Un popolo particolare, con un civiltà molto raffinata, purtroppo non si hanno testimonianze scritte da parte loro, ma soltanto quelle di contemporanei che raccontano, spesso a modo proprio, il modo di vivere ed i costumi. La loro cultura si basava interamente sulla trasmissione orale della letteratura.
L’insegnamento orale non era la ripetizione a cantilena di versi ritmici ma l’utilizzazione di un ritmo particolare che portava alla semiestasi e dopo vari anni di questa pratica si assorbiva una quantità enorme di testi. In India, ancora oggi, in alcune scuole Braminiche si continua a praticare l’insegnamento orale.
Comunque un quadro della loro cultura e storia si può ricavare sia dagli scritti classici che dai reperti archeologici.
Erano un popolo fiero e combattivo, alti e possenti, a volte paragonati ai Giganti, venivano infatti annoverati fra i discendenti di Eracle. Narra Diodoro che l’eroe arrivò fino in Francia dove fondò Alesia e si innamorò di una bellissima principessa che fino a quel momento aveva respinto tutti i pretendenti, ma con il semidio fu diverso; egli impressionò così tanto la fanciulla “con il suo valore e la sua prestanza fisica, che essa consentì felice ai suoi abbracci senza prima chiedere il permesso ai genitori. Frutto di questa unione fu quindi un piccolo eràclide , che ebbe nome Galàtes e che superò tutti i giovani della sua tribù per spirito e per forza. Una volta subentrato sul trono al nonno, sottomise una notevole parte della regione vicina e compì grandi gesta. Ciò lo rese tanto famoso, che decise di chiamare tutti i sudditi, dal suo nome, galatai o galli. Da questi deriva ora il nome di tutta la Gallia.” Una leggenda per spiegare l’origine del nome di un popolo”.
I Celti erano organizzati in tribù in cui regnava un re, che non veniva nominato per discendenza ma per capacità, ma i veri capi, coloro che tutto decidevano erano i druidi.
Figure misteriose; fluttua ancora nel tempo l’alone della loro magia, fanno ancora oggi breccia nell’immaginario collettivo e continuano ad avere un notevole impatto sulla vita esoterica del mondo moderno. Durante le assemblee il Re parlava sempre dopo il suo druido. Erano loro che decidevano i tempi delle semine e dei raccolti, se fare o non fare una guerra, disponevano nei litigi e nelle controversie. Erano gli effettivi capi spirituali ed in più servivano per unire, con un’unica cultura, tutte le varie tribù che avevano tendenze fortemente anarcoidi.
ORIGINI E STORIA
Vengono identificati come un gruppo linguistico che parlava un lingua discendente dall’indoeuropeo.
L’ipotesi indoeuropea è vista in maniera valida dagli studiosi perché esistono straordinari paralleli tra la cultura del Celti e quella degli Indù in parecchi campi: nella legge, nei modi religiosi, nella mitologia, nelle caste e nella musica.
I greci definendoli “Keltoi” (o Galati) identificavano i loro “luoghi di origine” presso le sorgenti del Danubio, del Reno e del Rodano.
All’inizio del primo millennio la società Celtica ebbe un forte impulso dovuto al fatto di aver appreso l’arte della fusione del ferro. Asce, falci e vari attrezzi permisero di aprirsi dei varchi nelle impenetrabili foreste dell’Europa del Nord, di avere nuove tecniche di agricoltura, di essere più mobili e cosa non indifferente procurò loro nuovi armamenti (spade, lance) che li resero militarmente superiori ai popoli vicini. Nel VI sec. sfruttando le nuove tecniche si propagarono in ogni direzione, un secolo dopo arrivano nell’Italia del nord dove incontrano Etruschi e Romani.
I Romani li chiamavano Galli ed invasero l’Italia settentrionale attraversando i passi alpini, da qui i nomi di “Gallia Cisalpina” e “Transalpina”.
Si stabilirono dapprima nella valle superiore del Po, travolsero e scacciarono gli Etruschi la cui civiltà stava già decadendo.
Gli “Insubri” furono i primi arrivati, e sembra che stabilissero il loro centro in un luogo che chiamarono Mediolanum, cioè Milano. Furono seguiti da altre quattro tribù che si stabilirono in Lombardia. Poi arrivarono i “Boi” e i “Lingoni” che trovarono stanza in Emilia, gli ultimi furono i “Senoni” che si stabilirono lungo le coste adriatiche e nell’Umbria. Nell’Italia settentrionale fondarono alcune fra le più importanti città italiane: Taurinum (Torino), Bergomum (Bergamo) e Mediolanum come già detto, che furono città fiorenti e ricche ben prima della conquista dei romani.
I Celti si spostavano con le famiglie e i loro beni al seguito, ma organizzavano anche delle “bande” di guerrieri che compivano razzie nei territori più meridionali man mano che avanzavano.
Raggiunsero la Puglia ed anche la Sicilia, mentre Roma fu uno dei primi obiettivi con il sacco del 390 a.C. dove Brenno capo dei Celti sconfisse i romani presso il fiume Allia, i romani in ritirata si rifugiarono direttamente sul Campidoglio, cittadella fortificata.
I Celti entrarono in una Roma deserta, provarono numerose volte ad attaccare il Campidoglio con risultati disastrosi, decisero all’ora di assediare il nemico. Il problema era il rifornimento dei viveri per ambedue le forze avendo i Celti distrutto e saccheggiato tutte le zone limitrofe, in più scoppiò una pestilenza. Fu così che ebbe luogo il tentativo di assalto alla rocca di notte sventato dallo strepitio delle famose oche sacre a Giunone.
Dopo sette mesi d’assedio cominciarono le trattative e i Celti si “accontentarono” di mille libbre d’oro somma veramente molto alta. La storia narra di come al momento della pesa dell’oro i romani sostennero che i pesi erano falsi, fu allora che Brenno rispose, buttando la spada sulla bilancia colma, “Vae victis” (guai ai vinti). Per Roma fu un vero smacco ed i romani cominciarono ad aver paura del popolo celtico.
Furono, da allora, per i romani una vera spina nel fianco e ci furono molti scontri fino alla battaglia di Capo Telamonio nel 225 a.C, quando un grande esercito gallico, che includeva truppe fresche fatte giungere da territori oltre le Alpi, fu circondato da due eserciti romani e distrutto. L’indipendenza della Gallia Cisalpina finì nel 192 a. C. quando i Romani sconfissero i Boi nella loro roccaforte che divenne poi la moderna Bologna. All’est, le prime notizie storiche dei Celti risalgono al 369-368 a.C. quando alcune loro bande servirono come mercenari nel Peloponneso. Intorno al 350 a.C. un’orda di Galati discese in Macedonia in pieno inverno. Qualche calamità doveva averli costretti a spostarsi in quella stagione, viaggiavano con le famiglie ed i carri, avanzavano saccheggiando e depredando cercando un posto dove stabilirsi. La guerra che ne seguì è ben ricordata nella storia greca. Si narra che sotto il comando di Brenno (omonino dell’eroe della protostoria romana) un gruppo attaccò Delfi considerato il centro del mondo.
Fu il panico fra i greci (come un po’ per tutti i popoli che venivano a contatto con i Celti) ed i sacerdoti del tempio si rivolsero alla Pizia, volendo sapere se dovevano evacuare la città. La risposta fu sibillina; nessun pericolo minacciava i sacri edifici, poiché Apollo e le “candide vergini” li avrebbero protetti.
Volle i caso (o forse no!) che Brenno fosse attaccato durante una tempesta di neve ai piedi del monte Parnaso, i suoi guerrieri furono annientati e lui gravemente ferito. I greci dedussero che le candide vergini erano i fiocchi di neve che sicuramente li aiutarono nella loro vittoria e da sempre democratici e liberali aggiunsero agli scudi persiani, che già erano appesi come trofei nel tempio di Apollo a Delfi, quelli dei Celti.
Altre tribù si diressero a sud-est dei Dardanelli, si trovarono nell’Asia minore; qui avevano vasti territori da saccheggiare e nei quali stabilirsi.
Furono raggiunti da un’altra tribù di cui si conosce il nome, i “Tectosagi”e si aprì così un periodo di banditismo incontrollato, ma queste tribù furono finalmente frenate e si stabilirono nella Frigia settentrionale, che da allora fu chiamata “Galazia”. I Tectosagi abitarono il territorio della moderna Ankara.
I Galati conservarono la loro indipendenza per molti secoli ma lontani dal loro luogo di origine divennero il primo popolo celtico convertito al cristianesimo, da qui le celebri lettere di San Paolo ai Galati. Nel III sec. a.C. erano già presenti in Spagna ed in Asia Minore, nel II e I sec. a.C. occupavano tutta la Gallia, oggi Francia.
Il loro massimo momento di prosperità ed espansione fu nel V e IV sec. a.C. poi cominciò il declino sia per cause naturali che per l’espansione romana e le battaglie di Giulio Cesare. Solo nella Bretannia ed in Irlanda alcuni gruppi etnici sopravvissero, preservandosi dalla cristianizzazione, altro elemento di grande importanza, e sopravvissero fin oltre il periodo medievale.
I CELTI IN BATTAGLIA
Il coraggio dei Celti era proverbiale. Aristotele afferma che non temevano nulla “neppure i terremoti o le onde”, avevano tattiche di battaglia strategiche ed eccellevano nella cavalleria che, associata all’uso di armi di qualità superiore, gli permise un grande vantaggio sul mondo mediterraneo.
I Celti erano notevoli agli occhi mediterranei per l’alta statura, la pelle molto chiara, la muscolatura, i capelli biondi e gli occhi azzurri.
Diodoro, storico greco, così li descrive in battaglia: “era terribile....sono alti di statura, con una muscolatura guizzante sotto la pelle chiara. Di capelli sono biondi: e non solo di natura perché se li schiariscono anche artificialmente lavandoli in acqua di gesso, pettinandoli poi all’indietro sulla fronte verso l’alto. Sembrano quindi già per questo, demoni silvani poiché questo tipo di lavaggio rende la chioma spessa e irta come una criniera. Taluni si radono la barba, altri (in specie i maggiorenti) ostentano con guance rase baffi che coprono l’intera bocca, e fanno da setaccio durante l’assunzione di alimenti, per cui vi restano attaccati pezzi di cibo.... Vestono camicie ricamate di tinte sgargianti e portano inoltre dei calzoni, che chiamano “bracae”, e mantelli fissati alla spalla da un fermaglio, pesanti d’inverno, leggeri d’estate. Questi mantelli sono a strisce o a quadri, e i singoli quadri stanno fitti gli uni accanto agli altri e presentano colori diversi.”
Proseguendo: ”alcuni portavano elmi di bronzo con grosse figure a sbalzo o anche corna, che li fanno apparire più alti di quanto non siano....mentre altri si proteggono con loriche in ferro fatte di catene intrecciate. La maggior parte, va nuda in battaglia.”
Cesare fu il primo a menzionare l’uso di dipingersi il corpo di blu, usanza che scomparve gradualmente con l’occupazione romana, fatta eccezione per un popolo ribelle che fu, per questo motivo, appellato “Picti” da qui i Pitti.
Polibio ci da una vivida descrizione del loro aspetto raccontando della battaglia di Telamone combattuta fra Romani e Celti nel 225 a.C. egli ci narra che gli Insubri e i Boi, tribù dell’Italia Settentrionale, portavano pantaloni chiamati bracae e leggeri mantelli. I Gaesatae come lui erroneamente li chiama (per via dei capelli con la calce), guerrieri fatti giungere d’oltr’alpe che combattevano nudi in prima linea, erano ornati soltanto di collane e di braccialetti d’oro.
Infatti si trattava di una casta di guerrieri di professione, non di una tribù, così chiamati dalla parola gae, che significa lancia. Come in altre società indoeuropee o ariane, i Celti avevano una casta di guerrieri con i propri rituali; si trattava di professionisti che vendevano la loro esperienza. Questa casta di guerrieri celtici ha anche un parallelo nella società indù, nella casta degli Kshatriya, ossia immediatamente inferiore ai Bramini. Come alcuni membri della casta indù, i Gesati celtici combattevano nudi perché ritenevano che questo avrebbe realizzato al massimo livello il loro Karma, aumentando il coraggio, e che se fossero stati uccisi, avrebbe accelerato la loro incarnazione.
Con Polibio e altri autori possiamo osservare il loro comportamento sul campo di battaglia. L’utilizzazione del carro da guerra era solo quella di spingersi furiosamente verso le schiere del nemico per incutere terrore, sia con la semplice apparizione, sia col lancio di armi e col rumore tremendo e continuato di urla, con suoni di corni e con furiosi colpi picchiati sui fianchi dei carri. Cesare racconta di come in Britannia i guerrieri correvano rapidamente sul timone del carro e stavano poi ritti sul giogo dei cavalli per impressionarli con la loro abilita. I guerrieri poi scendevano dai carri, l’auriga si teneva pronto in caso di ritirata, e con la spada sguainata si preparavano a sfidare il campione avversario. La sfida si svolgeva secondo una formula stabilita, con atti di bravura e di vanteria di lignaggio e ci si eccitava in una specie di stato frenetico. Quando erano in campo, non più normali, entravano in una sorta di trance e di frenesia del sangue. In seguito i romani definirono “furor” questo stato di follia da loro sempre temuto.
Nel combattimento tra tribù la massa principale delle truppe, composte anche da donne, non partecipava che verso la fine delle contese individuali. La battaglie contro i romani cambiarono questo modo di combattere coinvolgendo la massa fin dall’inizio. L’usanza arcaica di sfida individuale, sostenuta da campioni, che ricorda le scene dell’ l’Iliade era ormai un’antica tradizione caduta in disuso nel resto dell’Europa.
Una usanza celtica orripilante era la decapitazione del nemico e la sospensione delle teste sulle redine del cavallo, per esporle in patria o nei santuari.
ABBIGLIAMENTO ED USI
Abbiamo già accennato all’uso dei pantaloni da parte dei Celti, anche Strabone dichiara l’uso di queste bracae strette ed aderenti anche se in Gallia ne usavano di più larghe. Non erano un indumento comune nell’ area temperata del bacino mediterraneo, è sicuramente dalle steppe euroasiatiche che provengono poiché recavano calore e vantaggio ai cavalieri, così si diffusero fra Iraniani e Sciti e tramite le incursioni di quest’ultimi in Europa furono introdotti fra i Celti dell’Europa centrale.
Per quanto riguarda i Celti Irlandesi l’abito degli aristocratici consisteva in due indumenti, una tunica e un mantello, costume portato da ambo i sessi, per gli uomini fino al ginocchio per le donne fino alla caviglia, ed era tenuta alla vita da una cintura.
Il mantello di lana, a quattro punte, non aveva maniche né cappuccio ed era tenuto fermo da una spilla. La sua lunghezza dipendeva dal ceto sociale, si sa che il mantello dei re si poteva avvolgere cinque volte.
Le spille di bronzo, successivamente di vari materiali e fogge, molto simili alle nostre “spille da balia” fecero la loro comparsa nell’ Europa transalpina e praticamente sono rimaste in uso fino ai giorni nostri. Vari ritrovamenti archeologici ci mostrano i cambiamenti nelle mode e le influenze straniere. Un paio di spille rinvenute su uno scheletro all’altezza del petto fanno pensare che venivano usate per reggere il mantello.
Cesare aveva notato come in Gallia i figli maschi non sempre si vedevano in pubblico in compagnia del padre, finché non fossero in età di portare le armi. La ragione era che, come in Irlanda, i figli maschi erano affidati ad altre persone. In Irlanda venivano affidati fin dall’infanzia a famiglie di rango più elevato e tornavano alla casa paterna intorno ai diciassette anni.
Anche per le ragazze valeva la stessa cosa e tornavano a casa a quattordici anni “età della scelta” cioè del loro fidanzamento. L’insegnamento delle faccende domestiche e delle arti era proporzionato al loro rango ed era compito della famiglia adottiva che, come per i maschi, era retribuita per le cure e l’istruzione.
La proprietà della terra non era limitata a una sola persona ma a tutta la parentela, persino un re non poteva disporre personalmente delle sue terre. Recentemente si è appurato che il divieto di disporre di una proprietà era di antica origine indoeuropea.
Non vi era una pubblica amministrazione, fra tutte questi piccoli regni, o sistema giudiziario.
Particolare e esagerato era l’amore dei guerrieri celtici per il bere e le feste.
La birra era dappertutto la bevanda di produzione casalinga. Il maiale arrosto, o bollito in un gran calderone, era il piatto preferito. In Irlanda, un maiale arrosto intero, era considerato la porzione par excellence del campione. La porzione del campione faceva nascere spesso dispute che sovente degeneravano in un combattimento sul luogo. L’etichetta delle precedenze e dell’ospitalità era osservata ovunque. I posti alla festa erano dati secondo il rango e il diritto di precedenza. Agli stranieri, prima di parlare di affari, veniva offerto da mangiare, ed ognuno aveva il pezzo di carne che gli spettava. In Irlanda al re spettava una zampa di maiale, una coscia alla regina e la testa del cinghiale all’auriga del carro.
I Celti continentali sedevano sul fieno o su pelli sparse a terra, se mangiavano all’aperto, altrimenti sul pavimento di casa. Sedevano in circolo davanti a dei tavoli bassi, e oltre alla carne e alle bevande, veniva servito del pane.
Altri piatti conosciuti dai Celti erano il montone, il maiale e il pesce salato cotto al forno. Ateneo, altro storico, osserva con compiacimento il modo pulito di mangiare anche se vorace, ma la raffinatezza del banchetto consisteva nella musica e nelle composizioni orali dei bardi, che con lodi o satire esaltavano la reputazione di un principe. Così avveniva anche in Irlanda, dove l’antica tradizione dei poemi eroici laudativi continuò a lungo nei tempi storici.
Il festino era una occasione per risolvere le rivalità, ci dice Diodoro: “durante il pasto, essi sfruttano ogni più banale pretesto per scatenare litigi e sfidarsi l’un l’altro a duello. Per essi, la vita non conta nulla, perché tra loro vive ancora la fede di Pitagora nell’immortalità dell’anima e nella successiva rinascita. Conseguentemente, essi gettano, come ci dicono, anche lettere sui roghi dove bruciano i loro morti, come se questi potessero leggerli nell’aldilà”.
Scrive Diodoro “la donne celtiche se non sono alte quanto i mariti sono tuttavia altrettanto coraggiose....ma benché siano graziose, gli uomini non vogliono aver a che fare con loro. Essi preferiscono di molto l’amplesso con membri del loro stesso sesso; e giacciono su pelli di animali e vi si rotolano con un amante per parte. La cosa più stupefacente è che non tengono in alcun conto dignità e decenza, ma anzi offrono il loro corpo in modo del tutto disinibito. E non lo ritengono affatto vergognoso, anzi si offendono se uno, cui facciano approcci, rifiuti”. Stradone conferma il fatto che i giovani dispensavano “ con spudorata liberalità il loro fascino di adolescenti”.
Ateneo racconta come usavano dormire con due compagni nello stesso letto. Ma consideriamo il fatto che era una società guerriera, vincolata dalla virilità, i ragazzi vivevano quasi esclusivamente con membri dello stesso sesso dai quali imparavano a cavalcare, combattere, cacciare, fare bevute e consideravano i loro pari come l’unico ambiente. E se la componente omoerotica di fondo a delle amicizie virili diventasse così forte da trasformarsi in omosessualità non può stupire. Ricordiamoci che Achille amò Patroclo, Alessandro Magno Efestione, e tutto ciò provoca inevitabilmente il culto del corpo maschile, infatti Stradone ci dice di come i Celti “si sforzavano di non ingrassare o metter pancia, punivano ogni giovinetto la cui circonferenza in cintura superasse la media prescritta”.
Aggiunge Diodoro “si adornano di braccialetti di ogni specie e portano al collo una pesante collana di oro massiccio”.
Queste collane erano i famosi torques celtici cioè collane massicce, riccamente adornate, con un’apertura sul davanti larga un dito: questo fatto ci porta ad un’altra considerazione.....essi tenevano molto all’oro, ne ricavavano molto dai fiumi, e lo custodivano nei templi che erano protetti dai furti più per superstizione che per legge.
Erano ottimi commercianti e dei capitalisti e chi amava la solvibilità e voleva essere degno di credito.... Portava il suo patrimonio sulla pelle sotto forma di collane, anelli, bracciali, quindi i Torques non erano espressioni di vanità maschile ma segno di potenza “denaro ornamentale”.
“Nessun Celta ci ha lasciato una testimonianza delle propria fede o pratica religiosa, e le poesie non scritte dei Druidi sono morte insieme con loro. Eppure dai frammenti scorgiamo un Celta alla ricerca di Dio, che si stringe con forti legami all’invisibile, che desidera conquistare ciò che non si conosce per mezzo dei riti religiosi o delle arti magiche. Perché le cose dello spirito non hanno mai fatto appello invano all’anima celtica, e già molto tempo fa gli osservatori classici rimasero colpiti dalla religiosità dei Celti. Essi non dimenticavano né trasgredivano le leggi degli dei, e pensavano che nulla di buono accadesse agli uomini se non per loro volontà. La sottomissione dei Celti ai Druidi dimostra quanto volentieri essi accettassero l’autorità in campo religioso: tutte le regioni celtiche sono state caratterizzate dalla devozione religiosa, spesso passata alla superstizione, e dalla lealtà a ideali e cause perse. I Celti nacquero sognatori, come dimostra la loro squisita fede negli Elisi, e molto di quanto c’è di romantico e di spirituale in più di una letteratura europea è dovuto a loro.”
Da “La religione degli antichi Celti", 1911 di J.A. MacCulloch
LA CIVILTA’
Le loro capacità tecniche erano veramente notevoli: sapevano fabbricare le più sottili lamine di ferro e padroneggiavano la fusione del ferro dolce e siccome lo stagno era caro si inventarono una specie di ottone impiegando un minerale oggi noto come smithsonite. Sapevano stagnare e argentare gli oggetti di rame col mercurio ricavandolo per distillazione, conoscevano lo smalto e sapevano cuocere il vetro ornamentale bianco e colorato.
La loro arte si destreggiava anche nella tessitura di vestiti lavorati ai ferri con i più variegati colori, da loro amatissimi. La loro creatività si volse verso la fabbricazione delle armi, vere e proprie meraviglie. Le cotte di maglia dei principi Celti possono essere paragonate a quelle dell’alto medioevo, pugnali di una certa grandezza per colpire nella mischia, le spade celtiche delle battaglie nell’Italia settentrionale avevano la cuspide arrotondata, gli scudi erano capolavori di forgiatura, coprivano un uomo dal mento al ginocchio, avevano forma rettangolare o di doppio trapezio, forse troppo ingombranti rispetto agli “scutum” dei legionari romani più pratici e corti.
Crearono gli oppida (città con mura di fortificazione) quasi ovunque dove sorgevano i loro insediamenti: in Jugoslavia, in Austria, in Boemia, nella Germania ed in Francia. Di taluni si conoscono i nomi ed avevano tutti la caratteristica di finire con “- briga” (collina), “- dunum” (fortezza), “- magus”(pianura) o “-nemeton” (luogo sacro).
I loro carri a due e quattro ruote erano tra i veicoli tecnicamente più validi dell’epoca e gli oggetti di uso quotidiano ritrovati nell’immensa zona che va dai Carpazi all’Atlantico fa supporre che negli oppida ci fossero officine per il lavoro delle materie prime.
Anche l’estrazione del sale era un’altra attività praticata su vasta scala. Gli archeologi hanno trovato, presso Bad Nauheim, un’area larga due chilometri e lunga varie centinaia di metri dove sorgevano una serie di forni per la “cottura” del sale. Tutt’intorno erano accatastati recipienti di coccio che potevano contenere fino a duecentocinquanta litri, nei quali veniva conservata l’acqua salina. Quando si era ritirata a sufficienza, si versava il contenuto dei recipienti in orci più piccoli e li si infilava in forno. Ne usciva, una volta infranti gli orci, una sorta di focaccia di sale facile da trasportare.
Tutto ciò fa pensare ad una società in cui il commercio e gli affari fiorivano e quindi anche gli scambi di tutti i tipi. Nel V secolo a. C. questa società non era formata da orde barbariche ma da un consorzio civile con tendenze in qualche modo borghesi e capitalistiche per certi versi (per l’ import-export c’è bisogno di capitali e di tranquillità sulle strade).
Del resto i Celti avevano fama di essere affaristi appassionati ed aspiravano ad una ricchezza in forma maneggiabile, ma questa tendenza li portò a frammentarsi in piccole comunità economiche ed andò bene per tutto il periodo in cui stettero indisturbati oltre le Alpi ma quando Roma ebbe delle basi stabili e poté muoversi in modo organizzato verso quei territori, dove da sempre stavano i suoi nemici giurati, si vide che quel popolo bellicoso e forte non aveva altro da opporre ai romani se non il proprio coraggio individuale. Ci voleva organizzazione per combattere le armate dei Cesari ma i Celti, il cui animo anarcoide e nomade era sempre rimasto tale, non riuscirono nell’intento.
L’ultimo popolo che romani cercarono di assoggettare (l’Irlanda non fu mai considerata) fu quello dei Pitti (o caledoni) residenti nella parte settentrionale della Britannia, così, secondo Tacito, il principe caledone Calgaco arringa il suo popolo:” Costoro (i romani), i saccheggiatori di tutto quanto il mondo, adesso che sono a corto di terre perché hanno ormai devastato tutto, hanno messo l’occhio sul mare. Hanno un nemico ricco? Fanno gli avidi. Povero? Si contentano della gloria: perché è gente che né l’Oriente né l’Occidente sono bastati a saziare: unici tra tutti i popoli a concupire con pari brama la ricchezza dei ricchi e la povertà dei poveri. Rubare, ammazzare, saccheggiare, lo chiamano, falsamente, “governare”: e là dove creano il deserto, la chiamano “pace”.”
L’ animo libero ed errante rimase di queste genti, facendogli creare una cultura dove tutti loro averi dovevano essere asportabili e trasportabili, nonostante l’introduzione dell’agricoltura intensiva, il reale insediamento in posti e creazioni di città, che avrebbero dovuto renderli più stabili, il loro spirito rimase sempre lo stesso.
L’ARTE
L’epoca in cui la raffinatezza della loro arte raggiunse l’apice si può far risalire dal 450 a.C. fino intorno al 50 a.C.
I Celti ebbero cura di non copiare né l’arte orientale né quella greco-etrusca pur ispirandosi ad entrambe. Nell’Europa transalpina vi era l’antica tradizione di decorazioni astratte geometriche come meandri, simboli del sole, uccelli stilizzati specialmente uccelli acquatici.
Questa stilizzazione fa emergere un carattere estremamente fantasioso ed espressivo nella rappresentazione di animali, dei ed uomini, molto diverso dall’umanesimo e razionalismo artistico greco-romano.
Altra differenza si manifesta nelle grandezze: greci e romani crearono templi monumentali e statue gigantesche, i Celti preferivano formati piccoli o piccolissimi, grandi da una spanna al massimo di statura umana media. I fabbri in particolare erano artisti finissimi che coprivano piccole superfici con linee, figure di animali e facce con smorfie, cesellati fin nell’ultimo particolare a prova di microscopio. Se creavano un corteo di guerrieri sul bordo di un vaso si poteva riconoscere se una veste finiva sfrangiata o con una cucitura dritta. Nei lavori in filigrana risaltavano mirabili maschere, poco più grandi di un unghia, con tutti i particolari del viso immortalati in smorfie sarcastiche. Questo loro modo di riempire tutti i vuoti, questo lavorare all’interno della miniatura riempiendola di viticci aggrovigliati in mille forme è come lavorare all’interno di se stessi, uno scavarsi dentro, sembra quasi abbiano avuto una forma di angoscia di fronte alle superfici vuote (horror vacui) e ciò fa da contrasto all’immagine di questa stirpe bellicosa e guerriera, altra faccia della medaglia di un popolo.
Sulle pareti del catino di Gundestrup, particolarmente grande in quanto alto 42 cm., largo 69 cm. e dal peso di 9 kg., rinvenuto nel 1880 in una torbiera in Danimarca si è trovato, inciso in argento, l’intero pantheon celtico. Il dio Cernunno, signore degli inferi, dalle corna di cervo, siede nella posizione del Budda: gambe ripiegate in modo che il piede destro poggi sul polpaccio sinistro, al centro di uno zoo di animali fiabeschi, in una mano ha una collana, nell’altra un serpente con la testa di ariete. Tutto intorno fiori e una figura che cavalca un delfino nel cielo. Un’ altra immagine mostra Teutate, dio baffuto e barbuto con le chiome accuratamente arricciate sulla fronte – è scolpito ogni singolo capello – che regge con entrambe le mani uomini dalla veste lavorata a maglia. Sull’orlo interno della conca, dove sta Cernunno assiso in trono è una farragine di quadrupedi alati con teste di uccello e artigli d’aquila, di incroci fra cavallo e leone, di montoni con il collo da giraffa e di serpenti ghignanti, si vedono persino degli elefanti con pelle di rinoceronte. La scena più gentile mostra una ragazza con un berretto cornuto prostrata accanto al dio Trani, braccia e gambe ben tornite spuntano da una minigonna attillata. La più raccapricciante tratta un sacrificio: si vede un uomo messo a testa in giù in un recipiente, mentre dei guerrieri assistono all’evento, tutt’intorno suonatori di tromba con gli strumenti più grandi di loro che terminano con fauci spalancate di animali.
RITI E SACRIFICI
Quello che ha sempre turbato tutti gli storiografi dell’epoca (maggiormente greci) era il culto celtico del “collezionare” teste dei nemici. Dice Stradone che Poseidonio si sentì male quando vide i guerrieri celtici galoppare con appese al morso intere corone di teste mozze di nemici.
Questo modo di trattare i nemici ha sicuramente almeno due motivi uno che la decapitazione automaticamente accrescesse, per magia, la potenza del decapitatore ed in più che alla vittima, così mutilata, fosse impossibile tornare dall’aldilà.
Nell’antica Gallia racconta Diodoro “I suoi abitanti hanno un uso assolutamente sorprendente e incredibile quando devono decidere di questioni di grave momento. In tali casi consacrano un essere umano alla morte, gli infliggono un pugnale nel ventre al di sopra dello stomaco, e dalle contorsioni mortali della vittima e dallo sprizzare del suo sangue traggono gli auspici sugli eventi imminenti. In ciò hanno grande pratica sin da tempi remotissimi”.
Altro modo usato dai Celti per uccidere, così ci racconta Stradone, era: “Essi erigono un gigantesco colosso di legno e paglia dove chiudono insieme animali, bestie selvagge ed esseri umani, e poi danno fuoco a tutto”.
Viene però da pensare che tutto questo fosse frutto di una religiosità forse a noi incomprensibile perché legata alla terra ed al sangue ma non è né la prima né l’ultima delle civiltà che professa o professava sacrifici umani. Ci racconta, sempre Cesare, di come condannavano l’omicida non perché avesse ucciso ma perché non si poteva placare la rabbia degli dèi se non si offriva vita umana contro vita umana. Quindi non era una vendetta ma un modo di riequilibrare una disarmonia. Il generale Romano aggiunge “Quando siano sprovvisti di criminali comuni, sacrificano persone innocenti”. E questi erano i casi in cui si erigevano quei colossi di vimini intrecciato (che narra anche Stradone) in cui bruciavano uomini e animali.
Vorrei aprire una parentesi facendo una premessa: sinceramente mi sembrava molto riduttiva ed anche un po’ “rozza” la spiegazione che dava il Generale sul loro modo di vedere i sacrifici e volevo ampliare questo concetto, quando leggendo l’ultimo numero della mitica rivista Mizar ho trovato non solo la risposta ma anche un’ulteriore conferma del legame fra i popoli indiani ed i Celti. Nell’articolo sulle “origini dell’uomo” nell’intervista al Prof. Charles Malamoud ho trovato le mie risposte di cui riporto brevemente degli stralci “I Brahmana, i trattati del sacrificio, parlano dei riti e insegnano che questi sono destinati a riprodurre la costituzione del cosmo. Ora usando il termine “riprodurre”, non intendo dire “dare un’immagine” ma effettivamente “rifare”. Secondo la tradizione vedica infatti il mondo costantemente si rifà o, se si preferisce, la costruzione del mondo deve essere costantemente ripresa e l’origine riattualizzata. Poiché non c’è stata una genesi una volta per tutte, i riti permettono agli uomini di rimettere continuamente in movimento il sistema, il buon ordine cosmico. Ora il buon ordine cosmico è l’accordo armonioso dei diversi elementi, in quel tutto che costituisce il cosmo, e gli uomini, celebrando i riti, riattivano la forza che permette alle varie parti di accordarsi armoniosamente nel tutto… Ora l’uomo è di tutti i viventi il solo che sia al tempo stesso suscettibile di essere vittima sacrificale e sacrificatore. Movendo da questa definizione è possibile rendersi conto di come, al centro del pensiero sul rito, si collochi il pensiero sulla riflessività. Che cos’è l’uomo? Nei Veda l’uomo non è, come in Aristotele, l’animale razionale, o l’animale che parla, o l’animale politico, ma è piuttosto l’essere che ha questa doppia capacità di essere vittima e sacrificatore…” penso che quest’analisi, sicuramente più profonda, possa far capire meglio questo tipo di atteggiamento da parte del popolo celtico, perdonando Cesare che era uno stratega e non un filosofo, per di più romano, quindi estremamente pragmatico nel suo modo di vedere. Un’altra considerazione che voglio fare è che veramente Mizar è un fucina di idee, un cilindro magico dal quale estrarre magie, un gran calderone alchemico e voglio ringraziare tutti per il lavoro e gli sforzi di ognuno che ci permettono di fare “jump” di questo tipo arricchendo ed allargando la nostra mente.
Bryan McMahon, studioso di storia e di folklore ed insegnante, racconta questa storia per provare le sue teorie “ Tutte le volte che incontro un indiano, lo tiro da parte e gli accenno il primo verso di un antico canto popolare del mio paese. Quindi lo invito a proseguire la melodia a suo piacere. E, believe it or not, quasi ogni volta lui la canta fino alla fine, come se conoscesse la canzone. Non è stupefacente?”
Questa teoria non dovrebbe generare scalpore perché di elementi in comune ce ne sono veramente molti. Se osserviamo la divisione in caste della civiltà indiana possiamo vedere delle sorprendenti analogie con la struttura societaria dei Celti: i bramini, la classe più eminente, i guerrieri gli Kshatriyas, i commercianti i vaisyas ed operai e contadini i sudras. Fra i compiti dei bramini come per i Druidi c’era insegnare, studiare, poetare, giudicare.
Suggestivo è anche il fatto che presso gli arii se un padre non aveva figli maschi ma solo figlie femmine poteva obbligarne una a fargli un erede legittimo con un uomo da lui scelto. In India la ragazza di chiama “putrida” (colei che sostituisce il figlio) nell’antica Irlanda “ban chomarba” (l’erede muliebre).
Nella mitologia Irlandese vi è la leggenda di un sacrificio offerto per allontanare le disgrazie causate dal tradimento di un re con una donna. Il rito prescritto dai Druidi esigeva il sacrificio del figlio di una coppia senza peccato che veniva scoperta in circostanze molto particolari e di come al momento del sacrificio apparisse una dea che conduceva una mucca per sacrificarla al posto della vittima. Questa leggenda è paragonabile a una tradizione ariana in India, ma la cosa più importante è il concetto della sostituzione dell’animale con la vita umana.
Comunque se la necessità di propiziarsi gli dei attraverso i sacrifici umani fosse stata ,effettivamente, prevalente tra i popoli celtici, ci si potrebbe aspettare di vederla citata in qualche parte della letteratura celtica, giacché queste tradizioni vennero messe per iscritto dai Celti cristianizzati, essi avrebbero colto l’occasione per contrastare il passato pagano e rinnegare le tradizioni druidiche. O’ Curry nel suo “Usi e costumi degli antichi irlandesi” affermava “In nessun racconto, in nessuna leggenda dei Druidi irlandesi, che sia giunto fino ai nostri tempi compare menzione del fatto che essi abbiano compiuto sacrifici umani”.
Anche Nora Chadwick, per quanto sia incline a credere ai Romani, nel suo saggio The Celts ammette “Sono scarse le prove archeologiche che costituiscono testimonianza diretta dei sacrifici dei Celti….” e che anche sono “ apparentemente rappresentati sul vaso di Gundestrup”.
Jean Louis Brunaux nel suo The Celtic Gauls (I Celti in Gallia) afferma.” Le testimonianze archeologiche relative alla questione dei sacrifici umani sono state per molto tempo poche ed equivoche. Ci si è infatti riferiti alla presenza in alcune tombe di scheletri privi di cranio, o alla strana posizione di alcuni sepolti, con le mani dietro la schiena come se fossero legate, ma non è stata riscontrata alcuna prova ufficiale del compimento di sacrifici che possa essere contrapposta all’ipotesi del ricorso a eccezionali usanze funerarie.”
Viene da pensare che l’ipotesi secondo la quale tra i Celti fossero diffusi i sacrifici umani non fosse altro che una parte della propaganda romana, volta a sostenere il potere imperiale all’epoca della sua invasione delle terre celtiche e dell’annientamento dei Druidi.
C’è qualche riferimento a questa pratica ma riferito ad un’usanza molto antica, abbandonata entro la fine del primo millennio a.C. Tale usanza, tuttavia, è da riscontrare nella maggior parte delle antiche società europee. Questi riferimenti sono connessi all’antica superstizione secondo la quale aspergere il sangue di una vittima umana sulle fondamenta di un edificio, nel momento in cui ci si accinge ad erigerlo, procura allo stesso sicurezza e stabilità. Questa usanza è stata ritrovata nella cultura indù, tra i Greci, tra gli Slavi e gli Scandinavi.
A questa usanza fa certamente riferimento Nennio, storico gallese che intorno all’829 d.C. scrisse la Historia Brittonum, nella quale si narra che quando Vortigern decise di costruire Dinas Emyrs, consultò i suoi Druidi, i quali gli dissero che se voleva che l’edificio durasse a lungo, un bambino orfano di padre doveva essere sacrificato, ed il suo sangue sparso sulle fondamenta. Venne dunque trovato il bambino, il quale tuttavia diede prova di grande saggezza ed argomentò con i Druidi circa la moralità del sacrificio in maniera così convincente che venne liberato. Non per niente la leggenda è leggenda infatti si trattava di Merlino.
LE DONNE CELTICHE
“ I suoi capelli avevano il colore del giaggiolo d’estate o di puro oro polito. Candide come neve appena caduta erano le sue mani, le guance rosse come la digitale. Le ciglia nere come il dorso di un coleottero, i denti fili di perle, gli occhi azzurro-giacinto. Bianche come la schiuma, lunghe, slanciate, lisce e soffici erano le sue anche, morbide come la lana; calde e tenere le sue cosce: tonde, piccole e dure le ginocchia….”
Diodoro Siculo le definisce molto simili agli uomini, non solo per l’alta statura, ma anche per l’uguale coraggio. E dall’immagine che ne fa sembra fossero altrettanto libere quanto gli uomini. Pare che i Celti facessero affidamento sulle loro donne come sui loro compagni. Ammiano Marcellino (storico romano) così descrive il prototipo di moglie per i Celti: “essa ha, di regola, occhi azzurri e aspetto abbastanza terribile, specialmente quando gonfia i muscoli della nuca, digrigna i denti e, snuda le possenti braccia, e si mette anche a tirar pugni e calci che paiono altrettanti proiettili scagliati da una catapulta”. Forse è un po’ esagerato ma l’immagine che rende è decisamente vivida.
Bisogna tener presente il ruolo delle donne nella società celtica, opposto a quello delle altre culture europee. I diritti e la posizione delle donne celtiche superavano di molto quelli delle donne greche e romane.
La saghe raccontano di come molte donne fossero delle guerriere o regine guerriere. Per citarne qualcuna delle più famose: Medb del Connacht, che comandava personalmente il suo esercito e che personalmente trucidò l’eroe guerriero Cethren in combattimento. Scàthach, una donna con funzioni da campione, fu la principale maestra di Cùchulainn nelle arti della guerra. Sua sorella, Aoife, fu un’altra famosa guerriera e per quanto grande fosse l’eroe Cùchulainn, egli dovette ricorrere all’inganno per aver ragione del suo valore. Troviamo poi Cartimandua (“ il pony liscio”) capo dei Briganti britannici che nel periodo tra il 43-69 d.C. si fa notare come personaggio forte e determinato. Venutios, suo marito, tentò di prendere il suo posto. Ma lei divorziò e sposo il suo auriga.
Plutarco racconta la suggestiva storia di Chiomara, moglie di Ortagion, capo dei Tolistoboi, che unì i Celti Galati in un potente stato che si oppose a Roma. In occasione di una invasione romana Chiomara venne catturata ed un centurione la violentò. Poi egli scoprì che si trattava di una donna di alto rango e chiese il riscatto al marito. Ortagion preparò il riscatto, lo scambio doveva avvenire sulle rive di un fiume e mentre il centurione raccoglieva il suo oro Chiomara lo decapitò e alla maniera celtica portò la sua testa al marito. Esiste un racconto greco del loro incontro che raccoglie in maniera esplicita il significato della loro dignità e del loro modo di essere. Alla vista del trofeo lui le dice: “Donna, la buona fede è una bella cosa” lei in risposta sintetizza “Cosa migliore è che sia in vita un solo uomo che abbia avuto rapporti con me!”.
Ancora Plutarco narra un’altra storia di una certa Camma, sacerdotessa della dea Brigit (equivalente di Artemide), dove le uccidono il marito e poi l’assassino la vuole sposare, quindi lei il giorno del banchetto mette del veleno nella coppa del vino e per non farlo insospettire beve per prima assicurandosi così la morte di entrambi. Sempre Plutarco afferma che le donne prendevano parte all’assemblee del Celti e che spesso, con attenta diplomazia, erano in grado di appianare i contrasti.
Secondo fonti irlandesi, Macha Mong Ruadh (Macha dai capelli rossi) divenne capo dell’intera Irlanda.
Secondo il prof. Markle le donne erano “simboli di una forma mentis che il patriarcato non poteva sradicare dall’antico spirito celtico”.
E Tacito negli Annales aggiunge “ In Britannia non vi sono norme distintive che escludano le donne dal trono o dalla guida degli eserciti”. La donne godevano dei diritti di successione: una donna poteva ereditare una proprietà e conservava come propria qualsiasi proprietà portasse all’interno di un matrimonio. Se il matrimonio falliva, non soltanto ella si riprendeva le sue proprietà, ma anche quelle che il marito le aveva donato durante il matrimonio. Naturalmente il divorzio era consentito e una donna poteva divorziare dal marito così come un uomo dalla moglie. Se un uomo era “caduto dalla propria dignità”, ossia aveva commesso un crimine e dunque perduto i diritti civili oppure era bandito dalla società, la posizione della moglie non veniva comunque intaccata, una donna era responsabile per i propri debiti e non per quelli del marito.
Chiaramente questa libertà e dignità delle donne celtiche non fu capita dai Greci ed a maggior ragione dai Romani che avevano una società patriarcale, anzi furono fonte di malintesi su parecchi loro usi e costumi. Questa era però la situazione prima dell’avvento del Cristianesimo. Con il passare dall’idea di “dea madre” al concetto di “Dio padre” la situazione lentamente cambiò anche in questo ambito societario e l’operato di Roma diede l’ultimo calcio a ciò che una volta era stata l’uguaglianza tra uomo e donna nella società celtica. L’unicità della società dei Celti sta nel fatto che questo concetto ha resistito per un così lungo periodo di tempo.
Secondo Posidonio esisteva una leggenda che narrava che su un’isola dell’Oceano (Atlantico?) vivevano donne celte che praticavano il culto di Dionisio ed esercitando pratiche mistiche si sottoponevano ad arcani riti iniziatici: “nessun uomo può metter piede sull’isola. Le donne invece ogni tanto se ne vanno, per tornare dopo aver avuto rapporti sessuali con maschi. Uno dei loro usi consiste nell’abbattere e ricostruire, una volta l’anno e in un solo giorno, il tetto del loro tempio. Ogni donna porta la sua parte di materiale necessario; quella che lo lascia cadere, viene immediatamente fatta a pezzi dalle compagne. Al grido di ^ev-ah^, esse trascinano le parti del suo corpo attorno al tempio e non smettono finché non sbollisce il loro furore. E accade sempre che una delle donne faccia inciampare di proposito colei cui un tale destino è riservato”. Tale rito, con molta probabilità, simboleggiava la distruzione e il rinnovamento del mondo, per cui si compiva quel “pasto sacro”.
Ma non inorridiamo di fronte a questo, anche in Grecia durante le baccanali si dilaniavano esseri umani nella fase estatica ed il grido “ev-ah” (o “evohè”) era il grido di gioia delle compagnie di Dioniso, le ménadi. Come al solito vien da pensare coincidenza o collegamento? Ed il pensiero va anche verso il tetragramma divino Jahvè …
Un’altra delle storie di donne celtiche è la storia della principessa britanna Boudicca e la conosciamo grazie alla descrizione di Dione Cassio storico romano.” Boudicca era alta di statura, con uno sguardo che incuteva paura, una voce roca e una massa di capelli rosso-brillante che le scendeva sino alle ginocchia. Portava una collana d’oro dagli anelli intarsiati, una veste variegata e, sopra questa, un manto chiuso da una fibbia. Ora stringeva una lunga lancia, per incutere timore a quanti la osservavano”. Un’immagine veramente maestosa. Boudicca era la sacerdotessa della dea Andrasta, dea della vittoria e si ipotizza che non solo fosse una regina ma anche una Druida. Il marito, Prasutago, aveva stretto un patto di “collaborazione” con i romani ma alla sua morte, essendo senza figli maschi, il procuratore romano si rifiutò di passare i suoi diritti alla moglie ed alle sue due figlie secondo quello che era invece l’uso celtico. Diciamo che questa fu la goccia che fece traboccare il vaso perché i romani si comportavano, al di là delle apparenze, come dei conquistatori ed i Celti non erano una popolazione facilmente domabile, forse in questa situazione capirono che non era stato conveniente per loro essere arrendevoli e Boudicca divenne il simbolo della sorte che sarebbe toccata a tutti, la fine della loro civiltà. Lei scese in campo con la fierezza delle donne celtiche e gli uomini la seguirono, la rivolta si espanse rapidissima, varie tribù si unirono e formarono un unico esercito che distrusse Londra centro della rete stradale romana ed ebbero varie vittorie. Purtroppo non avendo un unico capo e non essendo abituati alla disciplina, come le legioni romane, potevano offrire solo il loro fanatico furore che alla lunga non resse contro l’organizzazione romana. Il procuratore romano fece giustiziare tutti i prigionieri sperando di spezzare il morale nemico con questo bagno di sangue. Boudicca vide la situazione così disperata che si diede la morte con il veleno. Lei lottava per la libertà. Questa fu la fine della resistenza della zona meridionale dell’isola. Ma il comportamento del procuratore non fu gradito neanche a Roma e venne congedato e sostituito da personaggio più mite. Forse i romani con sopportavano l’idea che a prendere le armi contro di loro fossero le donne o forse si accorsero che non era quella la strada per domare i fieri Celti, fatto sta che cambiarono tattica per romanizzare pacificamente la Britannia ed il risultato fu, come osserva Tacito:” grado a grado, gli abitanti dell’isola soccombettero alle allettanti seduzioni del vizio e presero a gusto ai colonnati, ai bagni pubblici e ai fastosi banchetti. Nella loro inesperienza, chiamavano raffinata cultura ciò che invece contribuiva solo alla loro sottomissione.”
I DRUIDI i sacerdoti dei Celti
Che detenessero la chiave di una realtà soprasensibile?
La tradizione vuole che Mona, isola sulla costa nord-occidentale del Galles, fosse ritenuta il centro della vita religiosa dei Druidi tanto che a conferma di ciò Tacito ci racconta come nel 61 d.C. quando lì sbarcarono le truppe di Svetonio Paolino si trovarono di fronte questa scena “i britanni, fittamente schierati, pronti alla battaglia. Donne che correvano qua e là tra le file, come Furie. Vestite a lutto, le chiome al vento, tenevano davanti a sé fiaccole ardenti. I Druidi, tutt’attorno, tenevano le mani rivolte al cielo, invocando gli dèi e lanciando tremende maledizioni. La novità di tale vista incusse tanto timore ai romani che, con le membra quasi paralizzate, essi offrirono, immobili, un facile bersaglio. Poi, però, stimolati dalle esortazioni del comandante e rincuorandosi essi stessi a vicenda e convincendosi che non bisognava lasciarsi impressionare da un mucchio di donne e di fanatici, levarono le insegne e passarono all’attacco con selvaggio furore…I britanni perirono tra le fiamme da loro stessi accese. L’isola venne conquistata e munita di una guarnigione che la tenesse sotto controllo. I boschi sacri, dedicati a culti crudeli e superstiziosi, furono rasi al suolo.” Tacito non dice che queste donne erano Druide e che il principio della tolleranza dei romani verso le altrui religioni non fu mai applicato nel caso dei Celti.
Ma cosa dire di queste figure mitiche? Diodoro Siculo li descrive come “filosofi” e non Druidi ma li definisce “ Esperti di cose divine, capaci di parlare, per così dire, la lingua dei celesti”. “Sono ritenuti i più probi degli uomini, perciò vengono scelti come giudici nelle contese sia private che pubbliche. Prima decidevano anche della guerra o della pace, e dei casi di omicidio”, inoltre appartenevano a chi credeva nella dottrina “dell’indistruttibilità dell’anima umana e dell’intero universo”. Anche se ammettevano che prima o poi il mondo sarebbe stato distrutto da acqua e fuoco.
I Druidi non partecipavano alla guerra (se volevano, ma la maggior parte erano potenti guerrieri), non pagavano tasse, erano esenti dal servizio militare come da ogni altro incarico ed in più non erano legati a nessun confine territoriale.
Era costume, per le classi più agiate, mandare i propri figli a studiare presso i Druidi, ma la loro casta non era chiusa anzi accettavano qualsiasi aspirante alunno dotato e volenteroso senza distinzione di classi sociali, l’unica condizione per diventare Druido era riuscire nel lungo apprendistato che, come abbiamo visto, a volte era addirittura ventennale. I Druidi erano considerati “uomini del sapere”, facevano da tramite tra l’umano ed il divino ed erano l’elemento che cementava tutte le tribù celtiche. Drudi e Rix (Re) collaboravano insieme, unendo il potere spirituale con quello temporale, per guidare il popolo ed armonizzavano le loro decisioni con le Leggi della Natura ed il volere delle divinità. Non esisteva antagonismo tra i due ruoli, l’esempio più classico di questi rapporti è quello tra Merlino ed Artù.
Sono descritti anche come guerrieri, infatti in battaglia scendevano in campo al fianco del loro clan e nella lotta utilizzavano tutte le loro capacità sia fisiche che magiche. Ogni Druido era un individuo estremamente completo e versatile: filosofo, medico, guerriero, consigliere, sacerdote e giudice, sceglie lui il ruolo secondo la situazione.
Una volta all’anno si radunavano nell’ “ombellico della Gallia” (a poca distanza da Orlèans) per discutere tra di loro in concilio, presieduti da uno di loro che doveva, evidentemente, godere di sommo prestigio. Cesare racconta di come fosse ambito questo ruolo e come fosse importante la scelta tanto che: “Alla morte di lui, il suo posto viene preso o da colui che tra loro eccelle in dignità, oppure, se ve ne sono parecchi di pari autorità, viene eletto dal suffragio dei Druidi; a volte si contendono il primato anche con le armi!”
In questi raduni si prendevano decisioni non più per clan o tribù ma per tutto il popolo che era visto come una “nazione”.
I drudi erano: università, chiesa e potere costituzionale ed in questo superiori anche ai loro re.
Racconta ancora Cesare “In quasi tutte le controversie sia pubbliche che private, sono i sacerdoti a decidere. Sono loro a stabilire pene o premi quando sia stato commesso un crimine o un assassinio, o quando sia sorta una contesa per l’eredità o i confini. E se un privato o un popolo non si piega alla loro decisione, li escludono dai sacrifici. Questo è presso di loro la pena più grave. Gli interdetti dai sacrifici vengono così annoverati tra gli empi e i criminali; tutti li scansano ed evitano di ascoltarne i discorsi, al fine di non riportare malanni dal contatto. Agli interdetti, inoltre, non viene più resa giustizia né dimostrato alcun onore”. Questa pratica, con varie sfumature, secondo le problematiche, si chiamava glam dicìn o geis ed era innanzitutto una proibizione comminata a una determinata persona, che influenzava il suo intero destino e non veniva imposta alla leggera. Veniva attribuito soltanto dai Druidi, ed era costituito da un incantesimo diretto contro la persona, il quale gli imponeva un obbligo. Si trattava di una maledizione che poteva essere pronunciata solo in caso di tradimento grave o di omicidio. Il timore di essa era molto forte perché le sue vittime venivano investite da un senso di vergogna, di malattia, di morte e la persona veniva respinta a tutti i livelli della società celtica.
Avevano in mano veramente un potere forte anche perché i Celti erano molto religiosi ed anche rispettosi del loro ruolo. Oggi può meravigliare questa forma di rispetto perché anche allora sarebbe stato sufficiente allontanarsi dalla propria tribù e subentrare in un’altra con una nuova “verginità”. Viene da chiedersi perché la vivessero così seriamente, forse perché questo popolo di guerrieri animosi aveva un concetto della morte e dell’aldilà molto simile a quello indiano dove “la morte non è che una pausa in un lunga vita” e quindi che lo spirito del defunto passasse in vari esseri viventi, uomini e animali, secondo lo stile di vita che aveva avuto. Questo spiegherebbe anche i sacrifici umani come un semplice passare, senza paura, da un tipo di esistenza ad un’ altra.
Un altro modo di esercitare l’autorità, di cui tutti i membri della società celtica potevano disporre, era il digiuno rituale chiamato troscard. Esso compare nel sistema legale Brehon irlandese come forma legale per riparare un torto. E’ un rituale molto antico e tanto somigliante all’usanza indù detta dharna. Questa norma non è stata reperita soltanto nelle Leggi di Manu, ma con l’appellativo di prayopavesana ( in attesa di morire), compare anche nelle antiche fonti vediche. Il troscad era un mezzo per obbligare al rispetto della giustizia e per ristabilire i diritti dell’individuo. Secondo la legge, la persona che voleva ottenere giustizia doveva comunicare i propri intenti alla persona contro la quale agiva e poi sedere davanti alla porta di quest’ultima astenendosi dall’assumere cibo fino a quando il trasgressore avesse accettato l’arbitrato della giustizia. Il troscad nei tempi antichi costituiva il mezzo effettivo con cui un individuo di una classe sociale inferiore poteva esigere giustizia da qualcuno di più elevata posizione sociale. Maniera incruenta per affermare i propri diritti. Oggi si chiama Sciopero della Fame!
Così racconta Plinio il Vecchio “ il sei di ogni mese i Celti celebravano una gran festa. I Druidi biancovestiti montavano per l’occasione sulle querce per recidere con un falcetto d’oro il vischio, che deponevano su candidi panni. Dopodiché sacrificavano due tori bianchi”.
Di questa suggestiva cerimonia l’unica cosa che viene da pensare è che fossero, tra le altre cose dei bravissimi erboristi, infatti il vischio, ad oggi si sa, contiene tre sostanze; colina, acetilcolina e viscotossina che hanno il poter di abbassare la pressione sanguigna, in più le foglie ridotte in poltiglia leniscono i dolori dell’ulcera.
Sempre secondo Plinio il Vecchio altre due piante che prediligevano erano samolus e selago: la prima da cogliere con la mano sinistra la seconda con la destra infilata nella manica sinistra di una veste bianca. Purtroppo non si è riusciti a capire a quale erbe si riferisse il vecchio Plinio che per completare ci parla dell’ anguinum che secondo lui era un uovo magico “molto stimato dai Druidi e creduto in grado di assicurare successo nei tribunali e una accoglienza favorevole da parte dei Principi” lui stesso ne aveva visto uno e così lo descrive “rotondo e grande come una piccola mela, l’involucro era cartilaginoso e butterato come i tentacoli di un polipo”. Inoltre egli aggiunge che l’uovo veniva formato con la bava di due serpenti sibilanti uniti. La bava che colava dalle loro bocche formava un umore viscido, con cui si faceva una piccola palla che veniva lanciata in aria: se essa veniva ripresa dal Druido, poteva essere utilizzata per neutralizzare le magie. Anche questo non si è riusciti a collegarlo a nulla, viene spontaneamente da pensare però che i Druidi conoscessero i principi attivi delle piante ed i veleni con i loro effetti.
I Druidi durante il loro lungo apprendistato passavano molto tempo nei boschi a contatto con la natura ed avevano un rapporto molto intenso con ciò che li circondava, ne vedevano tutta la sacralità e l’immensità, per questo avevano riti e magie per ogni situazione.
Le culture che, come quella celtica, hanno saputo superare una semplice visione empirica e pragmatica del mondo, hanno avuto la coscienza delle forze sotterranee e invisibili che permeano la natura e la materia ed hanno contemplato la possibilità di liberare tali energie e di utilizzarle per fini positivi. A questo si deve il loro concetto di sacralità dell’acqua che, oltre essere uno dei quattro elementi fondamentali della creazione, nella tradizione celtica assume valenze magiche e simboliche come simbolo lustrale e salvifico. L’acqua da sempre simbolo di fecondità doveva assumere per i Celti, amanti delle foreste ed adoratori della natura, un grado di sacralità molto alto. I Druidi erano considerati signori dell’acqua e del fuoco e numerosi santuari celtici sorgono presso sorgenti e corsi d’acqua. La fonte viene vista come luogo sacro per eccellenza, simbolo del ritorno all’integrità originaria del grembo materno. L’acqua rappresentava la componente di uno dei sacrifici più importanti per i Celti: quello per immersione che insieme all’impiccagione erano considerati incruenti.
Così come vediamo raffigurato nel famoso e già citato Calderone di Gundestrup il sacrificio di un uomo che si immerge fino ad affogare nello stesso “calderone di vita e di morte” dal quale poi riemergono rinati i guerrieri morti in battaglia. E mitizzando la leggenda non possiamo vederci i bagliori di quello che è poi diventato il mito del Santo Graal?
Dai vari storici sappiamo che i Druidi credevano nell’immortalità dell’anima, nell’esistenza di un mondo contiguo al nostro e nella possibilità per alcune anime di incarnarsi in un altro essere vivente per portare a temine il proprio compito. Credevano in uno Spirito Divino animatore del tutto che sospinge il mondo in un’unica armonia, quindi bisognava entrare a far parte di questa armonia della natura e questo era il Grande Compito del Druido. L’esistenza era vista come un Nodo Infinito di possibilità e variazioni….
E la storia continua……..
Crediti:
“Il segreto dei druidi” di Peter Berresford Ellis
“I Celti” di T.G.E. Powell
“I druidi” di Jean De Galibier
“Il mistero dei Celti” di Gerhard Herm