E' importante ricordare che la fortuna e fascino delle religioni misteriche si protrassero per tutta l’età ellenistica e anche durante la dominazione romana, grazie al fatto che esse rappresentavano un elemento di stabilità, in quanto “religioni” di salvezza personale. Anzi, la nostra conoscenza dei culti provenienti dal Medio Oriente, si basa essenzialmente su fonti ellenistiche e romane. Tali culti, già entrati in sincretismo con il mondo greco, e quindi probabilmente già modificati, si diffusero nella parte occidentale dell’impero romano fin dall’inizio del periodo imperiale. Il culto di Cibele giunse a Roma nel 204 a.C. in modo assai curioso. Giunti al termine della battaglia con Annibale i Romani si affidarono ad una profezia dei Libri Sibillini, che vaticinavano la cacciata dell’invasore cartaginese quando la dea dell’Oriente sarebbe stata portata nella città. Quando gli ambasciatori romani giunsero a Pessinunte venne loro affidata la pietra nera che incarnava Cibele, e questa, previo accoglimento ad Ostia, fu poi collocata sul Palatino.
E’ importante il particolare della pietra, che secondo alcuni studiosi rivelerebbe una provenienza dal cielo, mentre secondo altri pareri sarebbe una pietra lavica, proveniente quindi dalle viscere della Madre Terra, che Cibele incarna, rivelando così le origini arcaiche del suo culto.
Parliamo quindi di una religione misterica introdotta a seguito di una delibera statale. L’aspetto cruento dei riti ed il carattere orgiastico del culto non si accordavano affatto con la morale romana, tanto che il Senato regolamentò le cerimonie rituali, che all’inizio erano di ordine privato.
I sacrifici si svolgevano solo nel tempio sul Palatino, ma ai Romani era vietato partecipare al rituale e, soprattutto, rivestire cariche quali sacerdote, sacerdotessa o assistenti vari. L’unica cosa concessa era la processione annuale ed il bagno rituale, sempre sotto la supervisione di un pretore romano. Quando divenne religione ufficiale di Roma (secondo alcune fonti per contrapporla al crescente interesse per il culto di Iside), i sacerdoti di Cibele ebbero nomi romani, e non più stranieri.
Fu sotto l’imperatore Claudio che tutte le proibizioni vennero meno, perché il clero della dea aveva eliminato dal rituale gli aspetti cruenti, e Cibele fu venerata fino alla vittoria del cristianesimo.
Cibele è una divinità proveniente dall’Asia Minore, abitata sia dai Lidi che dai Frigi, dove la Grande Madre è la personificazione del principio generatore e fecondatore, inteso come forza femminile. In Frigia, l’attuale Turchia, la dea era venerata in particolare nella città di Pessinunte. I suoi santuari erano ricavati proprio nella roccia, su pareti scoscese, sulle montagne, in gallerie o tunnel scavati nella roccia, con gradinate che scendevano senza fine. Ma l’origine del suo culto si perde nella notte dei tempi, ed è probabile che nasca dalla fusione con altre culture: ad esempio, quella ittita, il cui impero occupava gran parte dell’Asia Minore, che venerava una dea dal nome Khuba, o Kubaba. Infatti, ai piedi di Cibele troviamo un leone, ed anche nel mediterraneo orientale vi sono raffigurazioni di una donna completamente nuda in equilibrio sulla schiena dell’animale, con la bocca spalancata.
E’ stato suggerito che le fauci aperte simboleggino l’organo genitale femminile, cosa che potrebbe ricollegarsi al significato stesso del nome Cibele, che vuol dire grotta.
Più tardi, Cibele sarà rappresentata su un trono tra due leoni, con un ornamento cilindrico sul capo, coperta da un velo, e spesso con una melagrana nella mano (ciò a seguito della fusione con la Demetra greca), a dimostrazione di un perpetuarsi di un culto arcaico che la vedeva raffigurata in Anatolia, già nel 6.000 a.C., tra due leonesse. Cibele fu venerata a Roma con il nome di Magna Mater Daeum Idae, ed in Grecia col nome di Rea. La forma ellenizzata del suo culto si fuse in parte con quello di Dioniso, tanto che ritroviamo il timpano tipico di Cibele nei culti bacchici. Protettrice della vegetazione, dell’agricoltura, dea della terra feconda, aveva molti nomi a seconda del luogo in cui veniva adorata: Pessinunzia nella città di Pessinunte, Idea o Dindimea nei monti Ida e Dindime, ed ancora Berecinzia dalla città di Berecinto, tutti siti della Frigia.
Attis e Cibele appartengono anch’essi a quella schiera di coppie di dèi divisi dalla morte e riuniti dal ritorno del dio “in vicenda”. Esistono tre versioni del mito di Attis, due riferite da Pausania (lo stesso Giuliano l’Apostata riporta una di queste in un suo poema filosofico), l’altra dal cristiano Arnobio. Egli dichiarò che la sua fonte primaria era stato un sacerdote egiziano di nome Timoteo Eumolpide, che a sua volta avrebbe attinto da antichi libri contenenti i grandi misteri dell’antichità.
Nella versione riportata sia da Giuliano l’Apostata che da Pausania, Attis era un orfano abbandonato dalla madre sulla riva di un fiume e sopravvisse grazie alle cure di un montone ed al latte di una capra. Divenne un bellissimo giovane, di cui si innamorò Cibele, la quale gli fece giurare che non avrebbe amato mai nessun’altra donna. Attis, invece, intrecciò una relazione amorosa con una ninfa ed ebbe con lei rapporti sessuali in una caverna. In questo modo tradì la promessa fatta a Cibele che, accecata dalla gelosia, abbattè l’albero cui la vita della ninfa era legata. Questo fece impazzire Attis, che si evirò.
Da notare che in questa versione, peraltro più recente, Attis non muore, ma verrà in seguito accolto di nuovo al servizio della dea. L’altra versione di Pausania narra che Attis era un bellissimo ragazzo che, però, fin dalla nascita era incapace di avere una vita sessuale e per questo iniziò a prestare i suoi servizi nei misteri della Grande Madre.
Divenne così famoso che Zeus non potè tollerare che il suo stesso nome fosse adombrato da quello di Attis. Così lo punì, mandando un enorme cinghiale ad ucciderlo. Si dice che dopo la sua morte Attis venne tramutato in pino.Questa è la versione lidia, che collega strettamente il dio Attis al dio Adonis, anch’egli ucciso da un cinghiale. Sembra inoltre che qui ci si riferisca ad un rito antico in cui un cinghiale veniva sacrificato nella sua veste di spirito della vegetazione. Prima animale sacro, fu poi vietato nell’alimentazione dei fedeli del culto di Attis.
L’ultima versione, quella dell’autore cristiano, è particolarmente affascinante. Si narra che Zeus scorse sua madre che dormiva sulle montagne. Il suo irrefrenabile desiderio incestuoso, quello di possederla, fallì ed il suo seme divino cadde su una roccia, che generò così l’androgino Agdistis (ciò denota un contatto con la cultura hurrito-ittita: un mito narra, infatti, che Khumarbi, Padre degli dei, ingravidò con il suo seme una roccia).Questi era estremamente forte e possente, e le sue attenzioni sessuali erano rivolte indistintamente a uomini e donne. La depravazione dell’androgino spaventava gli dei, ed essi decisero di porre fine a tale situazione, evirandolo.
In un’altra versione dello stesso racconto è Dioniso ad agire. Questi fece ubriacare Agdistis, il quale crollò addormentato sotto i fumi dell’alcool. Dioniso ne approfittò per castrarlo, legandogli i genitali ai rami di un albero, e facendolo poi svegliare di soprassalto: Agdisits perse così la sua natura maschile, tramutandosi in Cibele.
Secondo una variante le gocce del sangue che sgorgava dalle sue ferite caddero sul terreno, fecondandolo, e nacque un mandorlo. La figlia del fiume Sangarios mangiò uno dei suoi frutti e rimase incinta, partorendo Attis, ossia l’essere che incarnava il sesso maschile di Agdistis. Questi si innamorò di Attis, il quale però doveva sposare la figlia del re. Durante la cerimonia, Agdistis-Cibele (a seconda delle versioni), infuriata, entrò nel palazzo seminando orrore e follia tra i presenti: il re si evirò, sua figlia si tagliò i seni, e lo stesso Attis fuggì nella foresta e si evirò sotto un pino, morendo così dissanguato.
Cibele-Agdistis, pentita e disperata per la morte del figlio-amante, pregò Zeus di farlo resuscitare e renderlo per sempre giovane ed immortale, ma Zeus concesse solo l’incorruttibilità del suo corpo, la cui vita continuerà con la crescita dei capelli e con il movimento del dito mignolo. Secondo un’altra versione, dal sangue di Attis e della figlia del re nacquero delle viole.
La morte per evirazione del dio Attis era narrata a Pessinunte, dove i sacerdoti di Cibele si castravano al momento di entrare al servizio della dea per emulare l’automutilazione del dio. Il sacerdozio metroaco (da Meter) aveva una rigida gerarchia. I sacerdoti della dea Cibele erano detti Galli, il loro sommo sacerdote era l’Arcigallo. I Galli si distinguevano anche per l’aspetto fisico: dopo la consacrazione indossavano una lunga veste con una cintura che la stringeva in vita ed il berretto frigio. Durante i rituali, invece, portavano un copricapo con delle bande che ricadevano sulle spalle. Al collo avevano l’immagine di Attis o Cibele, ed era loro vietato tagliarsi i capelli. Essi dovevano prendersi cura della dea e venerarla; il loro sostentamento derivava dal compenso ricevuto per interpretare i sogni o le visioni dei fedeli, dalle purificazioni eseguite su oggetti o individui.
Tali le pratiche che si svolgevano nel santuario, unite a cerimonie periodiche che li vedevano dinanzi al tempio a pregare la loro dea, dapprima con un tono pacato e ritmico, al suono di timpani e tamburi. Poi, iniziavano la danza sacra, che diventava sempre più frenetica, e terminava in una serie di giri vorticosi su sé stessi. In questo stato estatico, essi pronunciavano delle profezie.
Inoltre, vi erano i “mendicanti della Grande Madre” (Metragyrtai) che svolgevano tali compiti girando per le città, in cambio di oboli.
Anche le donne facevano parte del clero, ma con funzioni minori, e non appartenevano alle classi più elevate della società romana. La Prima sacerdotessa non poteva presiedere il culto, né fare profezie. Le sacerdotesse preparavano gli iniziati, ed erano dette Melissae, ovvero api, in quanto nutrivano gli adepti con il “miele” della dottrina. Vi erano poi i laici, tra cui dendrofori e cannofori, che si occupavano invece degli aspetti organizzativi.
E’ molto importante sottolineare che, nonostante il complesso mitico-rituale rientrasse nel ciclo arcaico dei culti della vegetazione, man mano le cose cambiarono, si aggiunsero nuovi significati religiosi, che ne fecero una religione misterica, che prevedeva cioè la salvezza futura dell’iniziato.
Così, nel periodo romano, Attis, da protagonista infelice di una storia d’amore che lo vede figlio, amante e vittima di Cibele, viene invece rappresentato con la corona di raggi solari, la luna, ed altri attributi cosmici.
I suoi epiteti erano l’ “Onnipotente” ed il “Signore dell’Universo”. Questa funzione soteriologia, però, non sembra essere sconosciuta in Frigia, dove già esistevano riti di iniziazione, in cui i Mysti erano chiamati Chibeloi.
Le feste dedicate alle due divinità ci sono note così come venivano celebrate a Roma. Nel calendario delle festività romane, le Megalesie, feste in onore di Cibele, si celebravano all’equinozio di primavera, e duravano circa 10 giorni.
Il primo giorno, chiamato “l’ingresso della canna”, i cannofori portavano nel tempio delle canne tagliate lungo il fiume Almone, forse a ricordo del fatto che Cibele aveva trovato Attis lungo le rive del fiume. Poi i dendrofori si recavano nella foresta, abbattevano un pino, compivano dei riti sacrificali sulle radici, lo privavano dei rami, fasciavano il tronco di bende (il pino è il cadavere di Attis), univano gli oggetti-simbolo del culto (strumenti musicali e violette) e lo portavano al tempio. Con sopra un effige del dio, l’albero veniva disteso a terra ed esposto come fosse la salma del dio. Nel “Giorno del Sangue”, l’albero sacro era sepolto, ossia calato nei sotterranei del tempio (allusione al passaggio attraverso la morte da parte del mystes) cosa che provocava grande dolore. Tanto i galli quanto i neofiti danzavano selvaggiamente, accompagnati dal suono di flauti, cimbali e tamburini, e, nel momento estatico, si flagellavano a sangue, si procuravano dei tagli sulle braccia con dei coltelli, facendo colare il loro sangue (simbolo del dolore ma anche della vita, che indica la rinascita ottenuta dal fedele che partecipava al sacrificio divino) sull’altare e sul sacro albero.
Alcuni arrivavano ad evirarsi, offrendo poi i genitali alla dea; questi venivano sepolti nelle stanze ipogee, e venivano considerati sacri: avevano cioè il potere di richiamare in vita il dio, e quindi la vegetazione. (Attis nasce da un frutto, nato dai genitali dell’androgino). L’automutilazione garantiva la castità assoluta, e quindi l’essersi totalmente donati alla divinità. Era una giornata di lutto, durante la quale veniva imposto il digiuno, ovvero era vietato mangiare il pane, poiché Attis era definito “la spiga mietuta ancor verde”. Leggendo allegoricamente il mito, in termini di vegetazione, la castrazione rappresentava la mietitura, le ferite inferte i solchi prodotti dall’aratro. Era vietato anche il consumo di maiale, cinghiale, vino e pesce.
Durante la notte, mentre si intonavano lamentazioni e si svolgeva la veglia funebre intorno alla statua del dio, improvvisamente entrava il sacerdote con un lume, la cui luce illuminava il sepolcro da cui il dio era risorto; ed in questo i fedeli vedevano una promessa di resurrezione per loro. Il sacerdote recitava allora tale formula: “Confidate, o mystai del dio che si è salvato, poiché anche a voi ne deriverà la salvezza dalle vostre pene”. Il giorno dell’equinozio era, quindi, il “giorno della gioia”, perché il dio era risorto: un giorno di festeggiamenti che prevedeva un pasto sacro, a base di vino e pane, e poi si poteva fare e dire ciò che si voleva, all’insegna della sfrenatezza totale, che prevedeva anche delle maschere. I simulacri di Attis e Cibele venivano portati in trionfo per la città, e durante la processione molte rose venivano lanciate dai fedeli. Il corteo prevedeva non solo danze e musica, ma anche la presenza delle armi, impugnate dai Cureti frigi, così come racconta Lucrezio, che facevano un gran movimento, e agitavano le teste facendo un gran baccano (Lucrezio li assimila ai Cureti dell’Ida, che coprirono i vagiti di Giove).
La musica è quindi elemento fondamentale nel culto di Cibele, che fu considerata l’inventrice degli strumenti musicali tipici dei misteri, ossia due tipi di flauto (uno dal suono acuto usato nelle danze, ed uno dal suono più grave usato nelle preghiere), il timpano (tipico attributo di Cibele), ed il cimbalo (tipico di Attis). La musica con il suo ritmo ossessivo conduceva i fedeli a quel “furore” tipico della possessione. Gli eunuchi diventavano sacerdoti di Cibele. La stanchezza accumulata veniva alleviata da un giorno di riposo totale. Il giorno successivo, la cerimonia si concludeva con una processione in cui la statua di Cibele, con il “meteorite” incastonato sulla fronte, trainata da una carro di buoi, veniva portata fino ai canneti dell’Almone, dove veniva lavata, insieme al carro ed agli oggetti sacri.
Poi, si rientrava al tempio, dove venivano rappresentati una serie di drammi ed intrattenimenti religiosi. Queste erano le cerimonie pubbliche. Sappiamo che il culto di Attis possedeva un aspetto esoterico, già adombrato nel pasto sacramentale. Le notizie sono molto scarse, ma molti autori sostengono che l’iniziazione vera e propria avvenisse il 28 marzo, giorno del battesimo del neofita.
Parliamo del taurobolio (o criobolo nel caso si trattasse di un montone), che prevedeva l’uccisione di un toro su una piattaforma aperta, e da questa grata il sangue colava in una buca, dove l’iniziato era disteso, lavandolo. Questo battesimo liberava l’iniziato dai peccati, dalle impurità, rendendolo simile al dio. Si pensa che tale rito nasca da una fusione con quello del dio Mitra: è importante notarlo, dato che il toro in tal caso era considerato la fonte della creazione e della resurrezione. Quindi tale cerimonia poteva indicare la purificazione eterna e la rinascita dell’anima. E’ ovvio che il myste rappresenta lo stesso Attis: con la discesa nella buca si rappresenta la sua morte, come anche il suo ritorno ad uno stato embrionale prima della rinascita ad una nuova vita. Tale rito sostituì la castrazione, momento culminate dei riti, dato che l’iniziato poteva offrire alla dea gli organi genitali dell’animale sacrificato, e suggellare la sua avvenuta iniziazione. Così santificato, l’iniziato veniva ammesso nel “pantos”, ovvero nella camera nuziale della dea, in quanto era divenuto sposo mistico di Cibele. Ancora una volta, l’unico riferimento ai misteri veri e propri ci viene da Clemente d’Alessandria, che cita la formula che serviva come parola d’ordine: “Ho mangiato al tamburino; ho bevuto al cimbalo; ho portato il Kernos; sono entrato sotto il baldacchino”. A parte l’evidente somiglianza con la formula usata ad Eleusi, la prima parte della frase può riferirsi al pasto, e d’altronde tamburino e cimbalo erano gli strumenti di Cibele. Per quanto riguarda invece il Kernos, piccolo vaso di terracotta, le opinioni si dividono tra coloro i quali credono servisse per un’offerta alimentare, e coloro i quali ritengono contenesse invece gli organi sessuali del toro o del montone da portare a Cibele. Alcune fonti dicono che gli iniziati danzavano con questo piatto sulla testa la danza detta Kernophoria. Lo stesso termine pantos genera altre interpretazioni: forse era una caverna, o un luogo sotterraneo vicino al tempio, in cui l’iniziato scendeva, come scendesse agli Inferi.
Nonostante si neghi l’aspetto soteriologico, la dea Cibele incarnava tanto la morte come la rinascita. Lo stesso Sant’Agostino afferma che la castrazione mirava proprio alla beatitudine futura. Il culto di Attis, quindi, era il culto della creazione e dell’asse vita-morte-rinascita. In ambito neo-platonico verrà considerato il “demiurgo delle cose che nascono e che muoiono”, quindi rappresentate della vicenda del cosmo, con il tempo eterno e ciclico, perfetto e incorruttibile, espresso dalla Grande Madre, e quello mutevole, temporale, di nascita e di morte, rappresentato da Attis.