Il museo delle navi di Nemi ed il Santuario di Diana Nemorense

di Barbara Bottacchiari

L’ennesima ricerca del sapere del nostro gruppo inizia il 25/10/2003 con una giornata soleggiata anche se un po’ fredda. Ci siamo dati appuntamento a S. Giovanni e verso le 10.00 siamo partiti per andare nella bella cittadina di Nemi.

Passando per quelle antiche zone, culla del popolo latino e romano, si respira un’aria diversa. Lì sembra ruotare tutto intorno alla semplicità della vita, all’eleganza delle belle piazzette curate e circondate da aiuole profumate, alle piccole botteghe e negozi ospitati nelle mura rocciose e alla calma delle famigliole che passeggiano con i loro figli per le viuzze dei paesi e si soffermano a guardare un panorama davvero mozzafiato! Ma non siamo solo “esploratori”, ma anche dei veri buongustai cosicché l’idea di un bel barbecue in collina ci allettava terribilmente.

Il sapore della montagna si pregusta appena entrati nella zona dei castelli. Verso le 11.00 abbiamo raggiunto la nostra mèta e abbiamo parcheggiato le auto sotto degli altissimi pini fuori del Museo delle navi di Nemi.

I favolosi scafi ospitati in questa struttura hanno una storia lunga che abbraccia secoli di storia…

Iniziamo dal 1446, quando il cardinale Prospero Colonna, grande mecenate dei recuperi antichi, incaricò Leon Battista Alberti di riportare alla luce i meravigliosi scafi delle navi costruite dall’imperatore Caligola che giacevano sul fondo del lago di Nemi, il più piccolo bacino vulcanico che si trova sui Colli Albani, ma ricchissimo di storia e mistero.

Alberti costruì una specie di enorme zattera dalla quale calò un grosso gancio che era stato progettato con lo scopo di uncinare e riportare in superficie la carena di una delle due imbarcazioni. Il risultato fu disastroso: la nave subì danni alla struttura di legno poiché il fragile materiale non resistette alla trazione e si spezzò restituendo al mondo solo un piccolo pezzo del passato!

I tentativi di recupero in seguito sono stati numerosi, una specie di crudele corsa, di egoistica brama di possesso delle navi portata avanti per secoli arrecando solo danni! Uno studio un po’ più “delicato”, e che fece fare un passo avanti sia all’esperienza, sia alla tecnologia fu quello dell’architetto Francesco De’ Marchi un secolo dopo il primo tentativo.

Egli perfezionò la prima rudimentale campana batoscopica che vedrà il suo completo e definitivo sviluppo solo con Hedmund Halley nel XVII secolo (rimando comunque una descrizione più esauriente all’articolo “Archeologia subacquea” su Mizar n.14). Riuscì quindi a “passeggiare” sul fondo del lago apportando una conoscenza diretta e non troppo dannosa. Ma il vero recupero verrà fatto solo nello scorso secolo e precisamente tra il 1928 e il 1932.

Bisogna considerare poi che a questa data non era ancora nata l’archeologia subacquea come materia ufficiale e i moderni mezzi per l’immersione, il più famoso dei quali è l’autorespiratore ad aria, non erano ancora stati inventati! Si usava a mala pena la tuta da palombaro inventata da Klinghert! Pertanto si può definire quest’opera dell’uomo come sensazionale e quanto mai essenziale nel viaggio verso lo sviluppo acquisito ai giorni nostri.

Purtroppo, in seguito, la 2° guerra mondiale porterà ad una battuta d’arresto a tutto ciò, ma non è stata che una breve pausa del nostro viaggio, un piccolo scoglio che comunque non ha lasciato inattive le menti più brillanti del campo: nel 1942 Emile Gagnan e Jacques Cousteau perfezionano l’autorespiratore ad aria e lo sperimen- tano sul famoso relitto di Madhia… ha inizio l’era dell’archeologia subacquea.

Ma torniamo ai nostri due sfortunati relitti…

Il recupero fu un’opera monumentale promossa dallo stesso Mussolini che diede l’ordine di costituire appositamente un organo assembleare che doveva seguire ogni fase, chiamato Commissione Nemorense.

Un gruppo di esperti nei vari settori dovevano mettere a punto un modo per riportare alla luce i relitti. La soluzione arrivò dallo stesso lago, o meglio dall’emissario che già in epoca etrusca era stato scavato in loco per prosciugare la zona intorno al lago che durante la stagione piovosa si allagava coprendo fra le altre cose anche il famoso antico santuario di Diana nemorense, mèta di numerosi pellegrinaggi nel passato in quanto luogo di culto della dea, una delle più importanti del pantheon venerato dalla Lega Latina.

Lo scavo dell’emissario rappresentò allora una soluzione e al tempo stesso un lavoro enorme per i mezzi dell’epoca: lungo quasi 2 km, metteva in comunicazione il lago di Nemi con la Valle di Ariccia e fu scavato con la piccozza nella durissima lava depositata dai vulcani attivi nella preistoria che ha creato una specie di anello intorno al lago.

Prima di fare affidamento però su questa soluzione necessitavano accurate prospezioni della galleria ormai in disuso da secoli.

Due volontari, Augusto Anzil e Mafaldo Corese, entrarono coraggiosamente nel cunicolo per accertarsi della fattibilità del progetto. Camminarono nell’emissario fra il fango e i detriti che ostruivano il passaggio. In alcune parti i crolli misero in pericolo i volontari ma l’avventura finì bene.

Scoprirono che la galleria era stata scavata contemporaneamente dai due lati e ciò si capì dall’andamento delle scalfitture sulle pareti derivanti dalle piccozze. La precisione di scavo poi fu tale che il dislivello dalle due direzioni era di soli quattro metri in senso planimetrico e di circa due in senso altimetrico. A metà strada circa i due esploratori trovarono una piccola lucerna dentro una nicchia, il primo segno del passaggio dell’uomo. Chissà quale duro lavoro dovettero affrontare gli antichi scavatori alla flebile luce di quella lanterna in tempi ormai così remoti?

Numerosi diaframmi erano stati sistemati dagli antichi per impedire l’ostruzione del cunicolo e dei condotti di aerazione facevano passare l’aria. Dopo mirati interventi edilizi l’emissario era di nuovo funzionante e le enormi pompe idrauliche furono messe in funzione per aspirare l’acqua dal lago, riversarla nella Valle di Ariccia e poi, attraverso la campagna, rigettarla in mare.

I congegni idraulici abbassarono il livello del lago di più di 21 metri, la profondità alla quale stavano i relitti. Affiorò per primo quello che si trovava a circa 20 metri e vedendone le buone condizioni e presumendo che il secondo scafo fosse identico al primo, si pensò di non portare alla luce anche il secondo. Dopo un lungo dibattito fra due opposti fronti, furono portati a riva entrambi e sistemati nel museo che appositamente era stato costruito per accoglierli.

La facciata però ancora non era stata costruita per permetterne l’alloggiamento, ma la pianta ricalcava precisamente le misure delle navi. Fu il primo museo ad essere stato ideato per un preciso scopo.

In chiaro stile fascista la struttura museale fu arricchita da un’innovazione: un camminatoio costruito a mezza altezza per permettere ai visitatori di guardare anche all’interno delle navi e si prevedeva di costruire anche una specie di balconata sul tetto del museo per dare alle persone tutto il gusto e il fascino di una panoramica sul lago vulcanico e sul bosco sacro a Diana.

Il museo però non ebbe vita felice: nel 1939 fu chiuso e alcuni reperti che erano stati sistemati lì, sempre appartenenti all’area, furono portati a Palazzo Massimo che ospita la collezione di antichità romane.

Alla vigilia dello scoppio della guerra numerosi sfollati trovarono rifugio nella possente costruzione fascista, al riparo, sotto le delicatissime navi. Così inizia il declino del museo e le imbarcazioni stesse iniziano a risentire dei numerosi fuochi che la gente appiccava sotto le sue strutture per mangiare e riscaldarsi.

Finché nella tremenda notte tra il 31 maggio e il 1 giugno del 1944 un devastante incendio distrusse completamente le navi.

Oggi si può osservare un solo pezzo originale: una sorta di finestra con dei battenti… tutto il resto fu ridotto in cenere. Le cause dell’incendio rimangono incerte. Finita la guerra, il museo ormai vuoto riapre solo nel 1959, ma un nuovo progetto si anima per mantenere comunque viva nella memoria del mondo le meravigliose navi: furono costruiti due modellini in scala 1:5 e sistemati al posto delle vere. I primi restauri del museo si compiranno solo nel 1963 e negli anni 80 vi si creò un’esposizione stabile di reperti venuti alla luce dalle tombe del circondario, datati a tutte le epoche partendo da quella preistorica fino all’età romana, compresi i reperti ritrovati nell’area sacra del Santuario Nemorense. Nasce così il museo del Territorio.

La costruzione si trova poi sopra all’antica via Virbia, che congiungeva Genzano al Santuario di Diana, che fu scavata, restaurata e arricchita delle statue di ex- voto trovate a Lavinio.bAttualmente si può ammirare anche una mostra sulle acconciature del passato, un’interessantissima analisi della crescente importanza della statuaria antica riflessa in una più accurata rappresentazione, ad esempio, sugli ex-voto delle acconciature, dei gioielli e una maggiore grandezza degli stessi.

Troviamo anche una zona dedicata ai reperti di Lavinio e riguardo ad essa una piccola ricostruzione dell’Heroon di Enea, una tomba datata al 675/650- 575 a.C. circa, che la tradizione attribuisce essere del mitico eroe fondatore di Roma, cantato da Virgilio nell’Eneide.

Dopo questa breve trattazione sul museo delle navi di Nemi vorrei illustrarvi cosa sono dunque questi relitti e perché sono così importanti….

Costruiti da Caligola nella prima metà del I sec. d.C., probabilmente utilizzate dall’eccentrico imperatore come residenza sull’acqua dove passare il suo tempo in ozio e per festeggiare la dea Diana. Lunghe circa 70 metri ciascuna,costituivano dei veri colossi, considerando poi il fatto che dovevano solcare le acque del piccolo lago di Nemi.

All’epoca della scoperta, non si sapeva ancora che appartenessero a Caligola, finché non furono riportate alla luce delle fistulae acquariae con sopra scritto il nome dell’imperatore. Infatti le imbarcazioni erano dotate di vere tubature idrauliche e rubinetti perfettamente funzionanti.

Non si comprende ancora bene perché si perse nel tempo la memoria di questi splendidi gioielli.

Gli esperti ritengono che lo stesso Caligola, condannato alla “Damnatio Memoriae”, portò con se nell’oblio anche tutte le opere della sua vita. Splendide sovrastrutture murarie impreziosite di marmi e mosaici abbellivano non solo le stanza che probabilmente appartenevano al sovrano, ma anche il resto. Rifiniture in piombo, protomi ferine incastonate nei pali di sporgenza sopra l’opera viva a protezione dalle forze maligne, colonne imponenti nel tempio allestito su una delle navi per onorare gli dei, enormi ancore che assicurano le colossali imbarcazioni, sistemi idraulici di rifornimento di acqua, e quanto più la mente può immaginare, costituivano l’arredo delle navi.

La costruzione principale era fatta di legno di pino, mentre il ponte fu costruito con la quercia. Tutta la carena era rivestita da un accurato sistema di calafataggio, costituito da un rivestimento di lana impregnata di resina che veniva applicato sopra il legno e sopra un rinforzo di sottilissime lamine di piombo assicurate alla carena da chiodini di rame. Anche la stiva era calafata con lana e resina e sopra l’ossatura vi era montato il pagliolo, cioè l’impiantito della stiva.

Ciò che rende unici gli esemplari di Nemi sono i bagli (travi che collegano i fianchi dello scafo e sostengono la coperta) e le chiglie laterali nonché l’unico sistema di timone trovato intatto nella storia dei recuperi. Andiamo con ordine: il peso enorme che sicuramente dovevano sopportare le imbarcazioni rendevano necessari degli elementi in più nella costruzione. I bagli e le chiglie laterali sono questi strumenti di rinforzo. Di timoni addirittura ne sono stati trovati quattro, due a poppa e due a prua che servivano per governare e ruotare la nave nel piccolo lago. Di tutto ciò purtroppo non ci rimane che il ricordo…

La nostra visita prosegue con il santuario dedicato principalmente a Diana Nemorense e a divinità minori. L’area si trova vicino al Museo delle navi quindi con cinque minuti di macchina e una piccola escursione arriviamo al primo terrazzamento dedicato alla dea.

Mi aspettavo di trovare un luogo quanto mai curato, invece l’area è abbandonata a se stessa, con una recinzione che mette più tristezza che senso di protezione del luogo e un gattino tutto solo e magrolino ci accoglie nella sua casa.

Nonostante punitive nubi solchino il cielo azzurro, la luce del sole che filtra si rispecchia nel lago che si intravede sullo sfondo. Dei succosi cachi pendono floridi dai rami di tre alberi, pronti per essere solo mangiati e uno spettacolare cespuglio di rose selvatiche colora l’area e ne rivendica la proprietà. Lì non c’è l’uomo che ha costruito ma il bosco che ha permesso all’uomo di accedere.

Sembrava quasi che dovessimo chiedere il permesso alle divinità per entrare perché nonostante l’evidente abbandono, lì la padrona era la dea dei boschi e della caccia, la dea trina che protegge le partorienti e i viandanti. La terra era satura delle secolari preghiere dei fedeli e un senso di mistica riverenza aleggiava nell’aria.

Eravamo un gruppo di studiosi, esploratori o più semplicemente di curiosi che volevano essere degni di accedere per studiare il sacro luogo.

Esso è costruito nella parte pianeggiante a nord del lago, proprio sotto all’odierno paese. Di questo tempio ne parlano molti autori antichi come Catone, Virgilio, Orazio, Ovidio, Plinio, per citare solo i più grandi e ciò sta a dimostrare quanto fosse conosciuto. La costruzione risale a prima del V sec a.C. ed è stato frequentato fino almeno al IV sec. d.C. ed è, come ho già detto, una zona dedicata principalmente a Diana, e “secondariamente”alla Ninfa Egeria e il dio Virbio, o Ippolito. Ma ancora più antico è il culto di Artemide Taurica per la quale si facevano sacrifici nei boschi (da qui la foresta come primo santuario); anche per questo culto avvenivano riti sanguinari che hanno avuto un evidente riflesso nel futuro sul culto di Diana (probabilmente le asce ritrovate ed esposte al museo delle navi, sono la testimonianza di questi antichi sacrifici).

Per quanto concerne la Ninfa Egeria essa è collegata con le acque, considerato il punto di passaggio fra il cielo e gli inferi per gli antichi con la quale ci si poteva rigenerare e considerata anche lei soccorritrice delle partorienti (impersonificando l’aspetto di dea protettrice del parto di Diana). Del dio Virbio il mito ci racconta che fu ucciso calpestato da dei cavalli per volere di Afrodite e resuscitato dalla ninfa Egeria grazie all’acqua della quale è patrona, quindi da Artemide-Diana.

Attraversando le recinzioni malridotte intorno all’area si percorre un piccolo viale costeggiato a destra da tredici nicchioni del I. sec. a.C., in opus incertum che tagliano la montagna e creano due livelli sorreggendo quello superiore; arrivano in fondo all’area e proseguono verso sinistra, di fronte a noi. Il tutto realizzato in selce, senza tufo.

Il santuario si articola vero sinistra ed oggi vi rimangono poche strutture murarie, ma sufficienti a testimoniare un forte culto e un grande interesse per l’area nel passato imperiale.

Alla fine del I sec. a.C. fu eseguito il primo restauro delle strutture arcaiche del quale però non rimane traccia perché coperto dal restauro d’età Adrianea. Durante quest’ultimo tutta la zona viene ricoperta da una struttura muraria creando degli ambienti, i cosiddetti “donaria”, dei quali oggi ci rimane un solo esempio, e s’innalzano delle colonne che oggi si riconoscono per la tipica colorazione rossa. Di tutta l’ampia zona sulla sinistra non ci rimane che una serie di strutture murarie che puntellano il terrazzamento superiore ed entro le quali si doveva innalzare una scala che portava al livello superiore dove probabilmente c’era il vero santuario. Purtroppo le aree circostanti sono di proprietà privata e nessuno scavo è stato compiuto sul livello superiore per accertare la presenza della supposta struttura templare che secondo alcuni studi poteva essere costituita dalla tipica architettura etrusca.

E’ comunque d’obbligo parlare del culto dedicato alla dea.

La massima figura sacerdotale era il Rex Nemorensis, e per tradizione era uno schiavo fuggiasco che uccideva il predecessore in duello non prima però di aver strappato un ramo di vischio da un albero di quercia ed averglielo consegnato. Questa cruenta successione ha una giustificazione nel fatto che il sacerdote nemorense, essendo la personificazione della natura boschiva e della fertilità, che era uno degli aspetti di Diana, doveva essere sempre nel pieno delle forze, non si doveva ammalare e non doveva nemmeno morire di vecchiaia. Solo uno schiavo in fuga poteva quindi accettare e desiderare un simile sacerdozio.

Solo un uomo già fuori della società, che non era titolare di alcun diritto, e anzi in reale pericolo di vita, poteva cercare di risolvere la sua esistenza ed ottenere asilo divenendo sacerdote di una dea in un tempio, che comportava implicitamente una morte certamente cruenta.

Egli portava al suo predecessore un rametto di vischio. Un ramo che non nasceva direttamente dalla terra, ma si doveva strappare da una pianta che si protendeva verso il cielo. Una cosa, quindi, che stava tra cielo e terra; e che era diversa da tutte le altre, non appartenendo né alla sfera terrena né a quella divina.

Il "rex nemorensis" presiedeva al continuo cambiamento della natura che si trasforma e rinnova continuamente col mutare delle stagioni.

Durante il “mandato” lo schiavo fuggito poteva vivere e pregare nel tempio con il cuore quasi tranquillo.

Ma questo fintanto che un altro uomo, disperato ed in fuga com’egli era stato, si presentasse a lui con un ramo di vischio… e la morte di uno dei due doveva essere un vero e proprio sacrificio, poiché il sangue del vinto doveva fecondare la terra…un rituale così feroce e stranissimo che aveva origini che si perdono nell’antichità più remota.

Questo sacerdozio di sangue rimase fino all’età imperiale inoltrata e Svetonio narra che Caligola, ritenendo addirittura che il sacerdote nemorense dell’epoca fosse in carica da troppo tempo, lo fece uccidere da un successore più forte.

Nel II secolo d.C. il duello per la conquista di quell’altare divenne simbolico, mentre il culto di Diana, che si andava affievolendo sempre più, durò poco oltre l’ufficializzazione del cristianesimo. Il suo tempio fu pian piano dimenticato.

Non più preghiere, non più processioni né canti di donne, e la terra e l’oblio lo ricoprirono completamente nel corso dei secoli, ma basta ascoltare attentamente cosa ci sussurra la terra su quel tempo lontano per farne rivivere la magnificenza…

Completata la visita siamo ritornati sui nostri passi abbiamo ridisceso la collina. Me ne sono andata però solo dopo aver dato un ultimo, personale saluto a quel bosco..e credo che ognuno di noi lì lo abbia dato a modo suo.

Le nuvole in cielo continuavano a vagare nell’infinto, l’acqua del lago a risplendere della luce riflessa e noi mizariani riprendevamo la strada alla scoperta dell’archeologia….

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