Tra ricordare tutto e ricordare niente cosa scegliereste? Forse in molti non sanno che ricordare ogni singolo dettaglio può essere una malattia: ipertimesia. Le persone che sono affette da questa condizione non possono scordare niente. Hanno una memoria fotografica superiore alla media ed è come se vivessero intrappolate nel passato, poiché la loro mente non riesce ad avere sguardi sul futuro.
Il racconto di Borges Funes o della memoria, tratto dal libro Finzioni, ha come protagonista un uomo, di nome appunto Ireneo Funes, che riesce a ricordare tutto, a vedere immagini precise della sua vita passata ma non coglie alcuno sguardo sul futuro. Vive in totale solitudine e muore per un problema polmonare, ma simbolicamente schiacciato dal peso dei suoi ricordi.
Lo psicologo russo Aleksandr Romanovic nel 1965 curò il primo caso di ipertimesia. Il paziente riusciva a ricordare cose che non voleva e, al contrario, non riusciva a tenere a mente ricordi in maniera volontaria. Il caso più particolare è quello di una donna che pare che ricordi ogni giorno della sua vita a partire dal 5 febbraio del 1980, quando aveva solo 14 anni. Questa rarissima sindrome causa forte stress e disagio nella persona affetta, infatti, poter dimenticare (anche se ci sembra strano) è un processo fondamentale per ogni cervello umano, che seleziona gli avvenimenti "importanti" da tenere e quelli “inutili” da eliminare. Ognuno di noi dovrebbe avere il diritto di dimenticare… e di essere dimenticato.
Ogni giorno in Italia sembrano voler far perdere la memoria di sé 67 persone (Nel 2022 le denunce di scomparsa sono state 24.369, una media di 67 al giorno, il 26,4% in più rispetto al 2021, di questi 47 sono minori di cui 36 stranieri e 11 italiani. E poco meno della metà di queste persone vengono poi rintracciate, Fonte ANSA). Le cause da indagare sono molteplici e spesso, soprattutto quando si tratta di adolescenti, non se ne conosce l’esatta motivazione: cyberbullismo? Bullismo? Giudizi sull’aspetto fisico o psicologico o sociale? Insicurezze? Delusioni?
Le persone che “spariscono” senza lasciare traccia di sé vorrebbero veramente sparire o vorrebbero far sparire la fonte del loro dolore, del loro disagio? Ma soprattutto: si può davvero sparire del tutto, nella vita reale e nel mondo virtuale? La risposta è no. Il mondo virtuale non dimentica niente.
Proprio così: tutte le informazioni che si inseriscono o che vengono generate dal computer rimangono archiviate da qualche parte. La memoria del computer è composta da varie parti e, proprio come nel cervello umano, ogni parte ha una funzione specifica. La memoria, in rete, è uno strumento alquanto utile ma diabolico. In essa gli utenti conservano documenti, password, informazioni personali e ricerche. Queste ultime rappresentano le impronte più evidenti lasciate dalle persone. L'invenzione della rete, avvenuta nel settembre del 1969, diventò subito una dipendenza e uno strumento di sfogo da parte degli utenti. In rete i dati privati pubblicati per errore e condivisi tra utenti sono una valanga: 95 milioni di post giornalieri circa, dati di persone che spesso non avrebbe voluto condividere. Pensando a Google, ogni giorno al mondo vengono fatte 3.5 miliardi di ricerche, che il sito usa per rubare informazioni e venderle ad aziende pubblicitarie e social network.
Chi tutela l’utente da questi furti? Esiste una normativa che garantisce il diritto ad essere dimenticati? Il GDPR, regolamento dell’Unione Europea che disciplina il modo in cui le aziende e le altre organizzazioni trattano i dati personali, tutela il diritto alla privacy, ma non il diritto ad essere dimenticati.
Nella mente umana alcuni momenti, belli o brutti, si possono dimenticare, ma nella memoria tecnologica ciò purtroppo non è possibile. È buona prassi tenere sempre a mente che qualunque cosa postata o caricata in internet diventa di dominio pubblico. Ma perché non basta eliminare un post per distruggerlo definitivamente? Molte persone se lo chiedono. La risposta è: non si distrugge perché tutto ciò che si rimuove dalla visione, finisce comunque nel CLOUD, il “magazzino di internet”, che consente agli utenti di accedere agli stessi file e alle stesse applicazioni da qualsiasi dispositivo. L'elaborazione e l'archiviazione hanno luogo in server che si trovano in datacenter, invece che localmente nel dispositivo dell'utente (fonte https://www.cloudflare.com/).
Anche quando si spostano i file nel “cestino” in realtà questi non si cancellano, ma vengono semplicemente rimossi i loro puntatori: è, come dire, che se si elimina la casa, questa non viene rasa al suolo, ma viene cancellato solo l’indirizzo postale. Il problema è, quindi, ritrovare il file che non si sa più dove sia finito. Sembra quasi che nell’infosfera si sia vittima di una specie di “condanna”, quella cioè di non poter cancellare le impronte del passaggio in rete di ogni utente. Impronte che spesso sono tracce geolocalizzabili.
Geolocalizzazione e tracciabilità sono due cose diverse: la prima analizza la tua posizione nello spazio, la seconda tutti i processi e movimenti. È in uso tra i ragazzi avere installata nel proprio dispositivo, da parte dei propri genitori, un’app con lo scopo di essere geolocalizzati: un po’ per ipercontrollo, un po’ per mancanza di fiducia. Sicuramente, comunque, l'applicazione rappresenta un modo semplice e veloce per rassicurare i genitori che possono così tenere sotto controllo ogni spostamento dei propri figli. Ad alcuni ragazzi può non piacere essere “spiati” dai propri genitori, perché si sentono sminuiti e derubati della loro libertà e autonomia. Ma questo è un discorso da risolvere tra genitori e figli di questa generazione super-iper-tecnologica.
Le nostre tracce, volendo, si potrebbero cancellare? Se facciamo un disegno con la matita e non ci piace, possiamo con la gomma cancellarlo e farne sopra uno nuovo. Ma sul foglio resteranno le tracce del disegno precedente. Quando non saremo più in vita, che fine faranno i nostri account? Alcune persone utilizzano l'account delle persone decedute per uso commerciale, questa è la notizia rimbalzata nei social pochi giorni fa, suscitando l'ulteriore dibattito sulla legislazione in rete. La legge in proposito è, purtroppo, deficitaria: prevede che alla morte del debitore siano gli eredi personalmente a dover farsi carico dei debiti, ma i social non sono debiti. Nessuno può accedere a un account di una persona morta. I post condivisi dalla persona deceduta restano, quindi, al gestore social e sono visibili al pubblico con cui sono stati condivisi.
Unica consolazione: se si comunica nel social la morte, la normativa prevede che l’account sia reso commemorativo. Saranno anche i familiari che decideranno se rimuovere l’account o continuare a usarlo. In conclusione, la rete con la sua immensa memoria impedisce, quindi, di godere del diritto all’oblio; se da una parte ogni uomo potrebbe vantarsi di aver lasciato almeno un segno, un’impronta del suo passaggio terreno, chissà dove ci porterà questo “non diritto all’oblio”.