Mangiare il Natale, mangiare la fede, mangiare l’amore: vi aspettiamo il 29 dicembre

 

Mentre scarseggiano, languono, si fanno sempre più silenti parole sapienziali sul tempo che attraversiamo – anche a Natale e anche da parte di chi pur potrebbe, ed anzi dovrebbe, consolare ed incoraggiare, invece che colpevolizzare e moralizzare in ogni dove ed ogni nostro sentimento -, mentre scende un silenzio cupo e fitto sul nostro vivere, rischia di divenire muto anche il nostro corpo, vacuo l’appello dei suoi desideri, insoddisfatta l’ansia dei suoi bisogni e diritti, negletto il suo linguaggio di sensi ed emozioni.

Che Natale ci aspetta? Quale sensazione profonda, immagine, comparsata di gioia effimera, quale brandello di felicità lacerata, squarciata, neanche appena intuita ci si delinea davanti? Le parole appunto mancano, le risposte non vengono.

Il nostro giornale – insieme all’Associazione Culturale “Casa Alta”, che con il primo ha rapporti di osmosi costante anche se non di sovrapponibile identificazione -, ha pensato ad un’iniziativa che, proprio nel periodo festivo, in giorni “arancioni”, subito dopo le fatidiche date di 25, 26, 27, ci possa riconciliare con la bellezza delle parole non verbali, o non solo verbali, che il nostro essere corpo pronuncia sempre, senza stancarsi, pure nella disperazione dell’abbandono fisico, nella proiezione spasmodica, quasi gesto che tenti tutt’ora vietatissimi abbracci e pericolosissime carezze, verso chi sta d’intorno, verso chi si ama, si cerca, persino si desidera.

Prima di presentare l’iniziativa, merita forse soffermarsi un attimo su quell’antica dialettica mai ricomposta tra éros e agàpe che disegna il perimetro dentro il quale i corpi diventano volti ed i volti non si dimenticano dei corpi, facendosi anzi tutt’uno con i primi. La prospettiva sconcertante, persino scandalosa, che già abbiamo avuto lo spudorato ardire di esporre (ad esempio in https://sites.google.com/site/numeriprecedenti/numeri-dal-26-al-68/199999---febbraio-2018/numero-439---11-febbraio-2018/leggerezza-papale, oppure in https://sites.google.com/site/numeriprecedenti/numeri-dal-26-al-68/199999---febbraio-2018/numero-441---25-febbraio-2018/contro-la-violenza-coloquplar-1), sta nel ritenere che la reciprocità amorosa possa andare in crisi – non in una crisi esiziale, patologica, mortale, bensì salutare, rinvigorente, terapeutica – a confronto con l’alterità. Amare chi ama un’altra o un altro è esperienza ben conosciuta in adolescenza e sempre devastante, deturpante, nociva finché, però, non comprende l’alterità che abita il sé, l’essere noi stessi e noi stesse altri ed altre dinanzi ai nostri occhi, nei nostri corpi. Amare chi ama un’altra o un altro diventa possibile, anzi diventa irragionevolmente salutare, perché non esauriamo il nostro sé nella semplice autosoddisfazione di ciò che siamo, perché siamo e stiamo sempre oltre, al di là (del bene e del male), in zona ignota, né gialla, né rossa, né arancione, forse allo stesso momento buia e luminosa.

Il gesto di nutrirsi, di mangiare non è una semplice necessità fisiologica. Il gesto di pregare, di orientarsi ad un’etica di matrice religiosa non è sovrastruttura superstiziosa da scacciare via il prima possibile. I gesti strutturano invece la nostra alterità, la nostra incomprensibilità, il nostro mistero. Ci dicono dell’alterità che ci abita. Ci parlano dell’amore per noi stessi che non può rimanere frustrato né può essere liquidato magari in nome di sacrificanti altruismi. Il primo prossimo da amare è quell’io che non conosco, e che forse temo.

E così questo nostro giornale, insieme a “Casa Alta”, organizzano per martedì 29 dicembre – alle ore 18:30 tramite la piattaforza Zoom - un evento online di presentazione del volume intitolato “Ricette e Precetti”, di cui è autrice, per i tipi di Giuntina, Miriam Camerini, straordinaria giovane interprete dell’Ebraismo contemporaneo, non solo in Italia (https://www.giuntina.it/catalogo/fuori-collana/ricette-e-precetti-749.html). Con lei interloquiranno Emanuela Provera, che è segretaria dell’Associazione “Casa Alta”, e Orietta Piva, cultrice di arte culinaria.

Vorremmo che, nella nebbiosa tetraggine che ci avvolge, nello smozzicamento di suoni che ci impedisce di dialogare, di colloquiare, di chiacchierare, fosse possibile ritagliarci questo spazio, questa occasione, anche di nobile “leggerezza”, di lieve e serena consapevolezza di come sia gustosa questa vita terrena che giustamente ci affanniamo a preservare ed assicurare quanto più a lungo.

Se verremo fuori dalla tragedia che ci segna le ore, i minuti e i secondi sarà per la fiducia reciproca, per la confidenza, per la tenerezza, per la sincerità, per la condivisione che avremmo saputo nutrire, coltivare e far di nuovo nascere fra di noi.

La frase folle “tanto t’amo che ti mangerei” è certo paradosso letterario, quasi poetico, insostenibile nella sua pretesa – nessuno e nessuna fra di noi è cannibale -, ma traduce anche, non possiamo negarlo, un sogno di essere reciprocamente carne e corpo che ogni nascita annuncia sin dal primo vagito e che poi scompare nell’algida compostezza dell’età ormai adulta.

“Mangiare Natale” è “mangiare” ciò che siamo, la nostra insondabile alterità. Nutrirci del nostro mistero, che vi sia di mezzo una fede religiosa oppure no, una serie di interrogativi irrisolti – il perché del dolore e della morte, ad esempio – od un aggrumarsi di letizie limpide e trasparenti. Ce lo dirà Miriam, ma la ricetta dei nostri cibi è Precetto d’ascolto della nostra vita, in profondità, laddove cessa lo strepito di ogni inutile eloquio.

Proseguiremo anche domenica prossima a riflettere intorno a questo groviglio, a questo intreccio, di diverse dimensioni del nostro vivere, ma fin da ora, a tutte le nostre lettrici ed a tutti i nostri lettori, il più sentito augurio di Buon Natale, non “nonostante tutto”, bensì a partire dal tutto che già c’è, anche quando fa piangere.

E buona domenica.

 

Stefano Sodaro