiato da qualche gridolino. Come in un sogno del mattino, quando non si capisce se si è svegli o addormentati, Fortunato ascoltava voci e suoni sempre più distinti e gli pareva senza dubbio che fosse vita reale ma un attimo dopo non ne era più sicuro e tornava a convincersi che stesse sognando. Si ritrovava in una spaziosa sala da pranzo, con l’antica cristalliera su una parete e il mobile basso sulla parete di fronte. Tutt'intorno erano sedute donne mature e qualche vecchia in nero. Al centro della sala ballavano ragazze e giovanotti.
Il suonatore era un uomo del posto che tutti chiamavano Zi' Pasquale, per via di una chioma bianca e di un viso rugoso che gli davano più anni di quanti ne avesse in realtà. Ci dava dentro col suo tango elaborato e virtuosistico, con il fervore proprio degli autodidatti che hanno superato da un bel po' la fase di apprendistato. Senza Zi' Pasquale non c'era festa né convito. Egli accondiscendeva ben volentieri alle richieste che gli pervenivano per ogni fine settimana, fosse estate o inverno non faceva differenza. Il sabato e la domenica, puntualmente, lo si trovava ad animare le serate col suo strumento, da cui non si separava che al momento di andare a letto. Aveva imparato a suonare con estremi sacrifici e altrettanta tenacia, senza l'aiuto di nessuno e ciò lo rendeva molto orgoglioso. Mostrava disinteressatamente a tutti le sue capacità ma non faceva storie ad accettare qualche piccola attenzione. Erano soprattutto i giovanotti che, nonostante la scarsezza di mezzi, trovavano sempre il modo di gratificare il maestro, perché senza di lui non c'era possibilità di combinare incontri con le ragazze ed era una tragedia. Ma più delle attenzioni venali riuscivano i complimenti a cui rispondeva dando il meglio di sé.
Il tango si faceva sempre più travolgente e i ballerini, dal canto loro, esibivano tutta la loro arte con grande maestria. I cavalieri guidavano le dame con sicurezza, suggerendo i movimenti con lievi pressioni del pollice dietro il busto delle fanciulle. Eseguivano le loro figure con imperturbabile serietà. Non un gesto, non una parola o un’occhiata di troppo rivolte alla dama di turno.
Le ragazze non erano da meno. Ballavano tenendosi a debita distanza, concentrate sui passi e tutte intente a dare la migliore impressione, combattute tra il desiderio di mostrarsi spigliate e disinvolte e la ritrosia propria o indotta dall’ambiente. Sui loro volti si rivelava il turbamento con rossori più o meno evidenti a seconda dell'interesse per il cavaliere.
Il cerchio delle donne sedute tutt’intorno, nonne, madri, zie, vicine, seguiva con attenzione famelica le esibizioni al centro della sala, pronte a cogliere eventuali segnali e cenni di intesa, commentando sottovoce come la tale coppia facesse una bella figura, scambiandosi informazioni sui cavalieri, sulle loro famiglie e sul loro lavoro. Facevano e disfacevano potenziali matrimoni, bisbigliavano e sospiravano e qualcuna fremeva al pensiero che una figlia o una nipote stava ballando con un buon partito.
Il pezzo terminò e i ballerini tornarono ai loro posti. Zi' Pasquale accennò subito un nuovo motivo. Questa volta era un valzer. I cavalieri si mossero in ordine sparso verso le signorine in attesa cambiando dama. Ma qualcuno invitò a ballare la stessa compagna di prima e il coro delle matrone si agitò per un momento.
Fortunato, arrivato nel frattempo con l'amico Giuseppe, era stato raggiunto dalla padrona di casa. Esitava ad entrare nell'arena perché era timido. Era stato trascinato lì a forza e adesso si sentiva intimorito da tutti quegli sguardi concentrati su di lui. “Ballate, su ballate!”, lo sollecitò la padrona. Egli rispose con un sorriso forzato. Anche il suo compagno lo esortò lasciandolo subito e andando a presentarsi a una delle ragazze. Fortunato non sapeva che fare e restò a guardare. Dal fondo della sala la padrona gli faceva continui cenni.
Intanto il valzer di Zio Pasquale era andato avanti già un bel po' e stava per terminare quando finalmente si decise ad invitare una ragazza libera che sembrava non aspettare altro. Ballarono in silenzio, senza guardarsi. Però parlava il suo corpo per lei. Nonostante la distanza egli sentiva sotto la mano le carni della giovane che si muovevano, si strusciavano, mandavano vaghi messaggi.
Anche questo pezzo finì e ognuno tornò al proprio posto senza scambiare parola. Le ragazze erano accaldate, le loro sorveglianti ancora di più e si sventolavano con rapidi gesti.
Zi' Pasquale non perse tempo. Si riformarono le coppie per un altro giro. Stavolta Fortunato fu più audace e si offerse immediatamente alla ragazza di prima. Mentre ballavano i loro sguardi si incrociarono per un istante che sembrò lunghissimo. Lei aveva dei begli occhi neri e profondi. Osservò i suoi capelli corvini deliziosamente ondulati, intuì le sue fattezze dolci e armoniose, i suoi movimenti erano essenziali eppure così sensuali. Egli la vedeva solo adesso e ne rimaneva colpito. Avrete già indovinato, se ne innamorò all'istante.
***
Fortunato era entrato da un pezzo nella maggiore età ma non aveva ancora trovato una sistemazione. Conduceva un'esistenza precaria, più votata all'aspettativa che all'azione, pensando sempre di essere un giovanotto di primo pelo a cui si sarebbero un giorno aperte tutte le porte. In fondo era un ottimista e pensava che prima o poi avrebbe trovato la sua strada.
La fiducia nel futuro si accompagnava a un'innata indolenza che gli tarpava la volontà e i buoni propositi che pure coltivava quando si metteva a ragionare su se stesso, riconoscendo che avrebbe dovuto decidersi a trovare seriamente un lavoro stabile e formarsi una famiglia.
Pur vivendo alla giornata, in cuor suo non si sentiva un perdigiorno, votato a vivere la sua vita alle spalle della famiglia e della società. Al contrario, era animato da buone intenzioni e desiderava rendersi utile e in prospettiva vedeva se stesso come un cittadino onesto e lavoratore.
Purtroppo le buone intenzioni non erano seguite da fatti concreti. Era un sognatore, gli mancava il senso pratico, perciò rimandava sempre qualsiasi scelta e il tempo passava, passava.
Ma anche un altro lato del suo carattere gli impediva ogni determinazione. Era inguaribilmente, romanticamente malinconico. La malinconia era il suo pane quotidiano. Essa lo prendeva all'improvviso, soprattutto nelle sere d'estate, quando i profumi della campagna impregnavano l'aria e tutto il suo essere spasimava di voluttà. Sentiva dentro di sé un calore che si irradiava per tutte le sue membra e lo faceva torcere di desiderio.
A volte si allontanava dall’abitato e andava a sdraiarsi nell’erba fresca. Un cane, allarmato, si metteva ad abbaiare, seguito immediatamente da un altro e da un altro ancora. In breve tutta la campagna risuonava di cento latrati che percuotevano a lungo l’aria immota con il loro fastidioso concerto.
Poggiava le mani dietro la nuca e rimaneva a contemplare le stelle, occhi freddi che lo rimiravano dal fondo di un cielo nerissimo. Per quanto girasse la testa di qua e di là, vedeva per ogni dove sciami di coriandoli luminosi e gli sembrava di non avere più il suo corpo e di volare tra gli astri. E così s'abbandonava ad una dolcezza infinita.
La visione del firmamento, l'intenso odore dell’erba e l’aria mite aumentavano tanto le sue pene che a volte desiderava morirne.
***
Era in quei momenti che ripensava alla ragazza alla quale non non aveva mai osato rivolgere la parola, in preda a una timidezza feroce.
Ricordava ancora con imbarazzo la sera in cui era stato trascinato a forza in quella festicciola privata. Giuseppe, desideroso di una spalla, lo aveva convinto a fatica ad accompagnarlo ma, mentre l’amico di sempre si era buttato immediatamente nella mischia, egli era rimasto intimorito e rosso sulla porta. La padrona di casa lo aveva invitato più volte a ballare perché non le piaceva che i suoi ospiti si tenessero in disparte.
Adesso riconosceva che, nonostante tutto, quella era stata la sera più bella della sua vita, quando aveva conosciuto la ragazza dagli occhi neri e misteriosi. Si chiamava Gina e lavorava in una sartoria. Era rimasto folgorato dal suo sguardo nella cui voragine era precipitato e non ne era più uscito.
Da quella sera Fortunato era perdutamente innamorato di lei, non pensava che a lei. E aveva cominciato uno strano corteggiamento, fatto di interminabili andirivieni in compagnia del suo amico davanti al laboratorio dove lei lavorava e di lunghissimi, quanto inutili, appostamenti.
Il suo interesse non era passato inosservato. E’ difficile che una donna, per quanto inesperta, non se ne accorga, ed egli aveva cominciato a leggere nello sguardo di lei le sue stesse emozioni e le sue stesse pene. Si guardavano per momenti lunghissimi, perdutamente presi in quel loro rapporto fatto di dichiarazioni senza parole, di sorrisi senza espressione, di occhiate furtive, di estatici abbandoni.
Passarono i giorni e passarono i mesi senza che Fortunato facesse il benché minimo passo per dirle a parole quello che sentiva nel cuore. Era contento di quella muta conversazione che si era instaurata fra loro due e non cercava altro.
In verità tante volte era stato sul punto di rivolgerle la parola ma all’ultimo istante era stato preso dal panico e non ne aveva fatto nulla. Si prefigurava sempre un’occasione migliore per parlarle e finiva col rimandare a un momento successivo. Insomma non si risolveva e il tempo passava inesorabile.
Era trascorso un anno e tutto procedeva come la prima volta. Fortunato si contentava di godere della vista di lei, felice di quell'amoreggiamento segreto. Ma un giorno apprese da Giuseppe che Gina, l'oggetto dei suoi sogni e la causa delle sue pene, stava per convolare a nozze, per giunta con uno molto più anziano di lei. Dopo essersi molto disperato se la prese con se stesso, per la sua cronica indecisione, per la sua inenarrabile timidezza. Non poteva certo biasimare la ‘sua’ ragazza se si era risolta a fare la cosa più naturale di questo mondo. Forse non si era neppure accorta di lui.
Il suo sentimento si trasformò istantaneamente in astio, un astio profondo, sprezzante. Da un momento all’altro era passato dal ruolo di spasimante a quello di innamorato tradito. Quegli sguardi insistenti non erano, dunque, che inganno, un inganno perpetrato cinicamente fino al giorno prima! Ora veramente capiva che la sua era stata tutta una illusione.
All’abbattimento iniziale era subentrata una fredda indifferenza, come se le cose non lo riguardassero più. Leggendo dentro di sé avvertiva con stupore che non c’era più alcun sentimento che si potesse definire amore, che i suoi pensieri non erano più perennemente rivolti verso di lei.
Ormai solo per abitudine percorreva la strada della sartoria. Un giorno, come al solito, lei era sulla porta e sembrava stesse lì ad aspettarlo. I loro sguardi si incrociarono ancora una volta ed egli si sentì per un attimo nuovamente venir meno. Ma fu solo un attimo. Le loro anime non comunicarono, quella luce misteriosa che tante volte aveva scorto nel suo sguardo non aveva più forza, non era altro che un riflesso senza più alcun potere. Gina era solo una ragazza che aveva l’abitudine di sostare sulla soglia di un laboratorio di sartoria.
Tutto questo ricordava Fortunato nei suoi momenti di malinconia, quando, disteso nell’erba fresca, osservava le stelle che brillavano in cielo ed era preso da una gran commozione. Nutriva dei sentimenti che non sarebbe riuscito a spiegare a parole ed era sicuro che solo a lui era concesso di percepire la grandezza dell’universo. L’aria della notte era calma e dolce ed egli avrebbe voluto che non sorgesse più l’alba.
***
All’improvviso la melodia si interruppe. Dal bar nascosto tra i platani arrivavano solo gli schiamazzi di qualche avventore alticcio. Il vecchio più vecchio tornò lentamente in sé, al canto della cicala che sembrava prendere vigore e al fiume che continuava a scorrere lento e distaccato.
Il suo viaggio nel tempo era terminato. Gli era rimasto soltanto il ricordo di giorni ormai andati, di affetti mai dimenticati. Si rese conto che quel volto misterioso, quegli occhi neri e profondi, non l’avevano, in realtà, mai lasciato, che erano stati sempre con lui e in lui. Il ricordo di quella sera penosa ma dolcissima lo avrebbe accompagnato per sempre, fino alla fine dei suoi giorni.
Si, pareva ieri, ma quanto tempo era trascorso? Una vita intera, credendo di aver soffocato le proprie illusioni. Invece, eccolo ancora a rimuginare il passato, ad assaporare il gusto agrodolce di ciò che era stato e di ciò che sarebbe potuto essere.
Lacrime calde gli rigavano il volto e scendevano a bagnargli le mani poggiate sulla curva impugnatura del bastone. Guardò Giuseppe che gli sedeva accanto col capo chino, immerso anche lui nei propri pensieri, e non disse nulla.