( anno 2004 )
Moltissimi libri sono stati scritti su Atlantide, ed ancora molti altri vedranno la luce, man mano che le nuove scoperte offriranno ulteriore materiale per formulare altre congetture. L’interesse della nostra era nei confronti dell’archeologia “misteriosa”, delle antiche civiltà, della ricerca delle nostre origini, di possibili contatti con extra-terrestri, è il segno tangibile di una volontà di comprendere e di travalicare, per quanto è possibile, i limiti del mistero. Questo risveglio delle menti da un lungo torpore ha attivato non solo gli “addetti ai lavori”, ma anche i profani, e la mole dei testi scritti in proposito è davvero impressionante. Tanto che oggi, a differenza di qualche anno fa, negli scaffali delle librerie possiamo trovare intere sezioni dedicate a questi temi. E questo, a mio parere, è indice sia dell’interesse sempre crescente per tali argomenti, sia della consapevolezza che, nonostante la nostra sia un’era tecnologicamente avanzata, ancora molte cose del nostro remoto passato, a partire dalla comparsa dell’uomo sulla Terra, ci sono sconosciute, tanto da continuare ad interessarcene.
Ho letto molti libri su Atlantide, e tantissimi articoli di riviste più o meno note, o tratti da siti internet, e, a ben vedere, siamo ancora nel campo delle supposizioni, poiché anche laddove una teoria risulti coerente, manca poi di prove scientifiche che possano supportarla interamente.
Il fatto che non esista una prova inconfutabile dell’esistenza di Atlantide non significa, però, necessariamente, che si tratti solo di una bella leggenda, creata dai nostri primitivi antenati, e tramandata fino ad oggi. Non so spiegare bene il perchè, ma mi viene spontaneo pensare che sia più la nostra “moderna” ed “organizzatissima” civiltà ad aver bisogno di mitizzare e di rendere fantastica la realtà, piuttosto che i nostri antenati, che forse altro non fecero che registrare alcuni eventi di cui furono testimoni con una partecipazione ed una spiritualità che oggi non siamo più in grado di comprendere, e quindi stravolgiamo.
E, d’altronde, è anche fuor di dubbio che molte scoperte, tra cui importantissime, anche se ancora tutte da analizzare a fondo, quelle fatte dall’archeologia subacquea, insinuano seri dubbi su quanto realmente e ufficialmente conosciamo, aprendo uno spiraglio sulla possibilità che una qualche civiltà progredita sia esistita in tempi remoti.
Credendo fortemente alla probabilità che “Atlantide” sia esistita, ed essendone affascinata, ho continuato a seguire, con maggiore interesse, le nuove scoperte, a reperire articoli, e ad acquistare libri, anche quelli di autori che ad Atlantide non credono affatto. Credo, infatti, sia giusto avere una visione completa, ed ascoltare anche la voce dell’ “opposizione”.
E’ proprio per cercare di fare un po’ di ordine tra le tante ipotesi, notizie, localizzazioni, che nasce questo lavoro, che si propone solo di riorganizzare e ricordare la storia di Atlantide ed i numerosi interrogativi e dibattiti ad essa legati, da Platone in poi, dando modo a tutti coloro che leggeranno queste pagine di avere in mano elementi diversi per trarre ciascuno le proprie conclusioni, sulla base di una bibliografia che, in ogni caso, è davvero limitata rispetto alla quantità di testi scritti, alcuni dei quali introvabili. E nonostante non abbia una reputazione da difendere, il profondo interesse per quest’argomento e la volontà di condividerlo con tutti voi, mi obbliga a chiedere in anticipo tutta la vostra comprensione se troverete alcuni punti lacunosi, ed altri meglio trattati, ed anzi spero che questo mio lungo lavoro possa servire non solo a voi, ma anche al mio piccolo bagaglio culturale, nella speranza che quelli di voi che vogliano aggiungere, correggere, ampliare quanto da me scritto, colmando così le mie lacune, siano stimolati a farlo, rispecchiando così il nostro carattere distintivo, che è quello della collaborazione tra “semplici” appassionati, e non certo tra cattedratici.
E, in proposito, credo che in una premessa possa trovare spazio anche un’altra considerazione del tutto personale. Ho notato spesso un atteggiamento di chiusura e di diffidenza nei confronti di nuove teorie ed ipotesi, che a volte non vengono neanche prese in considerazione. E’ solo in questo senso che, a volte, ho usato il termine “pregiudizio”. E’ infatti comprensibile che, credendo nelle proprie idee, si continui a sostenerle, così come è umano e logico trovare un certo grado di parzialità nei testi o negli articoli. Se è vero che la Scienza non può e non vuole confrontarsi con ipotesi e concetti troppo fantastici e fantascientifici, è anche auspicabile, però, che quest’atteggiamento non si trasformi in un alibi dietro cui trincerarsi ogni qualvolta si elevi una voce diversa, correndo il rischio di sollevare seri dubbi non sulla volontà, ma sulla capacità di replicare (laddove non regni il più totale silenzio), senza dover fare ricorso ad offese, o sarcasmi, per mancanza di valide argomentazioni.
La mia speranza è che la parola Ricerca assuma connotati diversi dalle guerre in difesa del prestigio personale, perchè, in questo caso non siamo nel campo dell’individualità o della proprietà privata. La verità, soprattutto quando si parla delle origini dell’umanità, è un bene universale, e in quanto tale va ricercata nella più stretta cooperazione e collaborazione, tanto più che appare ancora assai discutibile.
Mi auguro che chi di dovere, nel rispetto di quelli che come me e tanti altri devono necessariamente affidarsi, scientificamente parlando, al lavoro altrui (ma hanno ugualmente validi strumenti, quali l’intelligenza, la sensibilità e la voglia spassionata di capire), percorra la strada del sano confronto, che non eluda a priori concezioni diverse, ma le verifichi, per quanto si possa fare, pronto a rivedere le proprie posizioni laddove questo si renda necessario, si tratti dei cosiddetti “scienziati ortodossi” o degli “innovatori”. Forse anche così la Verità sarà lontana, ma di sicuro non si avrà più la sensazione, davvero sgradevole, che la ricerca sia appannaggio di pochi, e di essere spettatori passivi di un duello verbale tra sordi, di un gioco in cui si dimentica chi è il vero beneficiario del “premio” finale: l’Uomo.
Forse, quando tutto ciò accadrà, qualche tessera di quest’enorme puzzle, che è la nostra storia, potrebbe trovare la sua giusta collocazione, ed un grande servizio sarebbe reso all’umanità.
INTRODUZIONE
E gli dei tirarono a sorte. Si divisero il mondo:
Zeus la Terra, Ade gli Inferi, Poseidon il continente sommerso.
Apparve Atlantide. Immenso, isole e montagne,
canali simili ad orbite celesti.
Il suo re Atlante conosceva la dottrina della sfera
Gli astri la geometria, la cabala e l’alchimia.
In alto il tempio. Sei cavalli alati, le statue d’oro, d’avorio e oricalco.
Per generazioni la legge dimorò nei principi divini,
i re mai ebbri delle immense ricchezze, e il carattere umano s’insinuò
e non sopportarono la felicità, neppure la felicità.
In un giorno e una notte la distruzione avvenne.
Tornò nell’acqua. Sparì Atlantide.
(“Atlantide” dall’album “Cafè de la Paix” di Franco Battiato)
Non una citazione letteraria, per una volta, ma una bellissima canzone per ricordare uno dei miti più appassionanti che da secoli vedono l’uomo impegnato nella ricerca di quella che potrebbe essere stata la culla di tutte le civiltà. Più esattamente, da circa 2500 anni, quando per primo Platone ne parlò.
Affrontare l’argomento “Atlantide” non è affatto semplice, soprattutto per la quantità immensa di pagine che si possono leggere sul tema; un’infinità di libri che vedono, sostanzialmente, due schieramenti opposti: i sostenitori dell’esistenza di Atlantide e quelli secondo cui tale impero rimane solo una bella leggenda. Nell’affannoso tentativo di individuarla a tutti i costi, poi, Atlantide è stata localizzata in così tante parti del globo, e solo per elencarle tutte e spendere due parole su ognuna di tali ipotesi ci vorrebbe una vita. Molti studiosi hanno accettato interamente la versione di Platone, senza considerarla come un’invenzione del filosofo al fine di sostenere le sue idee politiche; altri, invece, hanno sfrondato, reinterpretato e rimaneggiato quei dati che non collimano con le loro ipotesi; ed ancora, molti sono quegli studiosi, definiti “d’avanguardia”, che hanno portato avanti le loro ricerche con circospezione e serietà, senza però ignorare, ed anzi a volte portandoli all’attenzione non solo della scienza ma anche del grande pubblico, elementi in favore di Atlantide, ma destabilizzanti di un quadro storico fin qui comunemente accettato.
Il problema fondamentale non è solamente la vastità di teorie, ma anche il fatto che per ogni prova esiste una controprova. In realtà, accostarsi al tema con la serietà che merita implica un’attenta valutazione di tutta una serie di fattori, che spesso coinvolgono discipline diverse: la geologia, l’antropologia, la storia, la paleontologia, l’oceanografia, l’archeologia subacquea, la biologia, la zoologia, la paleosismografia, e via dicendo, nonché lo studio dei miti e delle fonti classiche in nostro possesso. L’interdisciplinarità diventa la base essenziale, ed alcune di tali scienze sono ancora molto giovani.
Affermare che non esista la benché minima possibilità che Atlantide sia esistita sembra un parere troppo affrettato. Nel corso degli ultimi anni, come tutti abbiamo notato, l’atlantologia è divenuta un fenomeno imponente, ma è altrettanto vero che lo scetticismo nei suoi riguardi permane. Infatti, se si ammettesse anche solo la possibilità che in qualche parte del mondo sia esistita una popolazione molto progredita ed evoluta nell’epoca indicata da Platone, (9.600 a.C.), tutti i dogmi scientifici, storici e religiosi che ci accompagnano fin dalla nascita vedrebbero le loro stesse basi sradicarsi e l’intera storia andrebbe riscritta. Non si potrebbe più far riferimento agli albori della civiltà menzionando tra i primi popoli della preistoria i Sumeri o gli Egizi, ma si dovrebbe andare molto indietro nel tempo, e confrontarci con una realtà completamente diversa. Tutte le discipline umanistiche e scientifiche andrebbero riviste, alla luce di una comune matrice razziale, religiosa e culturale. Il che porterebbe nuovamente in auge la teoria diffusionista, secondo cui è esistito un punto geografico-culturale da cui poi la civiltà si è irraggiata (ed anche qui si dovrebbe spostare l’origine di quest’unica fonte). E’ dunque facilmente comprensibile il perché di tanto scetticismo: è più semplice negare, calare un velo, e liquidare la faccenda, piuttosto che dover cominciare tutto daccapo. Comprensibile, sì, ma non più giustificabile alla luce di tanti e tanti indizi (ovvero anomalie), e di recentissime scoperte che ci parlano di un lontanissimo passato che molti studiosi stanno cercando di far emergere dalla nebbia dei pregiudizi e dell’ortodossia.
PLATONE
Atlantide è “figlia” di Platone, il filosofo greco che nel IV secolo a.C. puntò i riflettori sul continente sommerso.
Credo sia importante accennare alla vita del filosofo, e allo sfondo storico e politico in cui crebbe, in virtù del fatto che sono molti a sostenere che fu proprio la sua idea di politica a generare ex novo la storia di Atlantide.
Platone nacque tra il 428 e il 427 a.C. da una famiglia aristocratica, con un ruolo determinante nella vita politica e sociale di Atene. La famiglia del padre, Aristone, rivendicava la discendenza da Codro, ultimo re di Atene; quella della madre, Perictione, risaliva a Dropide, amico e parente di Solone, che dunque è imparentato anche con Platone.
Platone, il cui vero nome era Aristocle, conobbe Socrate quando aveva vent’anni, e gli anni passati in sua compagnia ed il suo insegnamento segnarono in modo decisivo tutto il suo pensiero, nonché le sue scelte di vita. Altro personaggio decisivo nella formazione del filosofo fu lo zio materno, Crizia, futuro tiranno di Atene. Attraverso Crizia, Platone venne a contatto con quegli estremisti aristocratici e filospartani che auspicavano una restaurazione del potere oligarchico ad Atene. E questo avvenne con il governo dei Trenta Tiranni, in cui personaggio di spicco era proprio Crizia. Platone, che sotto la spinta dello zio aveva partecipato al governo, ben presto comprese che il potere oligarchico realizzato ed instaurato con la violenza, con il rifiuto stesso della legge, che costò la vita a Crizia, non era quello che cercava. Convinto della necessità della mediazione politica e di un potere che fosse anche saggio e sapiente, sulle orme degli insegnamenti di Solone e Socrate, Platone combatté sempre per un potere aristocratico, che rispondesse anche alle esigenze degli altri ceti sociali. La sua concezione del re-filosofo, l’unico in grado di governare in quanto possessore della verità, mirava ad una vera e propria riforma della società, guidata in modo tale che ambizioni personali e cupidigia fossero messe al bando, riducendo il più possibile sia l’espansione colonialistica sia il commercio, e dando invece predominanza all’agricoltura. Un tale governo avrebbe avuto come obiettivo primario il bene comune, vietando la proprietà privata ai filosofi ed ai guerrieri.
L’instaurazione del regime democratico ed il processo a Socrate furono eventi decisivi, che spinsero Platone ad abbandonare la militanza politica e la sua città, per viaggiare in tutta la Grecia, Egitto, e Italia, giungendo in Sicilia, in particolare a Siracusa, nel 388, con l’intenzione di attirare dalla sua parte il tiranno Dioniso, e di farne un re-filosofo, ma l’impresa fallì, e sembra che Platone fu preso schiavo nell’isola di Egina, e riscattato poi dagli ateniesi.
Al ritorno nella sua città, nel 387, fondò l’Accademia che giuridicamente era un’istituzione dedicata al culto delle Muse; ma in realtà era anche politica, raccogliendo tutti i giovani aristocratici del mondo greco; e scientifica, essendo frequentata non solo da filosofi ma anche da matematici, astronomi, scienziati. Istituzione quindi molto complessa, ed il primo grande istituto di educazione superiore nella storia della Grecia. Nell’Accademia, maestri e discepoli vivevano una vita in comunione, ed il progetto primario era un processo di riforma etica e politica basato sul sapere, sia filosofico che scientifico. Nel 367, morto Dioniso il Vecchio, Platone tornò a Siracusa, e fece un secondo tentativo con il figlio del tiranno, Dioniso il Giovane, sotto la richiesta di suo zio, Dione. Essendo i rapporti tra Dione ed il nipote tiranno molto tesi, la sorte fu l’esilio per Dione ed un’altra cocente delusione per Platone. L’ultimo viaggio a Siracusa, nel 361, fu fatto con la promessa da parte del tiranno che Dione sarebbe stato richiamato dall’esilio. Cosa che non avvenne, ed anche stavolta il ritorno del filosofo ad Atene fu complicato. Nel 353 Dione fu ucciso, dopo aver tentato di sconfiggere la tirannia siracusana. E Platone morì ad Atene di lì a poco, nel 347, mentre stava ultimando le Leggi, ignaro del sopraggiungere dell’epoca delle grandi monarchie.
I Dialoghi scritti da Platone risentirono naturalmente dell’influenza dei personaggi che gravitarono nella sua vita e che ne influenzarono il pensiero. E’ grazie al Timeo (ultimato) ed il Crizia (incompiuto), dialoghi dell’ultimo periodo, che assistiamo alla nascita, alla vita e al declino dell’impero di Atlantide. La lettura dei due testi ci fornisce elementi preziosi per la nostra ricerca, ed è per questo motivo che ho inserito nel mio lavoro le pagine interamente dedicate all’Atlantide da Platone.
I Dialoghi non parlano esclusivamente di Atlantide. Nel Timeo, più lungo del Crizia, i temi che occupano il maggior numero di pagine sono di carattere filosofico, ma nonostante questo le pagine dedicate ad Atlantide sono di estrema importanza. Il Crizia, d’altro canto, è interamente incentrato sulle caratteristiche più specifiche dell’intera isola e della sua capitale.
I personaggi sono: Socrate, il grande saggio ed amico di Platone; Timeo di Locri, un pitagorico ed astronomo; Ermocrate, un generale di Siracusa in esilio; Crizia il giovane, nipote di Crizia il vecchio.
Considerazioni generali: pro e contro Platone
Perché la scienza ufficiale rifiuta il racconto di Platone? Il dialogo tra Solone ed i sacerdoti egizi ha luogo nel 546 a.C., mentre la guerra tra Atlantide ed Atene era avvenuta 9000 anni prima. Platone, quindi, contraddice i principali assunti scientifici, che stabiliscono che prima dell’Era Glaciale non è mai esistita una civiltà così progredita, e quindi neanche l’agricoltura, la metallurgia, l’arte della navigazione, e quant’altro egli descrive. Il popolo di Platone, lungi dall’essere “paleolitico”, si accorda bene, invece, con il periodo della sua Grecia, quindi è tutta una fantasia. Lo dimostrerebbe la stessa interruzione del Crizia, che altro non sarebbe che l’uscita da un’impasse in cui il filosofo si era cacciato.
Coloro che partecipano ai dialoghi sono personaggi storici. Lo sottolineo, perché questo dato è stato utilizzato da vari studiosi per confermare la veridicità dei racconti del filosofo, che non avrebbe potuto utilizzare il nome di personaggi famosi per raccontare tramite loro una serie di menzogne, senza che nessuno di questi si indignasse. L’obiezione comune a tale affermazione è che un po’ di pubblicità era comunque gradita anche a quell’epoca; e comunque, essendo Atlantide solo un espediente per pubblicizzare le idee politiche del filosofo, nessuna menzogna era stata detta.
Secondo i detrattori del filosofo, il solo fatto che nessuna delle sue opere sia intitolata Atlantide lascia già intendere che quest’isola fu funzionale all’esposizione del tema più caro a Platone: la politica. Il concetto di oligarchia che predomina nell’impero adombra quindi l’agognata monarchia costituzionale, e non a caso Atlantide rimane florida e potente finchè questo tipo di governo viene rispettato. Stessa sorte spetta all’Atene preistorica, che però subisce una punizione minore. In sostanza, Platone avrebbe retrodatato l’intera storia di una civiltà gloriosa più recente per propagandare le sue idee politiche e non essere smentito da nessuno. A tale riguardo, solo a titolo informativo, Proclo, nel Commentario al Timeo risalente al V° secolo d.C., parla del Crizia come dell’Atlanticus, ma non ci è dato sapere se questo nome derivi da Platone o non sia invece opera dello stesso Proclo.
E’ innegabile che quanto scrive Platone nei due Dialoghi è in perfetto accordo con le sue idee, non solo politiche. Come già accennato, nel Timeo, ad esempio, si distingue tra anima razionale, irascibile e concupiscibile. L’anima per Platone è immortale, ed è il corpo stesso a tenerla prigioniera nel mondo della materia. Con la morte, essa raggiunge la visione perfetta delle idee. Ed anche quando il desiderio di ricongiungimento la dovesse di nuovo incatenare (secondo la visione orfica) al ciclo di nascita e morte, l’anima conserverebbe comunque, anche se offuscata, la memoria della visione ultraterrena delle idee. E ciò che Platone chiama “reminescenza”, una sorta di conoscenza a priori, e dono divino, quello che i primi re di Atlantide possiedono, riuscendo in tal modo a governare in modo saggio. Tutta la trattazione della decadenza di tale impero, dunque, si fonda sull’allontanamento da tale elemento divino, e dal prevalere delle passioni e delle bramosie sulla saggezza del re-filosofo. La tripartizione dell’anima corrisponde a tre sedi corporee (cervello, cuore, ventre) e si rispecchia nella tripartizione sociale: gli uomini della ragione, ovvero i filosofi, devono governare; quelli di cuore, coraggiosi, sono i soldati; gli ultimi sono tutti coloro che lavorano. Non solo: ad ogni casta corrisponde un metallo, cioè oro, argento e ferro. Tanto nell’impero atlantideo quanto in quello ateniese questa divisione è mantenuta, sia perché ogni casta abita zone diverse, sia perché ciascuna di esse è rivestita del metallo che gli è proprio: mentre il santuario di Poseidone è d’oro ed oricalco, artigiani ed agricoltori che vivevano alla periferia dell’Acropoli possedevano tutti i metalli, tranne oro ed argento. E’ dunque un mito speculare?
L’esagerazione nelle misure geografiche fornite appare come una conferma che ci si stia muovendo nel campo dell’impossibile; e Platone è semplicemente abile nel dichiarare che egli stesso fa fatica a credere a tali numeri, ma deve rispettare la storia così come gli è giunta e narrare ciò che sa. In tal modo si costruisce un alibi, tramite il quale ancora nessuno può smentirlo. Eppoi, prima Crizia dice di essere in possesso degli scritti lasciati da suo nonno, che ora si trovano in casa sua, poi però dichiara di aver dovuto fare un grande sforzo per ricordare l’intera storia. Che bisogno avrebbe avuto di ricordare se il manoscritto di Solone era in suo possesso? Forse anche in questo caso Platone si sta servendo dei suoi personaggi per illustrarci un’idea tipicamente socratica, che vede nella scrittura una negazione dell’esercizio mnemonico? L’uomo che si affida a quanto stabilito nei testi scritti non è più in cerca di sé, e presumerà di sapere. Platone nel Fedro afferma che i testi scritti sono uno “strumento di reminescenza per coloro che già sanno”. Quindi, potrebbe non essere una contraddizione il fatto che Crizia si affidi alla memoria?
Ma c’è anche una contraddizione che riguarda l’inquadramento temporale dell’intera storia di questa potenza: nata e distrutta nello stesso momento, 9.600 a.C., laddove Platone dichiara che molte generazioni si avvicendarono nel dominio dell’isola, che in tal modo non avrebbe avuto invece il tempo di svilupparsi e di percorrere quel cammino che l’avrebbe resa poi la più potente e l’avrebbe portata a combattere contro quei popoli che assoggettò.
L’ostacolo più insormontabile, che troverà una più ampia trattazione in seguito, consiste nella possibilità geologica che un territorio così vasto possa essere sprofondato, e nel giro di 24 ore.
Queste sono solo alcune delle obiezioni, alcune non senza valore, ed utili anche al fine della nostra indagine: un quanto tali non sono da scartare. Ma, analizzando più approfonditamente alcuni passi del Timeo e del Crizia, si noterà che quanto descritto dal filosofo greco è supportato da tutta una serie di informazioni e prove, sia di natura scientifica che di retaggio culturale mondiale, che ci inducono sempre più a ritenere possibile che sia veramente esistita una grande civiltà pre-diluviana. Il rifiuto da parte dell’establishment scientifico di Atlantide, e con essa tutto ciò che ne consegue, è stato messo a dura prova dall’opera incessante di alcuni scienziati e studiosi, che stanno mettendo sempre più in evidenza come quelle anomalie, che vengono spesso “cestinate” come insignificanti proprio perché inspiegabili secondo certi canoni, siano invece il fulcro, la chiave per poter superare, una volta per tutte, ciò che essi stessi definiscono “la falsa soglia del mondo accademico”. Questo non significa affatto che Atlantide è esistita aldilà di ogni ragionevole dubbio, ma rende sempre più credibile l’esistenza di una civiltà in tempi insospettabili.
Se riconsideriamo per intero tutto il racconto di Platone, egli ci descrive una civiltà molto evoluta, da collocarsi prima della fine dell’ultima Era Glaciale, nell’Oceano Atlantico, che conquistò altri popoli, meno civilizzati, esistenti nello stesso periodo. Di sicuro era una civiltà marittima, che conosceva bene il globo terrestre, avendo assoggettato al suo dominio zone dell’Africa e del Mediterraneo, nonchè del “continente opposto”. Un impero che conosceva bene le tecniche agricole, che sapeva sfruttare le risorse minerarie presenti nel suolo, che fu in grado di costruire grandissime opere di canalizzazione, e che si distingueva nell’arte della guerra. Nelle sue colonie portò tutto il suo bagaglio culturale, la sua religione, la sua lingua; ed è per questo che molti studiosi attribuiscono le somiglianze sbalorditive nelle usanze e nelle leggende di popolazioni tanto distanti tra loro a questa primigenia ed indiscussa potenza. Che sparì tragicamente sommersa dalle acque alla fine dell’Era Glaciale. C’è da chiedersi quante probabilità aveva Platone, se si fosse inventato tutto, di indicare una data così consona, quella di 11.000 anni fa, per la catastrofe che distrusse Atlantide
Il percorso per tentare di verificare la veridicità della storia narrata da Platone è molteplice.Se Platone raccontò il vero, allora, da un lato, dovremmo rintracciare non solo l’influenza che Atlantide ebbe quando era ancora esistente, e quindi rintracciare similitudini nelle lingue, religioni, miti e tradizioni di quei popoli che assoggettò; ma anche accenni della sua esistenza, così come delle battaglie e dei viaggi per mare che intraprese, nonchè della sua fine. La difficoltà nasce nel riuscire a giustificarla dal punto di vista scientifico, perchè se è vero che alcuni dei dati platonici si inseriscono perfettamente nel quadro generalmente accettato di un grande cataclisma alla fine dell’ultima era glaciale, da poter ricondurre al Diluvio universale, e quindi all’inabissamento di porzioni di territorio e di altre tragiche conseguenze, ormai accertate, ci sono degli elementi che la storia ufficiale del nostro pianeta, del genere umano e della sua evoluzione non può accettare come veritieri.
Pertanto, come sempre è stato fatto nell’affrontare il tema in questione, si analizzeranno dapprima le fonti letterarie e mitologiche, per passare poi nella sfera di quelle scientifiche, cercando di capire se esistono punti di contatto, e se questi sono sufficienti per lasciare aperta una porta su Atlantide.
E, aldilà delle numerose strade da percorrere, il cammino si complica anche per le differenti interpretazioni che alcuni ricercatori danno di un medesimo dato.
Alla luce di alcune valide argomentazioni contrarie, c’è chi sostiene che la verità sia nel mezzo. Ultimamente, infatti, si fa strada l’idea che Platone possa aver realmente attinto a fonti antichissime a noi sconosciute, riguardanti una civiltà esistita molti millenni fa, Atlantide, ed avrebbe poi confuso ere diverse, menzionando nei suoi dialoghi personaggi ed eventi molto più vicini a lui, e ciò che di quel grande impero rimaneva: l’isola di Poseidine. Questo non sminuisce affatto ciò che ci ha raccontato, nè tantomeno invalida l’esistenza di Atlantide, ma va ad intaccare la teoria secondo cui l’intero impero scomparve in un giorno. Se la scomparsa di Atlantide non fu repentina, ma graduale, all’epoca di Platone, ed anche prima, Atlantide esisteva in forma di resti, brandelli di terra ancora emersa, di cui giunse notizia al mondo classico, e Platone altro non fece che mettere insieme quelle notizie scarse e spesso rimaneggiate, ma senz’altro esistenti anche prima della stesura dei dialoghi, come altre fonti dimostrerebbero.
IL DIBATTITO SU ATLANTIDE E LE FONTI CLASSICHE
Uno dei passi fondamentali dei Dialoghi è quello in cui Platone localizza Atlantide nell’Atlantico, a fare da ponte ad altre isole, ed anche al famigerato continente opposto, sottolineando che già allora si effettuavano traversate oceaniche. Questo passo da solo merita molte considerazioni. L’interpretazione più comune è che Platone si riferisse al continente americano e che quindi le altre isole siano da identificarsi con Caraibi, Bahamas e le favolose Antille. Analizzando gli scritti di altri autori classici ci rendiamo conto che molti, pur non menzionando esplicitamente Atlantide, descrissero isole favolose nell’Atlantico, e qualcuno menzionò anche un continente, che potrebbe essere proprio il Nuovo Mondo.
Era impossibile che i Dialoghi di Platone non suscitassero delle reazioni, positive o negative, nei suoi “colleghi” filosofi. Il primo che asserì che decisamente Platone aveva lavorato di fantasia fu Aristotele, secondo il quale la sola idea che una terra così vasta potesse scomparire nell’arco di tempo di 24 ore era assurda, e trovava nella brusca interruzione del Crizia il punto debole dell’intero racconto: “colui che l’ha inventata l’ha anche distrutta”. L’opinione di Aristotele fu tenuta in gran considerazione per molto tempo, ed il Medio Evo cristiano vi si ancorò per avvalorare la data della creazione del mondo, che la Genesi fissava nel 3760 a.C.: era dunque impossibile che fosse esistita una terra nel 9.000 a.C.
Nell’Accademia Atlantide divenne uno degli argomenti più discussi dai discepoli del filosofo. Un dato essenziale, riportato da molti studiosi, è che di certo l’Accademia aveva forti legami con la città di Alessandria, ma non possiamo sapere se in essa fossero contenuti testi più antichi che parlavano di Atlantide, cui Platone nel suo soggiorno in Egitto, potè accedere, dato che la biblioteca fu distrutta la prima volta nel 48 a.C., e la seconda nel 391 d.C. Quindi, se gli stessi filosofi dell’Accademia dibatterono a lungo sulla questione, è evidente che non avevano a disposizione nessun elemento per poter trarre delle conclusioni.
E’ Proclo che nel suo Commento al Timeo ci fornisce delle notizie interessanti. Vissuto nel V° secolo d.C., riuscì a scatenare il dibattito, grazie alla citazione di fonti precedenti. Uno dei nomi più importanti è quello di Crantore, spesso citato come il primo “studioso” di Atlantide. Crantore era un allievo di Platone, ed un passo di Proclo sembrerebbe affermare che questi si recò in Egitto per verificarne la storia, parlando con i sacerdoti egiziani. Proclo non dice altro, ma parla delle colonne su cui erano iscritte le notizie riportate da Solone, che Crantore avrebbe visto. Questo passo è però controverso, in quanto Proclo usa il pronome “egli”, che potrebbe riferirsi tanto a Platone quanto a Crantore. Ma sembra confermare che almeno uno dei due verificò la veridicità e l’esistenza della stele che recava la storia di Atlantide.
Prima di Platone molti autori classici avevano parlato di isole che si trovavano oltre le Colonne d’Ercole, soprattutto sulla scia di resoconti di viaggio ed esplorazioni compiute prima della stesura dei dialoghi. Famosi per le loro spedizioni marittime furono i marinai fenici e cartaginesi, i quali, allo scopo di mantenere segrete le rotte seguite, impedirono per molto tempo ai Greci di passare le Colonne d’Eracle, arrivando anche ad affondare le loro navi, come ci riferisce Strabone. E’ ovvio, quindi, che le notizie riferite fossero scarse, ma stupisce il fatto che molti autori classici riportino spesso l’informazione della difficoltà di proseguire oltre nella navigazione dell’Atlantico a causa di alghe, fango e secche che lo rendevano impraticabile.
Il primo a citare viaggi nell’Oceano Atlantico fu Erodoto, descrivendo il periplo dell’Africa compiuto dai fenici, promosso dal faraone egizio Neco II. E, nel descrivere la posizione del sole alla destra dei marinai fenici, Erodoto ci fornisce l’elemento chiave per credere a quanto da lui descritto 150 anni dopo tale impresa: solo navigando verso ovest, a sud dell’equatore, ossia nell’emisfero australe, i Fenici avrebbero avuto il sole alla loro destra.
Il cartaginese Annone, nella prima metà del V secolo a.C., partì con 60 navi e 30.000 persone per colonizzare nuove terre. Nonostante il suo viaggio sembri decisamente una circumnavigazione dell’Africa, con riferimenti al Marocco e alla Mauritania, gli atlantologi ritengono importante sottolineare che, riprendendo il mare, Annone giunse, dopo 35 giorni di navigazione da Gades, in un’isola, all’estremità di un golfo, che venne chiamata Cerne, come la capitale di Atlantide. Dice Annone nella sua relazione al senato di Cartagine:
“Lì trovammo, in fondo a un golfo, una piccola isola dal perimetro di cinque stadi,.....e abbiamo la supposizione che essa si trovasse, rispetto al periplo, diametralmente opposta a Cartagine, perchè la distanza tra Cartagine e le Colonne e tra queste e Cerne sembrava uguale.”
Nonostante sia impossibile stabilire con certezza che il viaggio di Annone sia stato in realtà una traversata oceanica, come alcuni atlantologi ritengono sulla base di questo resoconto, che include la descrizione di vulcani in piena attività e lava eruttata nel mare, è lecito domandarsi se Platone fu influenzato dalla storia di quest’isola aldilà delle Colonne d’Ercole, e dalle parole riguardanti un mare poco profondo e non navigabile a causa della fanghiglia, riportate da altri autori, tra cui lo stesso Aristotele che nei “Metereologica”, pur negando l’esistenza di Atlantide, affermò che il mare al di fuori delle Colonne d’Ercole era basso a causa del fango.
Interessante anche il viaggio del greco Pitea che nel 325 a.C. salpò da Marsiglia e, superate le Colonne d’Ercole, entrò nell’Oceano Atlantico. Visitò sicuramente le Isole Britanniche, e fu informato di un’isola, a sei giorni di viaggio, chiamata Thule, posta al Nord, oltre cui nessuno poteva spingersi.
A raccontare le cose così come fece Platone è ancora Proclo: nel suo commentario, infatti, egli cita l’opera, andata perduta, “Storia dell’Etiopia”, redatta dal geografo Marcello. E parla dell’esistenza di dieci isole, situate nell’Oceano Esterno, ovvero l’Atlantico, di cui sette consacrate alla dea Proserpina, e tre, più vaste, tra cui una consacrata a Poseidone. I suoi abitanti ancora ricordavano una grande isola, Atlantide, che un tempo esisteva proprio lì. Dunque, si sta parlando dei resti della perduta Atlantide, e, se Proclo si è attenuto al testo originale di Marcello, che dichiara di rifarsi a storici più antichi, allora il geografo ne fece menzione indipendentemente da Platone.
Marcello non è però l’unico a dare conferma agli scritti di Platone. Lo storico Rufo Festo Avieno, vissuto nel IV secolo d.C., riporta le imprese di viaggio del navigatore cartaginese Imilcone che, nel V secolo a.C. si spinse oltre le Colonne: colpisce, anche in questo caso, la menzione di un mare basso e difficile da attraversare. Può essere una conferma dell’inabissamento di una terra?
Continuando in questa rassegna, troviamo l’opera “Sopra le meraviglie del Mondo” del 300 a.C., in cui un discepolo di Aristotele scrisse di un’isola ricchissima di legname, frutta e fiumi, situata oltre le Colonne d’Ercole ed abitata dai Cartaginesi, che, per evitare che altri potessero venire a conoscenza e dunque sfruttare le risorse di quell’isola, uccidevano chiunque vi si avvicinasse, per primi gli stessi abitanti.
Degna di nota è la testimonianza di Diodoro Siculo, storico greco del I secolo a.C., che nella “Bibliotheca Historica”, parla a lungo di isole situate nell’Atlantico, e si sofferma in modo particolare a descriverne una, di dimensioni notevoli, “collocata a due giorni di viaggio verso ovest dalle coste della Libia”, con le stesse caratteristiche climatiche e geografiche dell’Atlantide di Platone. Diodoro descrisse la guerra tra le amazzoni, provenienti dall’isola Espera, nella Palude dei Tritoni, presso l’Etiopia, e vicina al monte che i greci chiamavano Atlante, e gli atlantioi, che ricevettero tale nome dal loro re Atlante, che regnava “nelle regioni che stanno tra le rive dell’oceano”.
Vissuto tra il I e II secolo d.C., il greco Plutarco scrisse le “Vite”, in cui narra la storia di alcuni marinai fenici che, sospinti fuori rotta dal vento, avevano raggiunto due isole atlantiche. Fatto ritorno a Gades ne informarono il generale romano Sertorio. La descrizione delle due isole, dette Isole dei Beati, ricorda ancora una volta un vero paradiso terrestre, tanto da essere accostate ai Campi Elisi, l’aldilà che si pensava si trovasse nell’estremo Occidente. Inoltre Plutarco, forse rifacendosi proprio a Platone, nell’opera “Sulla faccia visibile della luna” nomina, per bocca del cartaginese Sesto Sulla, un’isola misteriosa, Ogigia, ad ovest della Britannia. E più in là, procedendo al largo, ad uguale distanza, c’erano altre tre isole, poco lontane dalla “grande terraferma da cui l’oceano è circondato”. Su una di queste tre isole era stato confinato Crono, ed era vigilata da Briareo, il gigante che aveva aiutato gli dèi nella lotta contro i titani. E’ curioso che entrambi fossero associati alle Colonne d’Ercole, prima che quest’ultimo desse loro il nome.
Il naturalista romano del I secolo d.C. Plinio il Vecchio parlò di grandi estensioni di terra che un tempo erano emerse nell’Atlantico. Oltre a menzionare sei isole, o “Isole Fortunate” o “della Beatitudine”, Plinio menziona esplicitamente Atlantide, e la colloca non lontano dal Monte Atlante, senza però fornire altri particolari, se non menzionare le Esperidi, notoriamente collegate all’oceano Atlantico e alle mele d’oro, che proprio Ercole, colui che darà il nome al passaggio di Gibilterra, rubò nella sua undicesima fatica.
Naturalmente, questa non rappresenta l’intera bibliografia classica su isole situate nell’Atlantico, e non dimostra nulla in merito alla veridicità del racconto di Platone. Ma evidenzia senz’altro il grande interesse che già allora suscitava, ed anche l’emergere di cognizioni comuni, di certo spesso imprecise, ma derivate da viaggi effettivamente compiuti: il fatto che le notizie siano confuse riguardo agli itinerari seguiti, ai giorni di navigazione e ai nomi delle isole menzionate, sembra piuttosto avvalorare l’esistenza di una qualche isola o terra effettivamente scoperta, di cui i Fenici ed i Cartaginesi cercavano di far perdere le tracce. L’ipotesi degli atlantologi è che potesse trattarsi degli ultimi “brandelli” di Atlantide, a quel tempo ancora emersi.
I PRECURSORI DI CRISTOFORO COLOMBO: VARI CANDIDATI
Ed ora rivolgiamo la nostra attenzione al fatto che il continente americano fosse già conosciuto almeno 2000 anni prima della sua scoperta ufficiale. Teopompo di Chio, autore del IV secolo a.C. e contemporaneo di Platone, le cui opere sono riportate da Eliano, narra di un vasto continente che circonda “la parte esterna di questo mondo..”, abitato dai Meropi, i quali avevano attraversato l’oceano e avevano raggiunto Iperborea. “Sileno parlò a Mida di certe isole chiamate Europa, Asia e Libia, che sono circondate e abbracciate dall’oceano. Fuori da questo mondo c’è un continente o una grande estensione di terra asciutta, di grandezza infinita e incommensurabile, la quale nutre e sostenta in virtù dei suoi verdi prati e pascoli molte bestie grandi e robuste. Gli uomini che abitano questo clima sono di statura più che doppia della nostra, e anche la durata della loro vita non è uguale alla mostra.”
A proposito della Meropide, non c’è menzione di un qualche cataclisma subito da tale terra, ed è facile collegare i giganti alle tradizioni dell’America del Sud. In ogni caso, Merope era una delle sette figlie di Atlante, messe in relazione con le sette stelle delle Pleiadi. Meropide e Atlantide sono la stessa terra?
Anche Strabone nella Geografia parla di un continente a noi sconosciuto “in prossimità del parallelo di Atene che attraversa il Mare Atlantico”.
Tali testimonianze, che peraltro possono avere attinto a documenti andati persi, non dimostrano in nessun modo l’esistenza di Atlantide, ma evidenziano, in ogni caso, che il mondo classico possedeva una serie di “informazioni” che teoricamente non doveva possedere, che condividevano alcuni punti fermi: queste terre favolose erano isole o un continente, in prossimità del mare, da cui poi erano state sommerse, i cui abitanti avevano cercato di colonizzare altre parti del globo.
Di sicuro il continente americano fu raggiunto prima che Colombo lo scoprisse ufficialmente nel 1492. L’importanza di tale assunto non mira a sminuire l’opera del nostro navigatore, ma piuttosto ci servirà, procedendo a ritroso nel tempo, e seguendo le varie piste, a tentare di scoprire se Platone affermò il vero quando parlò di navigatori dell’Atlantico nel 9000 a.C.
Gli autori classici ebbero accesso alle notizie e alle informazioni geografiche riportate dai marinai fenici prima e cartaginesi poi che spesso si spinsero nell’Atlantico alla ricerca di terre ricche da cui poter trarre nuove materie per i loro commerci, e chiamavano Antilla un’isola situata nell’oceano, di cui tennero segreta la rotta. E’ quindi probabile che misero piede anche sul continente americano già nel I millennio a.C., epoca del massimo splendore fenicio.
Il raggiungimento delle Americhe in tempi remoti sembra essere confermato anche da altre scoperte. Un’analisi condotta su alcune mummie egiziane ha rivelato la presenza di cocaina e nicotina, due sostanze teoricamente sconosciute nel Vecchio mondo, ed importate solo dopo la scoperta dell’America. L’anno dell’inizio delle ricerche è il 1992, quando la dott. Balabanova esaminò la mummia della sacerdotessa del tempio di Amon a Tebe, Henuttawy, vissuta intorno al 1000 a.C., più i resti di altre otto mummie conservati al Museo di Monaco. La presenza delle droghe fu confermata anche dal cosiddetto “esame del capello”, che evidenziò come queste fossero presenti anche nelle proteine, dove permangono in caso di decesso. Sulla base di tale sconvolgente scoperta, furono condotti esami su molte altre mummie provenienti da varie parti del mondo, e su tutte furono trovate entrambe le sostanze, o almeno una di esse. Per verificare l’esattezza delle ricerche della Balabanova, un’altra studiosa, Rosalie David, eseguì altri test su alcune mummie conservate a Manchester, dove trovò solo tracce di nicotina, ma confermò i risultati ottenuti dalla sua collega, fugando anche il dubbio che le mummie analizzate fossero dei falsi. Tracce di tabacco erano già state trovate nelle bende e nel corpo di Ramesse il Grande nel 1976.
Tali dati non lasciano alcun dubbio: vi fu un contatto tra le civiltà americane, che usavano masticare foglie di coca, e l’Egitto, contatto di cui secondo Andrew Collins furono artefici proprio i fenici. Ne “Le porte di Atlantide” l’autore sostiene che invece il tabacco selvatico era già conosciuto in alcune zone dell’Africa, dove veniva usato per raggiungere uno stato meditativo, mentre era utilizzato dagli arabi come medicinale. In ogni caso, l’autore sottolinea le affinità linguistiche sulle due sponde dell’Atlantico fra i termini usati per indicare le parole tabacco e fumo, che potrebbe indicare un’origine comune ed uno scambio non solo linguistico, ma anche di uso di tali prodotti, avvenuto senz’altro prima di Colombo.
Dobbiamo comunque ricordare che, nonostante le notizie ampiamente riportate sopra circa i viaggi effettuati dai fenici e ai loro insediamenti in isole dell’Atlantico, molti degli itinerari percorsi nell’antichità restano per noi un mistero. A riprova della presenza fenicia in America, c’è il ritrovamento di monete Cartaginesi a Corvo, nelle Azzorre, nonchè manufatti e pietre con iscrizioni. E, naturalmente, anche la menzione di Gadirus fatta nel Crizia, sembra confermare che le fonti usate da Platone fossero proprio quelle fenicie, dato che Gadira, attuale Cadice, era il porto fenicio fondato nel 1100 a.C. circa nella penisola iberica.
Per converso, è anche vero, sempre che non si tratti di falsi, che sono state rinvenute in Brasile alcune anfore greche, il che potrebbe anche voler dire che qualche imbarcazione greca, sfuggita al controllo fenicio, fu poi sospinta verso il continente americano.
Altro popolo che sostiene di aver raggiunto l’America ben prima del navigatore italiano è quello dei cinesi che attraversò il Pacifico nel V secolo d.C. Secondo il professore Chu Shien-chi, nel 458 d.C. il prete buddista Hoei Shin con altri quattro monaci giunse nell’America centrale, in un luogo che forse è il Messico, denominando la nuova terra Fusang. Il nome deriverebbe da una pianta cinese molto simile ad una pianta trovata nella nuova terra. Questa teoria lascia perplessi molti studiosi, i quali la ritengono una pura invenzione. Ma i cinesi mantengono comunque un ruolo determinante almeno secondo Gavin Menzies, ricercatore britannico, il quale sostiene che il primo a raggiungere l’America fu il cinese Zheng He. Lo studioso ha infatti trovato alcune carte del 15° secolo, che ora si trovano a Venezia, che raffigurano il Capo di Buona Speranza, la cui scoperta è invece attribuita a de Gama nel 1497. Il fatto interessante è che su uno di questi planisferi compare il disegno di una giunca, tipica imbarcazione cinese, e nei Caraibi sono stare ritrovati quelli che sembrano essere i resti di alcune imbarcazioni cinesi, che sarebbero affondate nel 1421. Tutto, è, però, ancora da verificare.
Più famoso è il viaggio di San Brandano, un irlandese che a bordo di un’imbarcazione di legno di 11 metri, ed accompagnato da 14 monaci, sembra sia giunto nel Labrador partendo dall’Irlanda nel VI secolo. L’abilità marittima degli irlandesi non viene messa in dubbio: in Groenlandia sono state ritrovate alcune abitazioni e relitti di barche, databili molto prima dei vichinghi.
E’ ormai certo che i Vichinghi raggiunsero la costa del Labrador, e le loro esplorazioni sono narrate nelle antiche saghe. Sono stati condotti molti studi e ricerche al fine di stabilire esattamente quali zone essi abbiano raggiunto, ma l’interesse primario si è rivolto ai viaggi di Leif Erikson, che all’incirca nell’anno mille raggiunse la punta più settentrionale di Terranova, battezzandola Vinland. A L’Anse aux Meadows furono individuate le fondamenta di otto edifici in terra battuta, una forgia da fabbro ed altri utensili, datati all’epoca vichinga con il sistema del C14. Le ricerche effettuate portano alcuni studiosi a ritenere che i Vichinghi si spinsero anche nell’entroterra. Secondo alcuni, evidenza di ciò sarebbe la Newport Tower, costruita dai Vichinghi nel Rhode Island. Si tratta di un edificio circolare, alto sette metri e mezzo, forse costruito nel 11° o 12° secolo. Tale teoria trova i suoi strenui oppositori. Altro manufatto è la Pietra di Kensington, ritrovata nel Minnesota nel 1898, con incisioni runiche, il cui testo risalirebbe al 1362, e narrerebbe di un viaggio esplorativo che da Vinland si mosse verso occidente, portando alla morte di dieci uomini nel Minnesota. Ancora molti ritengono che questa pietra sia opera di un falsario del XIX secolo, nonostante il dibattito continui, alternando smentite a prove di autenticità.
La Carta di Vinland è una mappa che si dice fu disegnata da un monaco svedese nel 1440, e identifica Vinland con il Nord America.. Ma anche questa mappa ha diviso gli studiosi circa la sua originalità.
Ci sono rivendicazioni da parte britannica, nonchè giapponese, africana, scozzese, gallese, greca, ebrea, araba, etrusca, per non parlare della presenza templare, e praticamente tutti popoli del mondo possono aver messo piede in America prima di Colombo, a dimostrazione che si era in possesso di imbarcazioni in grado di attraversare l’Atlantico o il Pacifico, per non parlare poi delle prime teorie sul popolamento delle Americhe, avvenuto attraverso lo Stretto di Bering che, durante l’Era Glaciale, univa la Siberia all’America. Oggi questa è solo una delle tante ipotesi, che non solo retrodatano il popolamento del continente, ma grazie a studi condotti sul Dna evidenziano la presenza di diversi gruppi etnici. Quindi, in sostanza, per il momento nessuno può affermare di avere il primato di essere arrivato in America per primo. E, ai fini della nostra ricerca, poco importa. Lo stesso Thor Heyerdhal sottolinea nel libro “The quest for America” che in pratica da un lato si è difesa la teoria Isolazionista, che prevede contatti solo via terra prima del 1492, sostenendo che gli oceani non potevano essere attraversati; dall’altro c’è la teoria diffusionista, per la quale tanto gli Asiatici, gli Europei, gli Africani, sarebbero giunti via mare in America. Egli stesso dimostrò che è possibile compiere lunghe traversate su un’imbarcazione rudimentale, e, a bordo del Kon Tiki, una zattera di balsa costruita così come si faceva all’epoca, coprì una distanza di 8000 Km, partendo dal Perù ed approdando in Polinesia. Ma ascoltiamo le sue parole:
“...L’incontro di due grandi mondi fu in effetti un conseguimento di Colombo e soltanto suo. Egli ha cambiato la storia, nel Vecchio Mondo e nel Nuovo, e ci sarà sempre la storia a dimostrarlo.”
Ma allora, se siamo d’accordo sull’attribuire a Colombo il merito della scoperta ufficiale, perchè parlarne? Per dimostrare che queste stesse rotte erano già conosciute in tempi precedenti, e che un’antica razza di navigatori le aveva percorse e mappate, un popolo che richiama subito alla mente quello descritto da Platone, sollevando anche un’altra domanda: se crediamo che antichi navigatori potessero raggiungere l’Atlantico e l’America, perché non ipotizzare anche che primitivi popoli atlantici effettuassero lo stesso viaggio in direzione opposta?
Continuiamo, quindi, il nostro viaggio inoltrandoci nel campo della cartografia, argomento che qui è stato appena sfiorato.
LE ANTICHE MAPPE: UN’EREDITA’?
Per quanto sia un tema molto ampio, è impossibile non soffermarsi sugli studi effettuati nel campo della cartografia. La sua storia, così come si è in grado di ripercorrerla, infatti, è fondamentale al fine di comprendere quanto una delle obiezioni mosse a Platone, quella inerente all’arte della navigazione transoceanica e alla conoscenza di territori che nemmeno ai suoi tempi erano noti, sia valida. Gli studi condotti in questo campo sembrano poter stravolgere, anche in questo caso, l’idea che tale scienza abbia conosciuto un processo lineare di sviluppo, che dalle inesattezze delle prime mappe, passando poi per un’accresciuta conoscenza dovuta all’incremento di viaggi esplorativi, abbia raggiunto il suo apice. Le cose non sembrano aver seguito questo corso, ed anche qui, nell’affrontare tale tema, si procederà in modo tutt’altro che lineare, rispettando il percorso che ha condotto ad alcune interessanti ipotesi.
LA FAMIGERATA ED ANCORA DISCUSSA CARTA DI PIRI RE’IS IBN AJI MEHMED
Nonostante si sia molto discusso su questo personaggio, citato in quasi tutti i libri che parlano di Atlantide, e in ogni buon articolo e rivista che si rispetti, è importante ripercorrere insieme la storia che lo riguarda.
Nel corso di un inventario nell’antico palazzo imperiale di Istanbul, divenuto un museo, fu rinvenuto il frammento di una mappa, che recava 24 iscrizioni in turco. Una di queste recava la firma dell’autore, ovvero l’ammiraglio turco Piri Re’is, e la data della carta, 1513.
Suo zio, Kemail Reis, aveva catturato un marinaio che aveva viaggiato con Cristoforo Colombo. E’ lui, secondo quanto affermato dall’ammiraglio, a fornirgli molti dettagli, in primo luogo a rivelare di essere in possesso di alcune carte disegnate da Colombo stesso. L’opera più famosa di Piri Re’is, ammiraglio della flotta ottomana e vincitore di molte battaglie, è il “Kitabi Bahriye”, ovvero “Il libro del mare”, che comprende 215 carte nautiche disegnate dallo stesso ammiraglio, che gli costò più di 3 anni di lavoro. Questo testo è un vero e proprio trattato di navigazione, con la descrizione di tutti i mari e continenti del mondo allora conosciuti, e riporta, oltre alle sue esperienze personali, anche informazioni altrui.
Alcune delle annotazioni sulla mappa sono fondamentali ai fini della nostra ricerca. Quanto di seguito riportato è tratto da un articolo di Alessandro Moriccioni, Andrea Somma e Andrea Femore, dal titolo “Il segreto di Piri Re’is”, apparso sul n. 28 della rivista Mystero, in cui ci si affida alla traduzione effettuata da Marco Capurro.
1) C’è un tipo di tintura rossa chiamata vakami, che alle prime non vedi, in quanto appare a distanza...le montagne contengono ricchi minerali...Ci sono alcune delle pecore che hanno una lana sericea.
2) Questa regione è abitata. L’intera popolazione gira nuda.
3) Questa regione è conosciuta come provincia di Antilia. E’ dalla parte dove il sole tramonta. Dicono che ci sono quattro generi di pappagalli, bianchi, rossi, verdi e neri. La gente mangia la carne dei pappagalli ed i loro copricapi cono fatti interamente di penne di pappagallo. C’è una pietra lì. Sembra “Paragone” nero. La gente la usa invece dell’ossidiana. E’ estremamente dura...ha visto questa pietra.
4) Questa mappa è stata disegnata da Piri Ibn Haju Mehmed, conosciuto come nipote di Kemail Reis, in Gallipoli, nel mese di muharrem dell’anno 919 (tra il 9 marzo ed il 7 aprile del 1513)
5) Queste coste sono chiamate le rive di Antilia. Vennero scoperte nell’anno 896 del calendario arabo. Viene riportato infatti che un infedele genovese, il suo nome Colombo, è stato colui che scoperto questi posti. Peraltro un libro cadde nelle mani del suddetto Colombo, e si è detto in questo libro che alla fine del mare occidentale, sul lato occidentale, c’erano coste ed isole e tutti i generi di metalli ed anche pietre preziose. Il suddetto, avendo studiato molto questo libro, spiegò queste materie uno per uno a tutti i grandi di Genova e disse: “Avanti, datemi due navi e lasciatemi andare a scoprire questi posti.” Loro gli risposero: “O inutile uomo, come può un fine o un limite essere trovato nel mare occidentale? I suoi vapori sono pieni di oscurità.” Il sopra citato Colombo vide che nessun aiuto gli sarebbe venuto dai genovesi, decise altrimenti, ed andò dal re di Spagna, spiegandogli tutto. Anche gli spagnoli risposero come i genovesi. In breve, Colombo si fermò presso di loro per molto tempo e finalmente il Re di Spagna gli diede due navi, le equipaggiò e disse: “O Colombo, se succede come dici, ti faremo Kapudan di quelle terre.” Detto questo spedì Colombo nel mare occidentale. Il defunto Gazi Kemal aveva uno schiavo spagnolo e questo schiavo raccontò a Kemal Reis di essere stato tre volte in quelle terre con Colombo. Raccontò: “Dapprima abbiamo raggiunto lo stretto di Gibilterra, quindi da lì dritto a sud e ad ovest attraverso...Andati dritti per quattro migliaia di miglia abbiamo visto un’isola di fronte a noi, na gradualmente le onde divennero meno spumeggianti, il mare si calmò e la Stella Polare – i marinai la chiamano stella – a poco a poco si velò e divenne invisibile, e disse anche che le stelle in quelle regioni non sono le stesse di qui. Si ancorarono all’isola che avevano visto prima. La popolazione dell’isola venne e tirò loro delle frecce. Le punte delle frecce erano fatte di ossa di pesce e l’intera popolazione girava nuda ed anche...Vedendo che non potevano sbarcare sull’isola girarono sull’altro lato dell’isola e videro un battello. Vedendoli il battello fuggì e loro scapparono via sull’isola. Loro catturarono il battello e videro che dentro c’erano resti umani. Succedeva che questa gente erano di una nazione che viaggiava da isola a isola cacciando uomini e mangiandoli. Dicono che Colombo vide ancora un’altra isola, si avvicinarono e videro che sull’isola c’erano grandi serpenti. Evitarono di scendere sull’isola e restarono lì 17 giorni. La gente di quest’isola vide che nessun danno veniva loro dagli spagnoli, catturarono del pesce e lo portarono agli spagnoli bei loro piccoli battelli. Loro furono compiaciuti e regalarono a quelli delle perline di vetro, Sembra che lui avesse letto nel libro che in quella regione le perline di vetro erano molto apprezzate. Vedendo le perline la popolazione portò ancora più pesce. Questi davano loro sempre perline di vetro. Un giorno videro dell’oro intorno al braccio di una donna, presero l’oro scambiandolo con perline. Dissero loro che se portavano ancora oro avrebbero dato in cambio perline di vetro. Quelli andarono e portarono molto oro. Pare che in quelle montagne ci fossero miniere d’oro. Un giorno, ancora, videro delle perle nelle mani di una persona. Allora fecero lo stesso, diedero perline di vetro e molte perle furono portate loro. Le perle venivano trovate sulle spiagge di quest’isola, in un posto profondo uno o due braccia. Ed ancora, caricate le loro navi con legname e portando dietro due nativi entro l’anno furono dal re di Spagna. Ma il suddetto Colombo, non conoscendo la lingua di questi popoli, commerciava a segni e dopo questo viaggio il Re di Spagna spedì preti ed orzo, insegnò ai nativi a seminare e raccogliere e li convertì alla sua religione. Loro non avevano religione alcuna. Camminavano nudi e giacevano come gli animali. I nomi che segnano i posti sulle precitate isole e coste vennero dati da Colombo, che questi posti possano essere conosciuti da loro. Ed anche, Colombo era un grande astronomo. Le coste e le isole di questa mappa sono tratte dalla mappa di Colombo.
6) In questo secolo non esiste mappa come questa in mano ad alcuno. La mano di questo povero uomo l’ha disegnata ed ora è finita. D circa 20 carte e Mappa Mundi – carte disegnate ai tempi di Alessandro, signore due Due Corni, che mostrano le terre abitate nel mondo; gli Arabi le chiamano Jaferiye – da otto Jaferiye di questo genere e da una mappa araba dell’Indo, Sind e Cina,(in alcuni siti internet si traduce: e da una carta araba dell’Hind; da carte di recente disegnate da quattro portoghesi, che mostrano i paesi dell’Hind, del Sind e della Cina) geometricamente disegnata, ed anche dalla mappa disegnata da Colombo nella regione occidentale, io ho tratto questa. Riducendo tutte queste mappe ad una scala questa forma finale si è compiuta. Così questa presente mappa è corretta ed affidabile per i sette mari come le mappe di queste nostre nazioni sono considerate corrette ed affidabili dai navigatori.
7) E’ stato raccontato da un infedele portoghese che in questo luogo notte e giorno sono al loro momento più corto di due ore e al loro momento più lungo di ventidue ore. Ma il giorno è molto caldo e nella notte c’è molta rugiada.
8) Sulla strada della provincia delle Indie un battello portoghese incontrò un vento contrario dalla costa. Il vento dalla costa....quello. Dopo essere stati spinti a sud da una tempesta loro videro una costa di fronte a loro e si diressero verso essa...Videro che quei posti presentavano buoni ancoraggi. Gettarono l’ancora ed andarono a terra nelle barche. Videro gente camminare tutta nuda. Ma questa tirò loro delle frecce, con le punte d’osso di pesce. Restarono lì 8 giorni. Commerciarono con quella gente a segni. Questa barca vide quelle terre e scrisse su di esse. La suddetta barca, senza andare alle Indie, ritornò in Portogallo dove, dopo l’arrivo, diede informazioni. Loro descrissero le coste in dettaglio. Loro le hanno scoperte.
9) E in queste terre sembra ci siano mostri con pelo bianco di questa fatta ed anche buoi con sei corna. Gli infedeli portoghesi l’hanno scritto nelle loro mappe. Questa terra è deserta.
10) Questa terra è deserta. Tutto è in rovina e si dice che ci siano enormi serpenti. Per questa ragione gli infedeli portoghesi non scesero su queste coste e si dice anche che siano molto calde.
11) E questi quattro battelli sono portoghesi. Ho riportato la loro forma. Hanno viaggiato dalla terra occidentale fino a raggiungere la punta dell’Abissinia al fine di raggiungere l’India. Loro hanno detto verso Calice. La distanza attraverso questo golfo è i 42000 miglia.
12) ...su questa costa c’è una torre....è nondimeno...prendendo una fune...si dice loro misurarono...(Il fatto che manchi metà di ciascuna linea di scrittura sembra una prova del taglio della mappa in due parti)
13) E un battello genovese proveniente dalle Fiandre venne preso da una tempesta. Spinto dalla tempesta arrivò in queste isole ed in questo modo esse furono scoperte.
14) Si dice che in tempi antichi un prete di nome Santo Brindano viaggiò per i sette mari, così dicono. Il suddetto sbarcò su questo pesce. Loro pensarono che fosse terra ferma ed accesero un fuoco su di esso, ma quando il dorso del pesce cominciò a bruciare questo si immerse nel mare, loro si reimbarcarono sui loro battelli e scapparono sulla nave. Questo evento non è raccontato dagli infedeli portoghesi. E’ preso da un antico mappamondo.
15) A queste isole loro diedero il nome di “Undizi Vergine”, che vuol dire Le Undici Vergini.
16) E questa isola loro la chiamano Isola di Antilia. Ci sono mostri e pappagalli e molto legno da costruzione. Non è abitata.
17) Questa barca è stata guidata presso queste coste da una tempesta e rimase dove cadde...Il suo nome era Nicola di Giuvan. Su questa mappa è scritto che questi fiumi possono essere visti avere per gran parte oro. Quando l’acqua andò via, loro raccolsero molto oro dalla sabbia. Su questa mappa....
18) Questa è la barca del Portogallo che incontrò una tempesta e venne su questa terra. I dettagli sono scritti all’angolo della mappa.
19) Gli infedeli portoghesi non andarono a ovest di qui. Tutto questo lato appartiene interamente alla Spagna. Loro hanno fatto un accordo che una linea di duemila miglia, al lato occidentale dello Stretto di Gibilterra, debba essere preso come confine. I portoghesi non oltrepassano questo lato, ma il lato dell’India e la parte a sud appartiene ai Portoghesi.
20) E questa caravella avendo incontrato una tempesta fu guidata su questa isola. Il suo nome era Nicola di Giuvan. Ed in quest’isola c’è molto bestiame con un corno. Per questa ragione loro chiamarono quest’isola “Isla de Vacca”, che significa isola del bestiame.
21) L’ammiraglio di questa caravella è detto Messir Anton il genovese, ma è cresciuto in Portogallo. Un giorno la sopra menzionata caravella incontrò una tempesta e fu gettata su quest’isola. Lui trovò lì molto zenzero ed ha scritto su queste isole.
22) Questo mare è chiamato mare Occidentale, ma i marinai francesi lo chiamano Mare de Espagna. Che significa mare di Spagna. Fino ad ora era conosciuto con questo nome, ma Colombo, che ha aperto questo mare e reso conosciute queste isole, ed anche i Portoghesi, infedeli che hanno aperto alla regione dell’India, hanno deciso, di comune accordo, di dare a questo mare un nuovo nome. Lo hanno chiamato Ovo Sano, che suona come uovo. Prima di questo si pensava che questo mare non avesse fine o limite, che dall’altro lato vi fosse oscurità. Ora loro hanno visto che questo mare è circondato da coste, perchè è come un lago, e l’hanno chiamato Ovo Sano.
23) In questo luogo c’è bestiame con un corno ed anche mostri di questa fatta.
24) Questi mostri sono lunghi sette spanne. Tra i loro occhi c’è la distanza di una spanna. Ma sono anime innocue.
LA STORIA DI QUESTA MAPPA
Questa mappa, disegnata a colori su una pelle di gazzella delle dimensioni di 85x60 cm, una volta ritrovata, però, giacque nel più totale oblio, finchè nel 1956 fu nuovamente rispolverata, con una conseguente ondata crescente di interesse. Dapprima esaminata dal cartografo Walters, la mappa finì poi nelle mani del capitano Arlington Mallery, che da molto tempo si occupava di cartografia antica, in particolare di quella redatta dai Vichinghi. Egli dichiarò che nella parte inferiore della mappa era raffigurata la costa antartica, con le isole e le baie, libera dai ghiacci. Queste affermazioni risultarono a dir poco strabilianti, perchè implicavano due fatti “anomali”: il continente antartico fu scoperto solo nel 1818 e la prospezione della costa antartica fu effettuata nel 1949 sondando la crosta di ghiaccio con rilievi sismografici. Il capitano aggiunse che alcuni rilievi sembravano essere stati effettuati dall’alto.
Charles Hapgood, professore di storia della scienza al Keene State College dell’Uiversità dl New Hampshire, all’epoca aveva già elaborato una teoria sulle glaciazioni, nota come scorrimento della crosta terrestre, e si era soffermato in modo particolare proprio sulla zona antartica, concludendo che essa era situata al di fuori del circolo polare prima della glaciazione, e quindi era abitabile in quanto, essendo più vicina all’equatore, il suo clima sarebbe stato molto più mite. Il movimento della litosfera, stimato in circa 30°, l’avrebbe poi fatta entrare nel circolo polare, ricoprendola di ghiacci.
Ovviamente le ipotesi formulate intorno alla mappa dell’ammiraglio turco non potevano lasciarlo indifferente. In seguito alla risposta ottenuta dall’Aeronautica degli Stati Uniti, nella persona di Harold Ohlmeyer, che confermava le ipotesi fatte da Mallery, Hapgood venne a sapere da quest’ultimo che esistevano molte altre mappe medievali, che però erano state pressochè ignorate. Fu allora che il professore, coinvolgendo anche i suoi studenti, si dedicò con passione al loro studio. Ma torniamo, per il momento, alla mappa di Piri Re’is.
Abbiamo già detto che conteneva, nella parte in basso, la rappresentazione della Terra della Regina di Maud e della costa antartica. Non solo. Troviamo le coste occidentali dell’Africa e dell’Europa. E, cosa più importante, la mappa rivela un’ottima conoscenza del Sud America, sia per quanto riguarda la costa orientale, che per quel che concerne il versante occidentale: vi sono raffigurate le Ande, con il disegno di quello che sembrerebbe essere un lama, tipico della zona, peraltro visitata per la prima volta nel 1527 da Pizarro, animale che dunque era sconosciuto in Europa. Anche il Rio delle Amazzoni è raffigurato, ma due volte, ed in due modi diversi: in uno non è presente l’isola di Marajò, che compare invece la seconda volta, indicata precisamente, anche se fu scoperta solo nel 1543. Al posto del grande delta del fiume Orinoco sono presenti due estuari che percorrono l’entroterra per circa 150 km, con una longitudine esatta rispetto a quella odierna del fiume, ed una latitudine abbastanza precisa. Anche le Isole Falkland, scoperte solo nel 1592, sono indicate ad una latitudine esatta.
Nella mappa sono indicate anche alcune isole nell’Atlantico, come Cuba, che però appare dimezzata nelle dimensioni, e formata da tanti isolotti nella parte occidentale, ed i Caraibi. Altro elemento degno di nota è la presenza di due isole oggi inesistenti, una delle quali, di grandi dimensioni, occupa quella parte dell’Atlantico dove oggi sorgono gli scogli di Saint-Pierre e Saint-Paul. Questo, insieme alla menzione di Antilia, fa naturalmente sorgere almeno il dubbio che possa trattarsi di Atlantide.
IPOTESI
Poichè l’Antartide risulta essere stata libera dai ghiacci dal 13.000 a.C. circa fino al 4.000 a.C., è possibile che qualcuno l’abbia cartografata in quell’arco di tempo? Se così fosse, le carte sorgente cui lo stesso Piri Re’is accennava dovevano risalire a tempi remoti, ad una civiltà sconosciuta, la cui opera sarebbe stata tramandata nel corso dei millenni. Gli stessi marinai cretesi e fenici avrebbero potuto essere depositari di un antico sapere. Ed è a questo punto che, seguendo la teoria di Hapgood, dobbiamo fare un salto a ritroso nel tempo, dal medioevo al III° secolo a.C., data in cui alcuni discepoli di Aristotele spinsero Tolomeo I d’Egitto ad istituire il Museo, quella famosa biblioteca che per 5 secoli sarà il più importante centro di raccolta del sapere del mondo antico. Infatti, se da un lato l’intento era quello di raccogliere tutta la produzione letteraria, filosofica e scientifica, dall’altro la Biblioteca ospitò grandi scienziati del mondo greco, appoggiando e finanziandone le ricerche. Ricordiamo che Aristotele era stato precettore di Alessandro Magno, che si era fatto incoronare faraone d’Egitto, ed il cui corpo fu riportato ad Alessandria due anni dopo la sua morte dall’amico Tolomeo, fondatore della dinastia dei Tolomei. La Biblioteca d’Alessandria divenne anche il luogo in cui confluirono le mappe ed i resoconti dei viaggi compiuti in Oriente dal grande condottiero.
Quello che a noi interessa è il lavoro di astronomi e geografi. Grandissimi nomi si avvicendarono, ed è proprio in epoca ellenistica che la cartografia assunse un carattere più scientifico. Tra i tanti nomi non possiamo non ricordare quello di Eratostene, che per primo fece uso di linee verticali ed orizzontali nelle sue mappe, anticipando quello che sarà il reticolato dei meridiani e dei paralleli. Egli, inoltre, calcolò la circonferenza terrestre con un margine di errore di circa 4° ½ . Aristarco, anticipando di molto Copernico, elaborò la teoria eliocentrica, e tentò di misurare la distanza tra terra, sole e luna. Aristarco fu contrastato da Ipparco di Nicea e dal sistema geocentrico, che negava la possibilità che la terra potesse occupare un posto marginale e periferico nell’universo, restaurando, in tal modo, l’ideologia dominante del mondo antico. Egli fu lo scopritore ufficiale del fenomeno noto come precessione degli equinozi, e di uno strumento ottico, la diottra, con cui rilevò la posizione di circa 1000 stelle, la cui catalogazione sarà basilare per il mondo antico.
Poi, dopo un periodo di stasi, ed il primo danno subito con l’incendio del 48 a.C., la Biblioteca conobbe un nuove periodo di produttività nel II° e III° secolo d.C., ed è questa l’epoca in cui operò Tolomeo, considerato uno degli scienziati più importanti dell’antichità, il cui sistema, detto appunto tolemaico, resisterà fino alla rivoluzione operata da Copernico. Nell’Almagesto (titolo che dobbiamo agli arabi) raccolse tutte le scoperte in campo astronomico, riprendendo, ampliando e modificando l’opera dei suoi predecessori. Nonostante riaffermò il concetto di sfericità, che da allora rimarrà un punto fermo fino al Medioevo, impose il sistema tolemaico, con la terra immobile al centro dell’universo, che non avrà più rivali fino alla rivoluzione operata da Copernico.
L’opera di Tolomeo che più ci riguarda è il “Trattato di Geografia” o “Introduzione geografica”, in cui si potevano trovare gli strumenti per redigere le mappe costruendo la quadrettatura di meridiani e paralleli, in quanto venivano fornite le coordinate di circa 8.000 località. Il volume si chiudeva con 27 carte, una dell’ecumene, le altre relative ai 3 continenti.
Applicando le proiezioni alla cartografia, le parti di territorio rappresentate diventavano più fedeli alla realtà. Ciò non significa che non vi fossero errori, dovuti al rifiuto di Tolomeo di accettare alcuni risultati precedentemente acquisiti. Tolomeo, ad esempio, rispetto ad Eratostene, valutò la circonferenza terrestre in modo errato, con il risultato che la sfera terrestre risultava più piccola. Questo portò ad altri errori. Nella carta generale la sua rappresentazione dell’Asia lascia alquanto a desiderare. “Al contempo, sopravvaluta l’estensione est-ovest dell’Asia e, bizzarramente, nel raffigurare la costa meridionale dell’Asia bagnata dall’Oceano Indiano elimina totalmente la grande penisola del subcontinente indiano. Tuttavia...pone un’enorme isola, Taprobana...identificata come India...Taprobana è stata in realtà disegnata di fronte alle coste occidentali, dove oggi non esiste alcuna isola...Il planisfero terrestre di Tolomeo....raffigura l’Oceano Indiano come un lago...” (Civiltà sommerse di Graham Hancock, capitolo 21, pag. 619)
Ed ancora, il bacino del Mediterraneo risulta troppo esteso. Anche gli orientamenti di alcune zone sono sbagliati, e la sua carta appare incompleta laddove Tolomeo rivela il limite oltre il quale non può andare, con la sua “Terra incognita”.
Secondo Hapgood, le cui idee vengono abbracciate da altri studiosi, le mappe realizzate ad Alessandria non si basavano su viaggi effettivamente compiuti, ma utilizzando mappe molto più antiche, forse di derivazione fenicia e minoica. Lo stesso Tolomeo dichiara di aver proseguito, migliorandola, l’opera di un precedente geografo, Marino di Tiro, chiamandolo “il più recente dei nostri studiosi di geografia”, ad indicare una tradizione iniziata già prima. Ed anzi Hancock, nell’opera prima citata, riporta l’idea dello studioso Nordenskiöld, ricordando che Tiro era una città fenicia, e che il nome marinos, che in greco significa pesce di mare, potrebbe anche riferirsi ad una produzione di carte nautiche, ad un atlante redatto non da un singolo geografo, ma dai naviganti di Tiro.
Nel 390 il fanatismo cristiano provocò un grave danno alla Biblioteca, e molti dei suoi volumi andarono persi. Ma sarà con l’invasione musulmana del 641 che decreterà la fine del brillante periodo alessandrino. Non sembra inverosimile pensare che qualcosa si fosse salvato, tra cui alcune copie di mappe antiche, che sarebbero così confluite in nuovo centro di raccolta.
Ed ecco che nell’833 viene fondato a Baghdad un nuovo centro culturale, la biblioteca chiamata la “Casa della Sapienza”, fondata per volere del califfo Al-Ma’Mun. Gli arabi non solo erano in possesso dell’opera di Tolomeo, ma anche dell’opera di Marino di Tiro, che conservarono gelosamente, perchè di gran lunga migliori di quelle di Tolomeo, come affermato in uno scritto del geografo al-Mas’ūdī. Fu forse grazie a quest’eredità che gli arabi riuscirono a disegnare carte precise tanto del mediterraneo e dell’Oceano Indiano?
Ma il viaggio non era finito. Nel 1204, infatti, Costantinopoli cadde in mano ai Veneziani, ed ancora una volta tutto ciò che si salvò fu trasferito nella città marinara, in possesso, peraltro, anche del prezioso resoconto dei viaggi che Marco Polo intraprese in Oriente, portando il mondo occidentale a conoscere alcune zone del mondo mai esplorate prima. Hancock, in “Civiltà sommerse”, si sofferma in modo particolare sulla menzione, da parte di Marco Polo, di un’antichissima carta nautica, che ritraeva l’isola di Ceylon di un terzo più grande di quella dei suoi tempi, come se fosse stata rilevata prima che il diluvio ne affondasse una parte. Forse una di quelle famose mappe di Marino di Tiro?
Inoltre, non è da escludere che, tramite i Crociati, alcune di queste antiche mappe siano poi rientrate in circolazione, ed utilizzate nuovamente dai marinai.
LE MAPPE MEDIEVALI
Siamo dunque giunti nell’epoca medievale, che dal punto di vista della concezione del globo era fortemente influenzata dalla visione cristiana, che negava l’esistenza dell’emisfero australe. Nel libro “Civiltà sommerse” Hancock chiarisce quali erano i tipi di mappe che circolavano in quel periodo. La carta medievale classica era la cosiddetta T/O, ovvero Terrarum Orbis, il cui prototipo risaliva al VII secolo, e rifletteva un’immagine del mondo coerente con i dettami della chiesa, ovvero circolare. La lettera O rappresentava il Mare Oceanum, detto anche Fiume Oceano, che si diceva circondasse le terre emerse; mentre la T stava ad indicare le tre parti del mondo, ovvero Europa, Asia ed Africa, intorno al bacino del Mediterraneo. La cartografia cristiana, la cui produzione fu in modo particolare curata dai copisti nei monasteri, teneva conto della religione, e spesso in cima a tali mappe era raffigurato il Paradiso Terrestre, come pure i 4 fiumi biblici, mentre i tre continenti erano associati a Cam, Set e Iafet.
Il modello più evoluto della mappa T/O è il mappamundi, o “panno del mondo”, in quanto disegnato a mano su tessuto, di cui è esempio quello della cattedrale di Hereford del 1290. Rispetto al modello precedente, in questo caso si avevano più dettagli, che includevano anche racconti leggendari, mentre l’aspetto puramente geografico lasciava molto a desiderare. Niente a che vedere con le mappe tolemaiche. Infatti, copie dell’opera del geografo dell’antichità classica, eseguite probabilmente da monaci, fecero il loro ingresso in Europa, fornendo la base per nuove mappe, che avrebbero poi incluso di volta in volta le nuove scoperte geografiche effettuate in America e nell’Oriente. Un primo punto oscuro riguarda la certezza che si tratti di copie degli originali, e non piuttosto di mappe eseguite dagli stessi monaci utilizzando le istruzioni tecniche lasciate da Tolomeo.
I PORTOLANI
Ed infine, ma non ultimo per importanza, c’era il portolano, (così era detto il libro cui la carta era associata) che descriveva le coste, i porti, le distanze, ed abbandonava quindi ogni visione simbolica del mondo. I primi portolani risalgono al Duecento, e la maggior parte prende in esame la zona del Mediterraneo e del Mar Nero. La particolarità dei portolani? Quella di essere talmente precisi da competere con carte nautiche redatte secoli dopo, senza avere però a disposizione la stessa strumentazione. E di sicuro erano più precisi delle mappe tolemaiche, tanto da correggere l’errore di Tolomeo riguardo alla rappresentazione del mar Mediterraneo. I portolani, oltre a rappresentare in modo molto accurato la zona del Mediterraneo, mostravano anche zone sconosciute all’epoca.
Essi rimangono inalterati per circa 500 anni, senza notevoli modifiche o aggiornamenti, rispetto al primo esemplare. La domanda più assillante è questa: se i portolani fossero il risultato di una lunga evoluzione, che dagli antichi peripli migliorarono grazie alle osservazioni dirette, tra gli uni e gli altri dovrebbero esserci delle fasi intermedie “dal momento che la stesura di carte nautiche basata sulla navigazione stimata....è un procedimento penosamente lungo costellato di tentativi ed errori, correzioni e graduali migliorie” (G. Hancock – opera citata – pag. 626)
La navigazione stimata si serve di “valutazioni empiriche della rotta, della velocità e del tempo impiegato” per calcolare la longitudine, e dovrebbe così giustificare la capacità dei navigatori dell’epoca di raggiungere, passo dopo passo, risultati sorprendenti. Ed è proprio questo il percorso che invece sembra assente. Anche ipotizzando l’uso della bussola, e pur ammettendo che le prove di un’avvenuta evoluzione siano andate perse, di fatto tra il primo portolano ed i successivi non vi sono segni di ulteriore progresso.
Nei portolani la linea di partenza era una serie di linee che collegavano 16 punti equidistanti, disposti su una circonferenza. Queste linee, che vengono dette “linee di rombo” o “linee lossodromiche”, si intersecano, ed in alcuni punti appare una “rosa della bussola”. Queste linee, unite all’uso della bussola, permettevano il calcolo delle rotte e delle distanze, essendo di notevole aiuto ai marinai, che su di essi trovavano i nomi dei vari siti scritti perpendicolari al litorale. Inoltre, utilizzavano colori convenzionali a seconda di ciò che volevano indicare, località o venti; alcuni simboli indicavano i pericoli, come scogli, banchi di sabbia o secche. In definitiva, una carta di massima utilità e piena di punti di riferimento per chi affrontava il mare.
Nonostante nei portolani non vi siano indicazioni circa le coordinate, se queste vengono misurate risultano essere molto precise. Come è possibile, allora, se il cronometro marino, lo strumento che rese possibile la misurazione precisa della longitudine, fu inventato nel 18° secolo? E’ possibile che i portolani nascessero dall’antica eredità lasciata dalle mappe di Marino di Tiro?
Analizzando diversi portolani, dal Trecento al Cinquecento, Nordenskiöld, un’autorità nel campo, mette in evidenza che molte caratteristiche, dalle scritte, ai nomi delle località, alla scala grafica con la stessa unità di lunghezza, alla forma di alcuni isolotti, rimane inalterata. Questo farebbe sorgere almeno il sospetto che utilizzassero tutti un modello originario.
Navigando in internet, tra i molti siti che ho visitato, ho trovato una tesi del tutto contraria, ed è giusto riportarla. Si crede, in sostanza, che la mancanza di precedenti documenti nautici di questo tipo sia dovuta non solo alle perdite del materiale cartaceo, ma anche al fatto che, una volta raggiunto lo scopo, ovvero ottenere la definitiva mappa, quella nata da tentativi precedenti, questi sarebbero stati volontariamente distrutti, in quanto non più necessari.
ALCUNE MAPPE
Ma vediamo più in dettaglio alcuni di questi portolani. La carta più strabiliante è la Carta Pisana, che dà l’avvio a questo genere, ed è la più antica. Circa la sua datazione, è stimata alla seconda metà del XIII secolo. Non è firmata, e deve il suo nome al fatto che fu ritrovata presso un archivio di Pisa. I profili del Mediterraneo sono precisi, ed è stato ipotizzato che avesse preso forma da un testo, Lo Compasso de Navigare, che circolava tra i marinai. Ma sembra che su questo primo portolano compaiano nomi di località che in quel testo non sono menzionate. La Carta Pisana resta un vero enigma, se non per la sua realizzazione, ammettendo la possibilità che quanto detto prima sia valido, per la sua apparizione improvvisa, che diede poi il via ad una vera e propria produzione di portolani. A partire dal secolo successivo, i portolani iniziarono ad uscire dal bacino del Mediterraneo, estendendosi anche ad altre parti del globo non ancora esplorate. Nel suo studio Hapgood scoprì che la caratteristica fondamentale, oltre all’estrema precisione, era quella di mostrare con chiarezza che il livello dei mari era inferiore.
Interessante è il portolano di Ibn Ben Zara, datato 1487, che ritrae il Mar Mediterraneo ed il Mare Egeo, indicando un numero maggiore di isole, come se fosse stato disegnato in un periodo in cui le acque erano più basse. Altra anomalia è che la foce del fiume Guadalquivir risulta essere una baia; inoltre, compaiono ghiacciai in Irlanda ed Inghilterra.
Importante anche una mappa del 1559, disegnata dall’arabo Hadji Ahmed, che mostrava il Nord America ancor prima delle esplorazioni europee . In essa il continente americano appare ricoperto dai ghiacci, come doveva apparire millenni fa. Mentre l’Antartide presenta errori di proiezione, compare quel ponte di terra tra Alaska e Siberia, esistito solo durante l’era glaciale.
Il mappamondo di Oronzio Fineo, del 1531, mostra solo la parte più interna del continente antartico coperta dai ghiacci, mentre compaiono fiumi, estuari ed insenature laddove oggi il mare di Ross è interamente sepolto. Con l’ausilio di tecniche moderne, si è potuto stabilire, grazie al ritrovamento in questa zona di sedimenti tipici trasportati dai fiumi, che questi realmente scorrevano nella terra antartica, indicando un clima totalmente differente da quello odierno all’incirca 6.000 anni fa. Un errore che compare è la confusione del circolo Antartico con l’80° parallelo, che determina il quadruplicarsi della superficie del continente.
Nel 16° secolo Gerard Kremer, noto come Mercatore, usò la proiezione detta piano-quadrata, tuttora usata, in cui i meridiani sono equidistanti, mentre i paralleli si distanziano con l’aumentare della latitudine. Ne risulta un reticolo geografico in cui le maglie si sviluppano proporzionalmente nel senso della latitudine e della longitudine. Questo comporta un ingrandimento di quelle zone che sono molto lontane dall’Equatore, ma consente di realizzare e mantenere esatta la forma delle terre. Il mappamondo da lui disegnato nel 1596 raffigurava le coste antartiche libere dai ghiacci. Di contro, la precisione viene meno in una carta del Sud America disegnata nel 1538.
Abbiamo già visto gli errori presenti anche nella mappa di Piri Re’is. E non dobbiamo scordare che lo stesso Tolomeo fu autore di una mappa, la Carta del Nord, in cui la Svezia risultava coperta dai ghiacci. Come spiegare tutto ciò?
Nella mappa di Philip Buache eseguita nel 1737, l’Antartide è rappresentata da due masse continentali separate da una spaccatura, che fu poi scoperta nel 1958. Questo lascia intendere che egli utilizzò una sorgente più antica rispetto a quella di Piri e di Mercator, nelle cui mappe solo le coste appaiono sgombre dai ghiacci.
ULTERIORI CONGETTURE ED ALTRE MAPPE
A questo punto, appare possibile che fin dai tempi di Alessandria vi fossero due strade parallele, che a volte s’incontrarono, provocando quegli errori, su cui ci siamo soffermati, accanto a dati più precisi. In sostanza, mappe sorgente e conoscenze scientifiche più remote, e nuovi dati e studi eseguiti in prima persona, in campo astronomico ed anche geografico. Applicando il medesimo ragionamento ai cartografi medievali, che integravano i dati che mano a mano emergevano dalle esplorazioni contemporanee, allora sarebbe più logico che le mappe tolemaiche in uso nel Medioevo, ricondotte agli studi e alle modifiche apportate da Tolomeo, risultassero molto più scarse dei portolani, che probabilmente si rifacevano ad una tradizione molto più antica, e rimasta inalterata, che era stata tramandata nel tempo. E questo è valido soprattutto quando si esce dal bacino del Mediterraneo, in quanto le mappe universali sembrano riportare la topografia dell’Era Glaciale, quella stessa che anche i più antichi geografi sembravano conoscere, e che ha indotto a ritenere che molte mappe riportassero dati errati, in quanto non si adattavano affatto alla situazione del momento.
Questa supposizione risulta adattabile anche all’epoca dei grandi viaggi compiuti di portoghesi. Dal punto di vista delle scoperte, il Portogallo rivestì un ruolo importante, grazie alla figura del principe, detto Enrico il Navigatore. Tramite il fratello, che soggiornò a Venezia, Enrico venne in possesso non solo di una copia del libro di Marco Polo, ma è probabile che entrò in possesso anche di alcune carte nautiche molto antiche, quelle stesse che da Alessandria erano giunte a Venezia, passando per Costantinopoli. Inoltre, quando questa cadde in mano ai Turchi nel 15° secolo, vi fu una sorta di diaspora, e molti studiosi, e con loro alcuni preziosi documenti, mutarono destinazione. In tal modo il Portogallo divenne il nuovo centro di raccolta di molte mappe. Questa è l’epoca del Rinascimento, nome appropriato se si pensa che vide il rifiorire di nozioni scientifiche che il Medioevo oscuro aveva gettato nel dimenticatoio. Enrico promosse qualsiasi studio che risultasse utile per poter affrontare i viaggi nel mondo ancora ignoto, ed i portoghesi iniziarono l’esplorazione dell’Africa, stabilendo che questa era un continente, cosa peraltro già suggerita dagli arabi nell’XI° secolo. Le conoscenze arabe confluite in Portogallo non si limitarono alla geografia: nel campo dell’astronomia, grazie agli astrolabi ed i quadranti, si ottennero risultati eccellenti. La misurazione della latitudine tramite il rapporto di un luogo rispetto alla stella polare viene attribuita proprio al principe Enrico.
Analizzando la mappa Cantino del 1502 ci si rende conto che essa riproduce la parte nord-occidentale dell’India, senza la penisola del Kathiawar, in modo molto diverso, più preciso, rispetto a quanto non facciano le mappe tolemaiche. Allo stesso modo, viene riprodotta la costa orientale e lo Sri Lanka. Eppure i portoghesi non giunsero in India che qualche anno dopo. Anche la mappa Reinal, del 1510, aveva le stesse caratteristiche, ovvero la mancanza della penisola del Gujarat con i due golfi di Cambay e Kutch; la parte meridionale dell’India piegava verso sud-ovest ed alcuni isolotti risultavano troppo grandi. In sostanza, queste due mappe sono totalmente diverse da quelle tolemaiche, e presentano l’India come doveva essere durante l’ultima Era Glaciale. In definitiva, quelli che sembrano essere errori, sono tali solo se riportati all’epoca di stesura di tutte queste mappe. La qual cosa sembra suggerire che non si trattò di stesura ex novo, ma di copiatura.
CRISTOFORO COLOMBO
Non è possibile affrontare a 360° il tema della scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo, ma, poichè siamo partiti da Piri Re’is e dalla sua annotazione su un misterioso libro, alcuni elementi vanno analizzati.
Di sicuro Cristoforo Colombo ebbe accesso alla collezione segreta custodita dalla marina portoghese. I Flem-Ath raccontano che Colombo entrò in possesso di alcune mappe, che erano state di proprietà del suocero, grande amico del principe Enrico. E’ ormai risaputo che il navigatore spese molto tempo alla ricerca di tutte quelle mappe che potevano fornirgli indicazioni sulle rotte occidentali, nonchè sulle isole su cui avrebbe potuto fermarsi. La Carta di Benincasa è del 1482, e raffigurava due grandi isole al largo delle coste spagnole. Allo stesso modo, la mappa di Toscanelli, anch’essa in mano a Colombo, menzionava Antilia.
E Piri Re’is, dal canto suo, accenna ad un libro risalente ai tempi di Alessandro Magno, che mostra Antilia ad occidente dell’Atlantico. Nonostante si sia tentato di identificare tale libro con l’opera di Tolomeo o con il Milione di Marco Polo, Hancock fa notare che entrambi i testi erano conosciuti all’epoca, ma mai nessuno, in base ad essi, aveva ipotizzato l’esistenza di un nuovo mondo. Il libro in questione, a detta dell’ammiraglio turco, era pre-tolemaico. Questa, ovviamente, sembra un’eresia. Inoltre, l’apparizione di isole misteriose, che furono poi sommerse durante il disgelo, ci fa naturalmente pensare che se Atlantide esistette, allora forse era raffigurata in qualche portolano. E per molto tempo si pensò che poteva essere Antilia, data anche l’assonanza. Antilia, che sarà una vera ossessione per Colombo, fa la sua prima apparizione, in mezzo all’Atlantico, insieme ad un’altra isola, chiamata Satanaze, nella carta Pizzigani del 1424; identificate poi con Taiwan e Giappone, ma come apparivano migliaia di anni fa, quando le tre isole giapponesi erano ancora unite, fornendo un altro esempio della sopravvivenza di un’antica cartografia.
Mentre, nel globo di Behaim del 1492, un’isola con la stessa forma rettangolare di Antilia, con nome di Cipango, compare invece di fronte alla Cina. E dunque, anche in questo caso, non sembra poter essere questa la fonte di Colombo, in quanto non menziona affatto il Nuovo Mondo. Secondo Graham Hancock, Colombo possedeva una carta delle coste dell’America centrale e di alcune isole, ma sempre come dovevano apparire in Era Glaciale.
Inoltre, dato che la carta disegnata dal turco derivava da un originale disegnato da Colombo, allora dovevano esserci dei punti in comune. “E’ perciò sconcertante notare come – proprio nella sezione della mappa di Piri che sarebbe stata ripresa dalla carta nautica di Colombo – sia chiaramente raffigurata una vasta isola fantasma approssimativamente con la stessa forma, le stesse dimensioni e lo stesso orientamento nord-sud della Bimini antidiluviana...chiaramente segnata da una fila di enormi lastre di pietra...che ricorda...l’aspetto della Strada di Bimini oggi sommersa.” (Civiltà sommerse”, pag.715) Dunque Hancock ipotizza che Colombo scambiò quello che era il Grande Banco delle Bahama, orientato da nord a sud, con una parte del continente asiatico. Convinto di raggiungere Cipango, la favolosa terra descritta nel Milione, Colombo era in realtà diretto verso un luogo che non esisteva più. Ma questa è solo un’ipotesi.
D’altro canto, sempre più numerosi sono gli articoli, (tra cui quelli apparsi su Hera e firmati da Ruggero Marino), che evidenziano come le stesse descrizioni lasciate da Marco Polo su Cipango, non si adattano affatto al Giappone, mentre sembrano adeguarsi molto di più ai nativi americani; così come la sua collocazione in pieno oceano a 1500 miglia dalla terraferma e la descrizione di una grande isola non sembrano affatto accordarsi con il Giappone, vicino alle coste cinesi.
Sembrerebbe proprio che dalla confusione totale di nomi, tradizioni, carte, e resoconti, all’epoca, mentre vigeva il preconcetto che viaggiando verso ovest si sarebbero raggiunte le Indie, e si ignorasse il continente americano, dall’altro circolavano mappe che invece ne ritraevano una parte, con un insieme di isole, tra cui forse la Bimini antidiluviana, che potrebbe aver fornito poi il modello per Antilia. E così, in un intreccio di tradizioni, queste mappe avevano finito per rappresentare le terre giuste ma nel luogo sbagliato, oppure le terre sbagliate, perchè non più esistenti, nel luogo giusto.
ANCORA PIRI RE’IS: OBIEZIONI
Non è possibile terminare così questo lungo discorso che lascia presupporre che sia esistito qualcuno, non sappiamo chi, che abbia cartografato l’intero globo terrestre millenni fa. Ovviamente, molte altre sarebbero le mappe degne di essere menzionate, troppe.
Ma è venuto il momento di dare voce anche alle critiche, non poche per la verità, che ha suscitato la mappa di Piri.
La prima critica riguarda proprio la presenza della Terra Australis, presente anche in altre mappe. La spiegazione ufficiale è che la sua presenza fosse stata inserita per controbilanciare le terre conosciute, come a voler soddisfare criteri di simmetria. E’ la tesi di Lyon Sprague de Camp, che ricorda come tale continente fosse stato inserito a tal fine fin dai tempi di Tolomeo. Viene però naturale chiedersi perchè preoccuparsi di rappresentare anche coste, fiumi e montagne, che per di più corrispondono a quello che oggi sappiamo dell’Antartide.
Ma anche questo assunto non è condiviso da tutti. Mario Tozzi, ricercatore del Cnr e membro del Dipartimento di Scienze della Terra dell’università di Roma, dichiara in un articolo apparso sul n° 116 di Focus che “La carta di Piri Re’is non è così accurata come si vorrebbe far credere: la mappa dell’Antartide, in realtà, non concorda affatto con la linea di costa attuale”. Inoltre, si evidenziano gli errori contenuti nella mappa, a dimostrazione che, per quanto possa essere fatta bene, non ha nulla di particolare. A parte quelli già citati, si ricorda che Hispaniola viene confusa con Cuba, ed è orientata secondo la direzione nord-sud. Se l’ipotesi di Hancock fosse giusta, però, quella orientata da nord a sud sarebbe l’isola antidiluviana, e forse fu proprio Piri Re’is a modificarne il nome, chiamandola Paksin Vidad (che ci ricorda Navidad) o l’Isola detta Isola spagnola.
Inoltre, l’errore relativo al Rio delle Amazzoni potrebbe trovare giustificazione proprio ammettendo, come notato in precedenza, l’esistenza di rilevamenti cartografici fatti a più riprese nel tempo, e sovrapposti poi erroneamente.
Per quanto riguarda invece i dati precisi di tale mappa, Tozzi rende merito all’ammiraglio turco di aver disegnato un planisfero intero “senza l’ausilio delle moderne coordinate geografiche, ma usando solo le direzioni rispetto alla rosa dei venti e le distanze misurate dai marinai.” Ma anche qui i pareri sono discordanti. Infatti, l’estrema coerenza dal punto di vista longitudinale tra i continenti lascia un pò perplessi, e molti studiosi sono convinti che i compilatori delle antiche mappe fossero invece a conoscenza di leggi cartografiche. Fu il capitano Mallery il primo, ma non ultimo, ad ipotizzare che fosse conosciuto il metodo per proiettare uno sferoide, come la terra, su di un piano, trasferendo la mappa di Piri Re’is su di una griglia, e notando che era precisa anche nei più piccoli particolari, come se la mappa fosse stata ideata per essere poi applicata intorno ad un globo. La conclusone del capitano era che nessuno sarebbe stato in grado di fare dei rilevamenti così precisi di terre così estese, a meno che non si fosse ricorso ad osservazioni aeree.
E’ ovvio che gli scienziati non credano affatto a tale ipotesi, che, quasi in automatico, viene ricondotta agli extraterrestri. Ma alieni a parte, credo che la parte finale dell’articolo apparso su Focus sia molto importante:
“..Cosa dice l’ammiraglio? Che la sua carta è “un documento composito, basato su antiche carte greche e arabe e su mappe tracciate da Colombo e su carte e resoconti verbali di altri esploratori del Nuovo Mondo”. Quindi, nulla di misterioso. Ma alcune considerazioni vanno fatte: è vero che già nel 1502 e nel 1504 Vespucci aveva costeggiato il Sud America, e che quindi alcune informazioni potevano circolare. Ma come giustificare informazioni relative all’interno della costa? Inoltre, sembra strano che in quel tempo di conquista e di colonizzazione, un vero affare politico ed economico, si fosse disposti a rendere noti i successi ottenuti, tanto più che il Portogallo condannava a morte chiunque venisse sorpreso a portare fuori dal paese le carte nautiche. Ma le indiscrezioni non sono da escludersi, e quindi forse questo può essere successo.
Ma c’è un ulteriore punto da sottolineare: non si menziona affatto il libro che Piri Re’is attribuisce ai tempi di Alessandro. Si parla invece di fonti greche: forse si vuole ricondurre Alessandro al periodo alessandrino, dunque alla carte tolemaiche? Se così fosse, è un dato di fatto che nella Geografia di Tolomeo non c’è nulla che abbia a che fare nè con l’Atlantico nè con Antilia. A meno che non si trattasse effettivamente del Milione di Marco Polo: in questo caso, allora, Colombo avrebbe dovuto possedere validi elementi per comprendere che Cipango non era il Giappone.
Ma le critiche non sono finite. Nel citato articolo di Mystero viene riportato il parere del geologo Robert Scoch, il quale asserisce che già in una mappa del 1504 sono raffigurate le Ande, così come nelle carte di Stobnicza, che vennero inserite nella riedizione dell’opera di Tolomeo. Il quale aveva parlato di una terra australe, e quindi poteva rappresentare un’altra fonte tutt’altro che misteriosa. Scoch ricorda che lo stesso Hapgood ammise che le coste del Sud America sembravano mancanti di circa 1400 km. “Se lo si sposta in direzione sud, ecco che il tratto di costa rivolto a est viene a rappresentare con discreta fedeltà la linea di costa del Sudamerica orientale, dalla foce del Rio de la Plata alla Terra del Fuoco.” Le tre isole presenti somigliano alle Falkland, e anche la punta meridionale dell’America sembra corrispondere. La nota n° 10 di Piri Re’is potrebbe essere spiegata indicando tale zona col nome di Patagonia. E, poichè la pelle su cui l’ammiraglio disegnò la mappa era troppo corta, è naturale che egli sia stato costretto ad orientare la costa ad est invece che in basso. Lo stesso lama andino non rappresenta alcuna prova: essendo rappresentato con le corna, potrebbe essere anche qualcos’altro.
E, per quanto riguarda l’assenza di ghiacci aggiunge: “Se la calotta glaciale dovesse sciogliersi, il continente salirebbe verso l’alto, per un processo geologico chiamato rimbalzo isostatico, di oltre un km all’interno e fino ad una cinquantina di metri lungo le coste...l’innalzamento del livello dei mari, combinato con il rimbalzo isostatico, ci darebbe un Antartide marcatamente dissimile nella forma da quella, uguale a quella attuale, che suppongono i sostenitori dell’ipotesi che togliere i ghiacci sarebbe come togliere un vetro dalla cornice di un quadro”.
Ma qui entriamo in un altro campo, quello delle teorie sulle glaciazioni, qui appena sfiorato, ma di estrema importanza per questa ricerca.