Erano già tutti riuniti, come ogni giorno, nel giardinetto spelacchiato, al centro della piazza. All’ombra della grande quercia che ancora oggi ammanta con la sua frondosa corona buona parte dello spiazzo, aspettavano l’esaurirsi degli arrivi. Per tacito patto arrivavano tutti più o meno alla stessa ora.
C’era mastro Minico Cerino, conoscitore come nessun altro dei mestieri. Sapeva tutto di attrezzi e di produttori, di prezzi e di procedure. Naturalmente c’era anche Vittorio Caiazzo, ex impiegato comunale, il quale si dava un po’ di arie verso l’ignorante resto della truppa. Aveva passato quaranta anni dietro un tavolinetto in una minuscola stanza spoglia a distribuire certificati redatti dai vari uffici e prendendo nota dei nominativi in un grosso registro. Fatica improba perché sapeva appena appena scrivere e sudava le sette camicie ogni qualvolta doveva prendere nota di una consegna. Conosceva tutto di tutti, era sempre incline a punzecchiare ma non tollerava che qualcuno lo ripagasse con la stessa moneta. C’era anche Graziano Caruso, che annuiva di continuo. Parlava a monosillabi e andava in confusione se gli si mostrava interesse. Uomo semplice e schietto, soggetto purtroppo privilegiato dei lazzi dell’impiegato comunale. Arrivarono anche Peppuccio Mannesi, vecchio maniscalco (la mancanza di cavalli gli aveva tolto il mestiere) e Raffaelone, che aveva ceduto il fondo agricolo al figlio e adesso non sapeva come passare il tempo. Ma non è il caso di continuare. La combriccola era piuttosto numerosa e bene assortita.
“Don Vincenzo non si vede!”, disse Peppuccio il maniscalco.
Una brezza leggera accarezzava incessantemente la piazza e muoveva appena le foglie della grande quercia. Di tanto in tanto deviava lo zampillo della fontana il cui mormorio nessuno ascoltava più. La cicala, che non aveva mai abbandonato il suo ramo dall’inizio dell’estate, cantava e cantava, imperterrita.
“Ma don Vincenzo non si vede?”, ripeté Peppuccio il maniscalco.
“Don Andrea, avete visto don Vincenzo?”, disse Raffaelone che non aveva più il suo terreno in riva al fiume e ci teneva a integrarsi nella comitiva.
“Non tarderà molto. Gli piace arrivare per ultimo”, rispose don Andrea Vaccarone, amico da sempre di don Vincenzo Callisto. Nell’attesa se ne stava seduto un po’ in disparte. La condizione di nobile del maestro dava anche a lui una certa dose di importanza, perciò si teneva un po’ sulle sue.
Il gruppo non sapeva fare a meno della presenza di don Vincenzo. Egli era l’unico ad aver fatto le scuole (infatti aveva frequentato fino alla quinta), il solo ad aver visto il mondo perché era andato soldato mentre gli altri avevano vissuto sempre nel borgo natìo, al lavoro nei campi o nelle officine, aveva una saggezza innata arricchita dall’esperienza.
“Ma quando arriva don Vincenzo?”, chiese a voce alta mastro Minico. Domanda oziosa perché nessuno poteva rispondere.
“Eccolo!”, esclamò Graziano Caruso, ed era più di un discorso per lui che annuiva soltanto.
“No, non è lui. Sarà un addetto del circo. Danno uno spettacolo nei paraggi”, sentenziò Vittorio, ex impiegato comunale che sapeva tutto.
“Si che è lui”, disse don Andrea Vaccarone, senza alzare la testa.
Tutti guardavano nella stessa direzione. Ma si, era don Vincenzo. Infatti era appena sbucato dalla stradina che scende dalla chiesa e si immette nella piazzetta col giardino, la fontana e la cicala canterina.
Appoggiandosi al bastone dal manico ritorto, Don Vincenzo avanzava a passi studiatamente lenti. Intanto osservava di sottecchi il gruppo dei discepoli in attesa impaziente. Di tanto in tanto si fermava ad assaporare l’intimo piacere di aver provocato l’aspettativa della propria persona.
Finalmente fece il suo ingresso nel giardinetto come un attore consumato. Tutti gli si fecero intorno:
“Che eleganza, don Vincenzo!”, disse uno.
“Che gusto!”, disse un altro.
“Ma dove li comprate questi capi?”, fece un terzo.
Don Vincenzo si compiaceva di tutti quei complimenti, della meraviglia suscitata dal suo abbigliamento. Non sapeva, o faceva finta di non sapere, che quelle smancerie contenevano un non troppo velato fondo di scherno, delle prese in giro, a parer suo insensate, verso ciò che lui considerava un suo personale appannaggio, cioè la vera eleganza. Invero quel giorno era addobbato in una maniera per lo meno singolare. Si era presentato, infatti, con una camicia hawaiana sbottonata su un petto raggrinzito da cui penzolavano radi peli bianchi. Portava dei pantaloni a scacchi bianchi e grigi. Davano l’idea di un pigiama o di un costume da pagliaccio. Ai piedi un paio di mocassini leopardati, una vera sciccheria.
L’insieme stonava non poco con il luogo e l’età di chi indossava quei capi. Un coraggioso, non c’è che dire. Ovviamente quel volgo ignorante e zotico col quale don Callisto era costretto ad avere quotidiani rapporti, assolutamente digiuno di nozioni di moda e senza alcuna familiarità col lusso, si sbellicava dalle risate.
“Don Vincenzo, siete elegantissimo!”, disse in un impeto di commozione il fedele don Andrea Vaccarone, l’unico a sapere quanto fosse sensibile il suo maestro all’adulazione.
“Grazie, don Andrea, siete un vero intenditore!”, rispose convinto e compiaciuto don Vincenzo.
“Ma che si è messo?”, disse divertito Raffaelone senza più terra ma sempre con una sgarberìa da zoticone. Lo disse sottovoce ma non tanto da non farsi sentire dagli altri, attizzando ancor di più la loro ilarità. Ridevano ma don Vincenzo non ci badava. Ascoltava solo i complimenti, gratificato dalle espressioni di meraviglia e non altro.
Poi il suo sguardo si posò su Vittorio, l’impiegato comunale che indossava una camicia di seta e dei pantaloni rigati. Niente di eccezionale, naturalmente, ma gli piaceva essere in ordine, glielo imponeva la sua antica professione di scrivano comunale.
Don Vincenzo ebbe quasi un colpo. Si avvicinò con sguardo indagatore a Vittorio, lo squadrò da capo a piedi, gli toccò un lembo della camicia, poi gli prese tra due dita la stoffa dei pantaloni. Esaminò, studiò e finalmente emise la sentenza: “Roba scadente”.
“Bravo, don Vincenzo”, disse uno.
“Avete ragione, don Vincenzo. Questi non sa cosa significa vestir bene”, disse un altro.
“Certo non posso competere con voi, don Vincenzo. Siete un maestro di eleganza”, disse Vittorio con una punta di sarcasmo.
Ciò bastò a tranquillizzare il narcisismo di don Vincenzo Callisto, il quale era nobile (nessuno ha mai saputo perché) e vestito alla moda.
“Bello, veramente bello. E’ roba fine! Solo voi potete indossarla!”, diceva più d’uno continuando a congratularsi e ad applaudire.
Lo toccavano, valutavano la stoffa, il disegno, i colori, lo facevano girare per avere un quadro completo, naturalmente lodando anche il portamento, che ha la sua importanza, è evidente, le robe bisogna saperle indossare, con spigliatezza e disinvoltura, non è da tutti. Don Vincenzo era consapevole della sua superiorità ma nondimeno aveva il cuore pieno di riconoscenza. “Grazie, grazie!”, diceva.
“Evviva don Vincenzo”, esclamò, avendo smarrito il senso delle proporzioni, Peppuccio, il maniscalco senza più cavalli.
Don Vincenzo, soddisfatto, si sedette sulla panca a lui riservata, quella più alta, e si accinse a dispensare le sue pillole di saggezza.