Prima di iniziare a parlare specificatamente dei misteri Eleusini, è necessario situare i culti di mistero entro una tipologia che renda conto delle differenze ed affinità rispetto ad altri rituali. Sarà un’analisi ridotta all’essenziale, che, pur essendo alquanto schematica e sommaria, ci aiuterà a comprendere meglio il tema trattato.
Una categoria molto generica fu proposta dallo studioso Van Gennep nel 1909: si tratta dei “riti di passaggio”, che sanciscono il transito da una condizione ad un’altra, e che possono riguardare tanto la collettività che il singolo. Si parla, ad esempio, di riti di passaggio collettivi nel caso di riti di rinnovamento periodico della fertilità e della vita, con ritmo stagionale e quindi ciclico. Questi culti stagionali si basano su un racconto “mitico”: la vicenda di una divinità, o meglio di una coppia di dèi, è la motivazione del rito e di ciò che esso celebra annualmente. Laddove il rito ripete annualmente ciò che è avvenuto una volta sola: è il caso della vicenda di Persefone, Attis, Adonis, Osiride, Dumuzi, tutti dèi caratterizzati da una capacità tornante e “pareri”, ovvero partners di una dea “stabile”: Demetra, Cibele, Afrodite, Iside, Inanna.
I riti di passaggio del singolo consacrano momenti essenziali nella vita, come la nascita, le nozze, i funerali, che sono anch’essi passaggi da uno stato ad un altro. Tra i riti individuali vi sono i rituali di iniziazione, che implicano un segreto, hanno un carattere esoterico, connotazione molto importante: il segreto iniziatico, condiviso da tutti i membri del gruppo, e solo da loro, costituisce il legame più specifico per contraddistinguerli dalla massa dei non iniziati. Di questi fa parte il rito della pubertà maschile, in cui alcuni giovani ricevono l’iniziazione dai più anziani, e tramite prove e rituali si consacra il loro passaggio al gruppo tribale, implicante la possibilità di esercitare tutte le funzioni cui tale appartenenza dà diritto. Senz’altro più conosciute sono le società iniziatiche, che implicano una serie di iniziazioni e quindi l’accesso a gradi sempre più elevati di conoscenza; le società segrete, evoluzione delle precedenti ma più elitarie ed impenetrabili; le società di mestiere, o corporazioni, ed anche, in certo qual modo, l’iniziazione sciamanica, benché essa non avvenga all’interno di un gruppo come tutte le altre. Questa classificazione in realtà appare assai schematica e riduttiva. Cos’erano i culti misterici?
Il termine mystéria così come il sostantivo myste (iniziato) sono accomunati dalla stessa radice my. Il verbo myêin significa “iniziare”. Pare che già nell’epoca micenea la parola mystéria fosse stata usata in relazione al rito di passaggio di un ufficiale. Ma esiste anche un’altra interpretazione del verbo myêin, come derivante forse da una radice indoeuropea, col significato di “chiudere la bocca”, che ben si adatta al carattere segreto dei misteri. La derivazione dal greco mystes ha condotti molti storici a considerare il mondo greco ed ellenistico come la culla dei culti misterici. A dire il vero, non ci si può esprimere con certezza su questo argomento, in quanto i culti misterici fiorirono presso molte culture diverse tra loro: basterà ricordare quelli di Iside ed Osiride in Egitto, quelli di Attis e Cibele in medioriente, o quelli di Mitra in Persia. Tutti poi si diffusero nel mondo greco-ellenestico e romano. Aldilà dell’evidente difficoltà nel rintracciare l’origine di tali riti, il termine mistico non può essere interpretato in senso cristiano come fuga dal molteplice e ricerca dell’Uno, come atteggiamento religioso in cui l’anima del fedele tende ad avvicinarsi a Dio. Per l’Ateniese significava interferenza tra due piani, quello umano e quello divino, con particolare riferimento a quelle divinità che, con le loro vicende di morte e ricomparsa, subivano un destino doloroso al pari di quello umano.
I culti di fecondità, dunque, sono culti mistici. I culti misterici sono qualcosa di più complesso: in essi troviamo sia l’elemento dell’iniziazione individuale, anche se nel contesto di un gruppo, sia la speranza di una beatitudine prima e dopo la morte.
Pur esistendo altri culti che celebravano la rinascita annuale, quello di Eleusi aveva un ruolo privilegiato nella Grecia classica, anche perché costituiva un elemento aggregante notevole. Infatti tutti vi erano ammessi, aldilà del ceto sociale, purché parlassero la lingua greca e non avessero le mani macchiate di sangue umano. I misteri Eleusini si svolgevano annualmente in onore di Demetra e Persefone nella città di Eleusi, a circa 22 km da Atene, dove una folla di adoratori si riversavano, aiutati anche da un periodo di tregua di 55 giorni stabilito proprio per facilitare la partecipazione al culto.
Nonostante la condanna dei padri della Chiesa, i Misteri, che si erano celebrati per 2000 anni, continuarono ancora per centinaia di anni dopo l’arrivo del cristianesimo. Il santuario di Eleusi fu chiuso nel 391 dall’imperatore Teodosio, la città distrutta nel 395 dai Visigoti.
Prima di entrare nei dettagli, sarà bene far riferimento alle fonti in nostro possesso, tenendo conto che anche i Padri della Chiesa, nelle loro denigrazioni, fecero trapelare notizie interessanti. E’ a queste fonti e agli scritti di autori pagani, più che reticenti, che dobbiamo inevitabilmente riferirci, mancando qualsiasi notizia certa circa la vera essenza dei misteri, cosa che, d’altro canto, sottolinea la loro fondamentale importanza proprio tacendone i segreti.
Come fonte principale si considera l’Inno a Demetra, che in circa 495 versi narra il rapimento di Persefone (la Kore o Fanciulla dei greci) da parte di Ade, la venuta di Demetra in lutto ad Eleusi, la liberazione parziale della figlia e l’istituzione dei riti eleusini. Il rapimento è descritto all’inizio: mentre Kore gioca con le Oceanine nella pianura Nisea, un meraviglioso fiore, un narciso, fatto nascere appositamente da Gaia, la Terra, la distrae. Nell’atto di raccoglierlo, la dea vede la terra aprirsi ed uscire il fratello di Zeus con il suo carro. Ade la rapisce, e a nulla valgono le grida della fanciulla che, inascoltata, viene condotta negli Inferi.
Demetra, sconsolata, la cerca invano, prendendo il lutto ed astenendosi dal nettare, dall’ambrosia e dal bagno (si distacca, quindi, dagli dèi olimpici). Nel suo cercare incontra gli unici due testimoni del rapimento, Ecate ed Helios, il quale le spiega ciò che è accaduto, esortandola a rassegnarsi al volere di Zeus, che ha dato a Kore un dio come sposo. Se non si rassegna come madre, Demetra dovrebbe quindi rassegnarsi in quanto dea. Ma, al contrario, ella solidarizza con gli uomini: si reca presso di loro, pur mascherando la sua vera identità sotto le spoglie di un’anziana nutrice. Giunta ad Eleusi, incontra le figlie di Celeo, il re locale, che la conducono alla reggia, al cospetto di Metaniera, loro madre e regina. Questa le offre il trono, ma Demetra si siede su un rozzo sedile, più angosciata che mai, rifiuta il vino rosso offertole, e chiede un’altra bevanda, il ciceone. Accetta però di occuparsi del piccolo figlio della regina, che alleva come fosse un dio, e tratta di notte con tutta una serie di rituali, quali l’unzione con l’ambrosia e l’immersione nel fuoco, al fine di renderlo immortale. La regina, scoperto ciò che succede, ne rimane terrorizzata. Dopo un’invettiva contro la sua stupidità che causerà al figlio la conoscenza della morte, Demetra si rivela e chiede che venga costruito un tempio in suo onore, dove insegnerà i suoi riti speciali. Poi scompare.
Ultimato il tempio, la dea vi prende dimora, rifiutandosi sia di riunirsi agli altri dèi dell’Olimpo che di far germogliare i semi: segue un anno di carestia e di sofferenza sia per gli uomini che per gli dèi, che non ricevono più sacrifici. Zeus interviene allora tramite la messaggera Iride, comandando a Demetra di riprendere le sue funzioni. Ma l’arma della dea è proprio questa: può minacciare l’ordine prestabilito, ed in questo modo spinge Zeus a cedere alla sua richiesta di riavere con sé la figlia. Zeus invia allora Hermes da Ade con l’ordine di liberare Kore ma, pur accettando, Ade ricorre ad uno stratagemma: fa mangiare a sua moglie un chicco di melograno, condannandola a passare un terzo di ogni anno con lui, in inverno, ed i due restanti terzi tra gli dèi, risalendo alla luce in primavera. Con questo compromesso, accettato da Demetra, la pianura rifiorisce.
Il poema termina con l’invocazione delle due dee ed una promessa di ricchezza ai loro devoti, sia in questa vita che in quella futura:
“…E Demetra a tutti mostrò i riti misterici a Trittolemo e a Polissero, e inoltre a Diocle, i riti santi, che non si possono trasgredire né apprendere né proferire: difatti una grande attonita atterrita reverenza per gli dèi impedisce la voce. Felice colui – tra gli uomini sulla terra – che ha visto queste cose: chi invece non è stato iniziato ai riti sacri chi non ha avuto questa sorte non avrà mai un uguale destino, da morto, nelle umide tenebre marcescenti di laggiù.”
La divinità oggetto del culto sembra in origine agraria. Tutta la civiltà cretese-egea venera la Potnia, ovvero signora, patrona, potente, ossia la terra, la Grande Madre, che dà la vita, e sperimenta la morte per poi tornare in vita; depositaria delle forze della natura e del ciclo vitale. E’ sempre raffigurata con una torcia alta nella sua mano, il fiore ancora chiuso, simbolo della virtù generante, e la melagrana matura, simbolo di fecondità e sessualità.
C’è un naturalismo di base, in cui le divinità sono ctonie, connesse con la terra, la vegetazione ed il suolo. Demetra deriva quindi dall’antica divinità delle trasformazioni, quella selvatica e misteriosa, che come la terra conosce una metamorfosi delle forme, la pausa ed il risveglio, il nascere, il morire ed il rinascere. Questa sua derivazione si evincerebbe anche dall’etimologia del nome, che alcuni studiosi fanno derivare da Da-Meter, dove Da sta per gea, ovvero terra. La stessa radice si ritrova nel nome di Poseidone, fatto derivare da Poteidan, ossia marito di Da. E Poseidone è marito di Demetra.
Non si sa con certezza come e quando il culto agrario divenne rito misterico, ma, poiché i culti eleusini venivano patrocinati dallo Stato, sicuramente dovevano rappresentare qualcosa di molto pericoloso, tanto da dover essere controllato. In realtà, si controllava solo l’aspetto essoterico del culto, ovvero quella parte di esso che si svolgeva pubblicamente: la processione che, essendo visibile da tutti, quasi sottintendeva il carattere esoterico, quello più occulto, che non era di dominio pubblico, ma appannaggio di pochi. Potremmo dire che il carattere volutamente luminoso della processione riproduceva il mito, mentre nel più totale segreto si svolgevano le iniziazioni.
Nei misteri c’erano diverse cariche, la più importante delle quali era quella del Sommo Sacerdote o Ierofante, l’unico che entrava nella stanza segreta, dove erano custoditi gli oggetti sacri, o Hiera, e che officiava le parti più solenni dei riti aiutato dalla Sacerdotessa. Colui che portava la fiaccola era il Dadouchos, che purificava chi ne aveva bisogno ed insieme alla dadouchosa provvedeva agli effetti luce durante la celebrazione. C’erano anche altri personaggi “minori”: dall’araldo ufficiale, o Hierokeryx, che richiamava la silenzio, al Prete che officiava i sacrifici animali, ed altre sacerdotesse, alcune delle quali prendevano parte al dramma inscenato, mentre altre è probabile che portassero gli oggetti sacri in processione.
La celebrazione prevedeva due fasi: i Piccoli ed i Grandi Misteri. I Piccoli Misteri si svolgevano nel mese dei fiori Anthesterion (febbraio-marzo) e celebravano la nascita della natura, il ritorno di Kore sulla terra. Si tenevano ad Agrai, sobborgo di Atene, sulle rive del fiume Illisso. Della durata di tre giorni, essi preparavano, purificando, ai Grandi Misteri, tramite meditazioni, preghiere, atti di penitenza, sacrifici, alla fine dei quali gli iniziandi, ossia i mystes, si coprivano il capo. Ciò ad indicare che, pur avendo intrapreso il cammino verso la suprema conoscenza, non ne avevano ancora scoperto il segreto. I Piccoli Misteri miravano allo sviluppo e al perfezionamento.
I Grandi Misteri avevano luogo nel mese di Boedromion (settembre-ottobre) e duravano 9 giorni, dal 14 al 23; ogni giorno gli iniziati seguivano una serie di azioni rituali. I primi giorni erano preparativi; i sacerdoti trasferivano gli oggetti sacri da Eleusi all’Eleusinion, recinto sopra l’agorà; qui, sotto la guida di un mistagogo, si riunivano i partecipanti, cui uno ierofante (“colui che mostra” o “dice” le cose sacre) dava delle istruzioni.
(Clemente di Alessandria distingue tre fasi nei misteri: le cose dette o “le gomena”, le istruzioni date dal mistagogo; le cose mostrate, o “deiknymena”, e le cose fatte, ossia “dromena”. Che alcuni ritengono fossero la rappresentazione del dramma delle due dee, mentre altri pensano che somigliassero ad una danza rituale, come quella labirintica di Delo, la quale avrebbe prodotto uno stato di trance e comunione estatica con le due dee).
Era questa la fase in cui quelli che erano impuri o non parlavano il greco venivano esclusi.
Poi aveva luogo la prima fase della cerimonia, che consisteva nella purificazione sulle rive del mare dalla parte del Falero, al grido di “iniziati, al mare”, dove ogni iniziando, con il suo personale tutore, recava un maialino lattante, anch’esso lavato nell’acqua, e poi sacrificato. Da questo momento era imposto il digiuno e la preparazione del Kykeon. I partecipanti osservavano un periodo di riposo e di meditazione per affrontare la seconda fase della cerimonia: la grande processione da Atene ad Eleusi, condotta da sacerdoti e sacerdotesse, che portavano sulla testa dei canestri. I mystes avevano un bastone disegnato, le donne avevano il compito di portare gli orci di kykeon mentre gli uomini portavano delle brocche. Si passava per la Via Sacra, con previa sosta sull’Acropoli, seguendo un carro con la statua di Iacco (identificata con Dionsio) ed altri oggetti sacri, il tutto sempre accompagnato da canti e danze.
Ogni tappa del percorso si rifaceva al mito. Lungo il tragitto, veniva attraversato il ponte sul fiume Kephysios, che divideva i territori di Atene da quelli di Eleusi, che rappresentava simbolicamente il passaggio dalla terra dei vivi a quella dei morti. Si dice che i mystes subissero alcuni scherzi osceni, forse in memoria di quelli che l’anziana serva Iambe fece a Demetra nel tentativo di farla sorridere. Giunti a destinazione, i sacerdoti eleusini legavano un filo di lana rosso intorno alla mano destra ed al piede sinistro dei mystes
Aveva quindi luogo l’iniziazione di primo grado, in cui si riproponeva il dramma di Demetra e Persefone, con il daduco ad impersonare Demetra, i suoi lamenti e la disperazione per la perdita della figlia; tutti gli iniziati correvano dietro di lui, s’intrecciavano ed agitavano le fiaccole intorno al Pozzo Sacro, lo stesso presso cui Demetra si era fermata. Il pozzo era situato all’angolo dei Grandi Propilei, tramite cui si giungeva ai Piccoli Propilei, che conducevano nel sacro recinto, dove solo gli iniziati, pena la morte, avevano accesso. La rappresentazione ed il digiuno terminavano con l’assunzione del Kykeon, quel ciceone che Demetra chiede nell’Inno. C’è grosso disaccordo circa la funzione e la composizione di tale bevanda. Si ritiene che fosse composta di acqua, farina e foglie di menta; Karl Kerényl ritiene si trattasse di birra, la bevanda dei morti dell’Egitto antico; altrove si parla di una mistura fatta di acqua, farina, formaggi, erbe, miele e vino. Stando a quanto narra l’Inno, il ciceone non avrebbe dovuto contenere sostanze alcoliche, dato che la dea rifiuta il vino, mentre risulta chiaro che la farina, e quindi il grano, era l’elemento essenziale da ricollegarsi alla vicenda di Kore.
Vi è poi l’ipotesi di Wasson circa la presenza di un fungo allucinogeno, appoggiata anche dal fatto che Kore viene rapita nell’atto di cogliere un narciso, “narkyssos”, fiore allucinogeno da cui deriva il termine narcotico. Anche Campbell parla dell’ergot, un fungo allucinogeno contenuto nei cereali. Queste sostanze, che se assunte in determinate dosi hanno proprietà lisergiche, avrebbero potuto provocare la “visione” alla base dei misteri. Questa ipotesi risulta plausibile, data l’enorme quantità di cerealiformi in tutta la zona, ed anche perché da questo fungo poteva essere estratto un alcaloide idrosolubile, con bassa tossicità, ma con elevata psicoattività. Inoltre, molte fonti parlano di sudorazione fredda, nausea, ansia, vertigini, tremori, tutti sintomi ascrivibili all’assunzione di tali sostanze. Robert Graves ipotizzò che il ciceone contenesse un fungo, tipico però solo delle zone nordiche, ricavando dalle iniziali dei componenti della bevanda (minthaion, udor, kukomeon, alphitois) il termine myka, cioè l’accusativo arcaico di fungo.
Circa la sua funzione, si è associata l’assunzione del ciceone con l’Eucarestia, indicando una comunione mistica con la divinità, data anche l’assenza di carne. Le voci contrarie negano il valore sacramentale di tale atto.
Entrati nel sacro recinto del Telestérion (sede delle iniziazioni), gli iniziati dovevano pronunciare una specie di parola d’ordine, che gli consentiva l’accesso al rituale. Ancora Clemente ci informa circa le parole pronunciate, che secondo lui erano le seguenti:
“Ho digiunato; ho bevuto il ciceone; ho preso dalla cesta, dopo aver maneggiato ho riposto nel canestro, e dal canestro nella cesta”. Questa frase così oscura sembra poter alludere ad un simbolismo sessuale, idea rafforzata dal termine “orgia” all’inizio dell’Inno. Bisogna sottolineare, però, che tale termine deriva da “ergon”, ossia “opera” e si riferisce piuttosto all’azione dei partecipanti e forse alla manipolazione degli oggetti sacri posti nella cesta, che li rendeva figli della divinità, compartecipanti alla sua gioia, come prima lo erano stati del suo dolore.
Vi era poi l’iniziazione di secondo grado, in cui i pochi eletti spegnevano le fiaccole e attendevano in sacro silenzio l’unione tra Demetra e Zeus, nelle persone dello ierofante e della ierodula, che si appartavano; il Sacerdote tornava allora con una spiga nella mano, che stava ad indicare il Figlio di quell’unione, la nascita di una nuova vita, ossia la rinascita dell’iniziato. Solo agli epoptai era concesso sapere ciò che i mystes invece ignoravano, rimanendo essi fuori dal tempio.
Nonostante l’insistenza dei Padri della Chiesa sull’aspetto orgiastico dei misteri, fu proprio Ippolito a ricordare che “gli Ateniesi, nell’iniziazione di Eleusi, mostrano a coloro che sono ammessi al grado supremo (epopteuosi) il grande e mirabile e perfettissimo mistero (mystēryon) visionario (epoptikon) di là: la spiga di grano mietuta in silenzio. Lo ierofante in persona…che si è reso impotente con la cicuta e si è staccato da ogni generazione,…di notte, ad Eleusi, in mezzo alla luce delle fiaccole, nel compiere il rituale dei grandi ed ineffabili misteri, grida ed urla proclamando: Brimò Signora ha generato il sacro fanciullo Brimòs…”. Questo figlio simbolico forse era Iacco, forse Pluto, nato da Demetra e Giasone, o forse Dioniso. Ogni interpretazione viene complicata proprio dall’evolversi dei culti di Eleusi nell’arco di circa 2000 anni. Ippolito ci fornisce comunque elementi importanti: la spiga è simbolo di vita e fecondità, e viene generata da un’unione sacra che è solo simbolica, nel senso che non prevede un contatto carnale. Quindi, escludendo il carattere sessuale ed orgiastico dei misteri, e certi di non sapere che cosa realmente l’iniziato “vedesse”, sappiamo che in lui le cose mostrate e viste operavano una reale trasformazione; che la visone, o epopteia, era un’esperienza che mai avrebbe scordato. L’idea che la visione sia l’apice dei misteri ci fa capire quanto essi non fossero un insegnamento, qualcosa che si poteva apprendere e relegata al senso dell’udito, ma fosse piuttosto la contemplazione, la contemplazione di qualcosa che era “visto”, qualcosa che, passando per gli occhi, accresceva e modificava la vista interiore. Lo stesso Pindaro parla dell’importanza del “vedere”, durante l’epopteia, le cose mostrate dallo Gerofante, il quale recitava la formula: “Piovi, porta frutto”. L’ironia dei Padri della Chiesa rimane legata a tali formule, che non erano però un segreto: era ciò che le accompagnava che rimase sempre tale.
Di certo l’apice del rituale si poneva dopo i dromena, quando il Sacerdote, rimasto solo nell’Anaktoron, la camera segreta del tempio, ne usciva con gli oggetti sacri consacrati dalle dee, e li mostrava agli iniziati. Cosa fossero tali oggetti non si sa. Oltre alla spiga di grano, che sembra comparire in tutte le fonti, si parla anche di pane benedetto, e di simboli sessuali stilizzati. E’ probabile che l’iniziato toccasse un simulacro del grembo materno, il simbolo e la rassicurazione della sua sopravvivenza eterna. E’ chiaro che il contatto con le cose sacre era fondamentale, e rappresentava, dopo la partecipazione alle vicende delle due dee, la comunione con il divino stesso. Finita la celebrazione, gli iniziati sarebbero tornati ad Atene, ma non in processione: era giunto il tempo di meditare.
Cosa gli iniziati vedessero è il mistero nei misteri, e molti studiosi sono inclini ad escludere una rappresentazione teatrale. Infatti il Telesterion aveva forma rettilinea, ed era edificato attorno ad una costruzione più piccola, l’Anaktoron, vicino cui c’era il trono dello Ierofante. All’interno vi era una gradinata dove gli iniziati prendevano posto: gradinata, anaktoron, trono e colonne avrebbero impedito un’eguale visione a tutti i presenti. Altri sostengono, invece, che l’assenza di camere sotterranee ed altro che possa far pensare ad una scenografia non esclude l’uso di scenari di legno, che venivano poi gettati. In questo caso, forse, s’inscenava un viaggio simbolico negli Inferi, accompagnato da tutti gli orrori che attendono i non iniziati, contrapposti poi ad immagini contrarie, beate, che solo gli iniziati avrebbero guadagnato. La visione era accompagnata da una luce abbagliante, ed è anche probabile che consistesse nell’apparizione di Persefone dal mondo dei morti, ad indicare una rottura totale di barriere tra due mondi apparentemente divisi, quello infero e quello terreno. L’iniziato ad Eleusi ricercava, tramite il ricorso ed il parallelismo con la natura, l’unità e la continuità anche tra due realtà: la vita e la morte: le piante, che sembrano morire in inverno, rinascono, invece, più vigorose di prima, durante la primavera.
Nei Misteri Eleusini non si impartivano insegnamenti o dottrine: ciò che legava ed accomunava era la visione, tramite cui si accedeva ad una conoscenza superiore attraverso la comprensione dei simboli, ed i partecipanti erano consci di dover affrontare un “rito di passaggio”, abbandonando il vecchio status. Avveniva una reale trasformazione, che, semplificando le cose, passava per tre tappe: la morte, rappresentata dalla notte, dal buio, dalla macerazione del seme nella terra durante l’inverno; la rinascita, rappresentata dalle fiaccole, la luce della conoscenza, e dalla spiga di grano derivata dal seme morto solo in apparenza; il raccolto, ovvero il vivere con una diversa consapevolezza il mondo materiale. Distaccatosi dalla sua forma mortale, l’iniziato intravedeva il principio che sempre rinasce.
Si dice che in Sicilia l’epoptai venisse portato in una radura spoglia. All’interno di un circolo formato dagli altri iniziati prendevano posto lui, lo ierofante e l’assistente. Le fiaccole si spegnevano all’improvviso, ed il silenzio era totale. A quel punto lo ierofante urlava: “Sia interrato come i morti, vivo! Vivo, venga interrato come i morti." La prova consisteva dunque nello choc di essere sepolto in un cunicolo come il seme sottoterra. Affrontata la morte rituale, al risveglio l’iniziato non si trovava nel cunicolo ma di fronte al sacerdote che gli mostrava un chicco di grano maturo. Avendo sperimentato il destino del seme, egli aveva coscienza di recare in sé un’esistenza non più individuale del corpo, ma superindividuale dell’anima.
Sembra che nel corso delle cerimonie venisse tracciata una croce a forma di Tau sulla fronte degli iniziati, che recavano ramoscelli di acacia come simbolo di immortalità.
Vicino ai misteri Eleusini sono i Thesmophoria (Thesmoi=leggi e phoria=portare), celebrati nel tardo mese di ottobre in Grecia solo dalle donne. Era previsto il sacrificio di un maiale, digiuni ed astinenze, purificazioni, discesa nell’oltretomba, e la manipolazione dei Miloj, pani di sesamo e miele a forma di organi genitali femminili.
Negli antichi culti misterici i mistagogho, i sacerdoti che presiedevano ai riti, si servivano di olio, acqua, miele, latte, fuoco per trasmettere le forze soprannaturali ai fedeli, dimostrando come il contatto con la divinità fosse ricercato anche in forma magica e simbolica. Tutto ciò che faceva parte del rituale aveva grande importanza, dai colori, agli indumenti, alla musica, nonché al tempo astronomico in cui si svolgevano.
I culti misterici, rispetto alle religioni ufficiali, non officiavano riti affinché gli dèi proteggessero lo Stato, ma si rivolgevano all’uomo, al singolo che, entrando in stretta familiarità con la divinità, si creava un’aspettativa soteriologia, la speranza di una vita anche dopo la morte. Tutti potevano prendere parte ai misteri. Fu forse per questo motivo che le classi tenute ai margini della società, le donne, gli schiavi, i meno abbienti, videro in tali culti la possibilità di trovare un’identità che spezzasse la logica dell’appartenenza sociale e divenisse invece esperienza personale.
E’ importante sottolineare che tali culti non possono essere definiti religioni misteriche: al contrario delle religioni ufficiali, infatti, non prevedevano alcuna gerarchia, né tantomeno l’impossibilità di partecipare ad altri riti senza essere tacciati di eretismo. I culti misterici, a ben vedere, liberavano già in vita l’uomo dai legami imposti e dallo Stato e dalla religione ufficiale, e seppero rispondere agli interrogativi tipicamente umani sull’immortalità, mantenendo sempre un carattere non elitario. Essi assicuravano la continuità dell’esistenza, la prosecuzione dell’essere, il divino rinascere: la continuità tra madre e figlia (il grano in erba e la spiga matura) indicavano che morte e rinascita sono due aspetti del medesimo processo che, in quanto universale ed eterno, assicurava la continuità dell’identità di ogni essere umano, senza più vincoli di spazio o di tempo.