Asmara distanziata, Covid ipostatizzato, Adriana Zarri non dimenticata

Adriana Zarri - foto tratta da commons.wikimedia.org

Mentre cala il perimetro arancione anche su Trieste e tutto il Friuli Venezia Giulia, e mentre eravamo prossimi a fare memoria dei dieci anni dalla morte di Adriana Zarri – avvenuta a Crotte di Strambino (molto vicino a Bose) il 18 novembre 2010 -, giungono, proprio questo sabato sera, notizie di un lancio di razzi sull’aeroporto di Asmara, in correlazione, pare di capire, con la situazione esplosiva del Tigray che aspira all’indipendenza dall’Etiopia. Gli stretti rapporti politico-governativi tra Etiopia ed Eritrea, dopo la fine del conflitto, sarebbero all’origine delle rivalse belliche da parte del movimento indipendentista del Tigray, che avrebbe rivendicato la paternità del bombardamento (https://www.africa-express.info/2020/11/14/laviazione-del-tigray-bombarda-asmara-colpito-laeroporto/).

Il grado di interesse dell’opinione pubblica italiana ed europea – anche di quella più avveduta e critica – verso le vicende del Corno d’Africa sembra assai relativo. In effetti, per appassionarsi (altri verbi non paiono consentiti) a che cosa accada a 4000 km di distanza, è richiesto un “distanziamento” dal proprio io che l’urgenza pandemica rende psichicamente intollerabile.

Perché è, piuttosto, la salvezza del proprio “io”, e non già del “noi”, la ragione di un’ansia talmente acuta da fare del Covid 19 una sorta di Moloch, una divinità negativa che decide del nostro stare al mondo, assorbendo in sé ogni nostra preoccupazione ed interrogazione. Non è il semplice esorcismo della morte, divenuto abito culturale da indossare in perpetuità onde non svaporare tra i buonisti-teisti-moralisti ormai fuori tempo massimo, no: è proprio una specie di devozione – inconfessabile e per vero neppure avvertita come tale – verso un assetto di progressivo incapsulamento dentro l’io, che, mentre si autolimita per doveroso ossequio alle norme, quasi finisce per odiare le forme di socializzazione, dal matrimonio in poi, o dal matrimonio in là, per dire con un esempio banale, che permettono non solo di guarire dall’angoscia ma soprattutto di accorgersi di un “tu” ben diverso, ben altro, dalla mera proiezione di quel medesimo “io”. La disperazione da Covid crea un bisogno di consolazione che tuttavia, non potendo essere fisicamente vicini e vicine, sta tutto piegato sul proprio “sé”, con rischi di implosione emotiva facilmente immaginabili.

Asmara è lontana. Una lontananza che ratifica un distanziamento culturale ben confezionato nel tempo, quasi che il colonialismo non sia mai esistito, che il fascismo sia un errore ormai archiviato e che – soprattutto – chi non fa parte del nostro mondo non abbia proprio niente da insegnarci. Sarebbe interessante chiedere in qualche nostra comunità cristiana se qualcuno, o qualcuna, abbia mai sentito parlare di una Chiesa Ghe’ez.

La cura per guarire dal virus è anche cura per guarire dall’imprenditorialità di noi stessi, da quell’ “IO S.p.A.”, che azzera in realtà l’intraprendenza autenticamente imprenditoriale per accontentarsi piuttosto di promuovere e consolidare un’immagine di forza e vittoria? In altre parole: chi ci salverà da noi stessi e stesse?

Il problema è che si dubita vi sia necessità di un tal salvezza: siamo autosufficienti. Ed il Covid è venuto ad indebolire e pregiudicare simile convinzione.

Sentire al telefono le esplosioni di un bombardamento e le urla di terrore di chi, dall’altra parte della cornetta, sta vivendo sotto un attacco missilistico è esperienza che espropria radicalmente da ogni pretesa autoritaria dell’ “io”.

Un tempo era piuttosto diffuso il sostantivo “compromesso” ed il verbo “compromettersi”. Fino a diventare addirittura sintesi espressiva di una formula politica di possibile governo: il “compromesso storico”.

Oggi, invece, ogni compromesso sembra fare orrore, perché attenta precisamente alla gigantografia in assoluta purezza del nostro “io”. Fino a forme di narcisismo e autocompiacimento diffuse e note.

Adriana Zarri viveva in una dimensione di totale estroversione verso l’alterità. Il suo monachesimo eremitico era paradossalmente (ma è paradosso solo per chi ignora) quanto di più lontano – distante, sì – da qualunque celebrazione dell’ “io”. Tanto che una sua celebre raccolta di poesie/preghiere da lei stessa composte s’intitola “Tu”.

Mariangela Maraviglia ha, proprio in queste settimane, per i tipi de Il Mulino, pubblicato un volume imprescindibile al riguardo: Semplicemente una che vive. Vita e opere di Adriana Zarri (http://www.mariangelamaraviglia.it/).

Il monachesimo eremitico di Adriana Zarri, pur essendo potenzialmente in grado di destabilizzare l’istituzione religiosa in quanto laico ed autonomo, ha però battuto strade molto distanti (ancora…) dal confronto con l’istituzione che di per sé conduce a pericoli di ipostasi fisse nel cielo dei nostri bisogni e desideri repressi. In altre parole: l’alienazione, la frustrazione, la depressione scatenano aspirazioni a vedere incarnato da qualcuno o qualcosa quel mondo perfetto ed ideale che viene sognato e mai esperimentato personalmente. È un’alterità – per così dire – “cattiva”, alla Covid appunto, in cui l’altro ci domina e ci schiaccia, persino ci espropria del nostro amore e della nostra identità profonda.

Proprio in questa direzione ostinata e contraria troviamo Adriana Zarri. Riconosciamolo: memoria imbarazzante la sua, se si pensa che giunse a dissentire dal dissenso, a rivendicare un’autocritica come stato teologale di permanente conversione che irruvidiva ogni approccio verso di lei che fosse indisponibile a venir messo in discussione.

Ed è per questo che la testimonianza di Adriana Zarri – di più, il suo magistero – ci attende nel futuro. Quando ci si accorgerà che l’eucaristia, il rendimento di grazie, non è appannaggio di chierici e cristiani, ma è dimensione di vita sol che si accetti di ringraziare, per il pane che c’è, e di denunciare, per il pane che non c’è. La “lotta e contemplazione” di Frère Roger Schutz.

Se proviamo ad associare il dramma di queste ore ad Asmara, il dramma di queste medesime ore in ogni nostra città ed ogni nostra casa, il silenzio di un’unica preghiera orante che non dice preghiere perché è tutt’uno con il respiro, se ci proviamo, il volto di un keshi – il prete sposato della tradizione abissina -, di una infermiera, di una primaria, di una eremita si confondono.

Ha affermato Dietrich Bonhoeffer: “Solo chi grida per gli Ebrei può cantare il gregoriano”.

Per imparare a cantare nel chiostro, dobbiamo imparare a far silenzio per imparare dal mondo.

E comparirà la speranza.

Anche ad Asmara.

Anche nei nostri ospedali.

Buona domenica.

 

Stefano Sodaro