“Un edifico non è più buono solo se funziona ed è efficiente, ma deve dire e dare di più.”
Nell’era moderna, le arti visive sono andate ad evolversi in maniera diversa l’una dall’altra e soprattutto con i propri tempi. Nel caso dell’architettura abbiamo un vero e proprio cambio di passo a partire dai primi anni 50 del Novecento con, ad esempio, la celeberrima Sydney Opera House di Jorn Utzon. Si torna a comprendere di come l’architettura possa diventare simbolo di un’epoca o, in questo caso, di uno stato. Utzon rompe ciò che fino a qualche decennio fa veniva visto come un tabù. Rompe il diktat “la forma segue la funzione” che per anni è stato usato nella progettazione di grandi opere, andando a creare un simbolo che viene riconosciuto da tutto il mondo “Australia-Sydney” anche se Sydney non ne è la capitale.
L’architettura simbolo era a quei tempi un’architettura vista di cattivo occhio perché riportava alla mente, ad esempio, le epoche dittatoriali in cui le architetture erano manifesto di potere e supremazia. Quindi, il lavoro fatto da Urzon è stato molto audace e pieno di rischi.
Ghery, Libeskind e molti altri architetti hanno cercato -riuscendoci- di progettare opere con un grosso significato al loro interno. Libeskind in particolare con il suo straziante progetto per il museo ebraico di Berlino.
Con il rientro in gioco del simbolismo e in un periodo di crescita dell’informazione, rientrano in gioco anche le figure retoriche molto utilizzate specialmente in antichità. Ecco allora che l’architettura torna a parlare e diventa multitasking. Si comprende, alla fine, quanto un’architettura possa urlare al mondo intero un messaggio anche essendo “non vivente”.
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