I misteri dell'isola di Samotracia

di Alessandra Economo

Samotracia è un’isola situata nell’angolo nord-orientale del Mar Egeo.

L’isola, per la maggior parte montuosa e dominata dal monte Saros, fin dall’antichità controllava tutte le rotte commerciali nell’Egeo settentrionale, grazie alla sua posizione strategica tale che, secondo quanto narrato da Omero, il dio Poseidone l’avrebbe scelta così da poter controllare, dal suo monte più alto, l’andamento della guerra di Troia.

Al livello archeologico l’isola è diventata famosa grazie al ritrovamento, effettuato nel 183 dal diplomatico francese Champoiseau, di circa 200 frammenti di una statua femminile. Si tratta della famosissima Nike (Vittoria) di Samotracia, che è oggi conservata al Museo del Louvre.

Una volta ricomposti i frammenti, ne risultò una splendida figura femminile, collocata sulla prora di una nave marmorea, con le ali spiegate, in una potente espressione di dinamismo, tanto che le sue vesti sembrano ruotare. (Presso gli Etruschi e i Romani la Vittoria alata appare talora ritratta in equilibrio sul globo terrestre).

La statua è datata al III° secolo a.C., e fu ritrovata all’interno di un santuario, dove si veneravano alcune misteriose divinità. Il culto misterico di Samotracia, la cui origine sembra essere antichissima e riconducibile alle popolazioni che abitavano l’isola prima della colonizzazione greca (la lingua del rito prevedeva, infatti, parole non greche), veniva officiato nel santuario che si trovava a 7 km dal porto di Kamariòtissa.

Il primo vero mistero è l’identità stessa degli dèi venerati, chiamati Grandi Dèi, o anche “Forti”, “Potenti”. Conosciuti a Tebe, e secondo gli studiosi originari dell’Anatolia, fu solo quando il loro culto approdò dall’isola di Lemno (dove i Grandi Dei erano considerati figli di Vulcano) a Samotracia, che esso si diffuse in tutta la Grecia. E l’epoca di maggior fioritura fu proprio quella ellenistica, che si prolungò in età romana, e fino a che l’avvento del cristianesimo non segnò il declino definitivo del santuario e del culto. Ma chi erano i Grandi Dèi? Sicuramente erano divinità legate sia alla fertilità che al mare, considerati protettori dei naviganti, e molti iniziati erano marinai. Erodoto, egli stesso, sembra, iniziato a tali misteri, identificò tali dèi con il nome di Cabiroi, ma tale epiteto risulta essere sconosciuto nell’isola. Egli sosteneva che gli ateniesi derivassero dal popolo dei Pelasgi, popolo italico, da cui poi importarono tutti i nomi delle divinità della religione misterica, compreso quello di Ermes, rappresentato sempre con il membro in erezione. Dice Erodoto nelle “Storie”: “Chi è iniziato ai Misteri dei Cabiri, che i Samotraci celebrano per averli appresi dai Pelasgi, sa quel che intendo dire. Infatti, quei Pelasgi, che erano venuti a convivere con gli ateniesi, andarono poi ad abitare a Samotracia; e da costoro i Samotraci appresero e conservano l’uso di quei Misteri. In un primo tempo i Pelasgi…compivano tutti i sacrifici invocando gli dèi senza dar loro né un nome personale né un appellativo, perché non conoscevano nulla del genere….Molto tempo dopo vennero a conoscenza dei nomi, venuti dall’Egitto, di tutti gli altri dèi….Da allora….usarono il nome degli dèi, e da costoro li accolsero più tardi i Greci:” Il passo citato non aiuta molto a chiarire le cose, ed anzi sottolinea quanto, nell’ambito dei culti misterici, risulti difficile risalire all’origine, caratterizzati come sono da un forte sincretismo. Secondo alcuni storici, in tale culto erano confluiti il dio tracio Sabazio ed otto divinità fenicie, i Kabirim, di cui uno principale, Eshmun, (Sabazio e quest’ultimo assimilabili a Dioniso) ed altri sette a formare il suo seguito.

Quando poi i Greci ed i Romani assimilarono i Grandi Dèi alla loro mitologia, essi vennero confusi con i Coricanti, i Curati, ed anche con i Dioscuri, anch’essi protettori dei naviganti. Oltre alla confusione circa l’identità di queste divinità, si aggiunge quella del loro numero: non si sa con certezza quanti fossero. Quattro sono i nomi conservati: Axieros, Axiokersos ed Axiokersa, e Kadmilos, o Kasmilos, un fanciullo che serviva i Grandi Dèi, ma che, come Attis, era al tempo stesso figlio e amante della Grande Madre. In tal modo Axieros risulta essere la Madre Terra fecondata da Kadmilos, il dio della fertilità.

Sembra che gli Etruschi usassero il nome Kadmilos per indicare Ermes, e che venerassero la dea Acaviser, nome simile alla divinità madre dei Cabri. Questi furono venerati anche dai Greci come Demetra, Persefone, Ade ed Ermes, e dai Romani, che li accostarono ai gemelli Dioscuri: secondo alcune fonti tra i Grandi Dèi c’erano due divinità gemelle. Inoltre, i Romani chiamavano Camilli gli aiutanti dei sacerdoti che officiavano alcuni riti istituiti da Romolo, mentre presso gli Etruschi si chiamavano Cadmiloi. In definitiva, non abbiamo alcuna certezza, tranne il timore che gli antichi provavano per la temibile ira di tali dèi.

Il santuario, di cui ancora oggi si possono ammirare le rovine, presentava una costruzione rettan- golare, l’Anaktoron, diviso all’interno in due parti da strutture mobili. Qui fu ritrovata un’iscrizione che intimava ai non iniziati di restare fuori. Accanto all’Anaktoron, c’era un edificio più piccolo, detto Sacrestia, e sulle sue pareti si trovarono delle liste che contenevano i nomi degli iniziati.

Vicinissima, una costruzione circolare di 20 m di diametro. Un’iscrizione dedicatoria la riconduce ad Arsinoe, figlia di Tolomeo I d’Egitto, e moglie del re Lisimaco, vissuta nel III secolo a.C.

Da lei quest’edificio prese il nome di Arsinoeion. Al vertice di un tetto conico c’era un’apertura, che doveva servire a far uscire il fumo derivante dai sacrifici. C’erano poi altri edifici minori. Nella zona sud-occidentale, laddove era stata trovata la statua, c’era una fontana enorme, racchiusa in un recinto a ferro di cavallo, presso cui furono ritrovati altri frammenti e parte del basamento: da sopra la nave, la Nike si rispecchiava nell’acqua. Altro edificio importante era lo Hieròn, situato vicino ad un teatro, ad un cortile, ad una sala votiva, e ad un altare monumentale, dove fu trovata un’altra iscrizione-dedica di Arrideo, fratellastro di Alessandro il Grande.

Gli stessi genitori di Alessandro Magno, Filippo II il Macedone ed Olimpia, si conobbero sull’isola durante i riti d’iniziazione.

Allo Hieròn si accedeva per mezzo di un colonnato. All’interno c’erano una navata centrale, nel cui pavimento si apriva un focolare sacrificale, e due navate laterali. I fedeli assistevano alle cerimonie seduti su banchi di marmo addossati alle pareti. In fondo, un altare di marmo con un foro, che riceveva i liquidi versati durante i sacrifici dal Sommo Sacerdote, nascosto alla vista dei partecipanti da cortine.

Non si sa nulla circa lo svolgimento e l’organizzazione dei Misteri. Di certo non esisteva discriminazione alcuna e tutti potevano prendervi parte, previa ammissione che, come in tutte le religioni misteriche, prevedeva una confessione, fatta ad un sacerdote preposto a tale funzione, detto coes. Seguiva un pasto sacro, cui tutti partecipavano. Tra gli altri riti di purificazione, che si svolgevano di notte, c’erano il tipico bagno ed un digiuno. Era prevista anche una sorta di catechesi sull’origine dell’umanità, ed altre rivelazioni verbali, previste nel 1° grado iniziatico, quello dei mystes. Per il grado più alto, quello degli epoptes, era prevista una certa levatura morale ed una purezza, senza le quali non si poteva accedere alla rivelazione iniziatica. Non sappiamo quale fosse tale rivelazione, ma data l’assimilazione con le divinità eleusine si può ritenere che implicasse anche una concezione della vita dopo la morte: è Diodoro Siculo a dirci che questi misteri rendevano migliori gli uomini.

Si ritiene possibile che venisse inscenata una rappresentazione, un dramma in cui il più giovane dei Cabri veniva ucciso per mano degli altri, per poi risorgere. I sacerdoti, detti saoi, durante la principale cerimonia, danzavano impugnando delle armi, accompagnati da flauti e timpani.

Questo ricorda le danze rumorose e sfrenate che Curati o Coricanti eseguivano per coprire i vagiti do Zeus- Giove e difenderlo così dal vorace padre Crono-Saturno. Rivivendo le vicende del dio, l’iniziato, che partecipando alle danze, e forse anche a rituali orgiastici, raggiungeva uno stato estatico e si identificava nel dio stesso, sperimentandone così tanto la morte quanto la rinascita. Era all’interno del tempio, al cui ingresso sembra vi fossero delle statue itifalliche ed alcuni oggetti di creta con forma triangolare, che simboleggiavano il sesso femminile, che il mistero veniva svelato. Il mistero riguardava, dunque, la vita e le sue origini, la morte e la rinascita a nuova vita. L’iniziato indossava una sciarpa di porpora, che gli fasciava il corpo, che stava ad indicare sia la protezione contro le disgrazie in genere sia quella contro le tempeste marine.

Inoltre, gli veniva consegnato un anello di metallo magnetizzato che, al dito, gli consentiva di essere sempre in contatto con il divino. Agli epoptes venivano impartiti insegnamenti sulla moralità e sulla giustizia, cioè sui comportamenti da tenere in questa vita per assicurarsi un futuro nell’aldilà.

Da quanto detto, appare evidente che relegare i Cabiri ad un semplice culto di tipo marinaro non è altro che una negazione del valore misterico che i rituali svolti in loro onore invece celano. Lo stesso carattere votivo di tale religione testimoniava una fede personale in un dio specifico, che in cambio concedeva la salvezza in vita e dopo la morte.