Onnigamia francescana

La predica davanti a Innocenzo III 

Ciclo degli affreschi di Giotto sulla vita di Francesco, 1295, Basilica Superiore di Assisi

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Il sovrapporsi del nome pontificale di Francesco alla memoria del minore di Assisi è stata, sin dal 13 marzo 2013, una scelta precisa che ha creato costanti alterazioni interpretative dei percorsi di Chiesa sin qui disegnati dal Vescovo di Roma.

Il papa gesuita di nome Francesco e Francesco d’Assisi sono entrambi concentrati su un rinnovamento ecclesiale che non passa primariamente attraverso riforme interne, nuove elaborazioni ecclesiologiche, innovazioni ministeriali particolari, ma punta piuttosto al confronto con il mondo verso il quale avverte la necessità di indicare e favorire un’attitudine di vera e propria sovversione evangelica.

Il minore di Assisi non è Valdo e Lutero non è Francesco.

Anzi, le fonti narrano di un’identità di Francesco d’Assisi addirittura come diacono, dunque – per così dire – alla fine “normalizzato” nella gerarchia dell’Ordine Sacro, eppure le medesime fonti riportano anche un suo ammonimento di questo tenore: «Fratelli, fratelli miei, Dio mi ha chiamato a camminare la via della semplicità e me l’ha mostrata. Non voglio, quindi, che mi nominiate altre Regole, né quella di sant’Agostino, né quella di san Bernardo o di san Benedetto. Il Signore mi ha rivelato essere suo volere che io fossi un novello pazzo nel mondo: questa è la scienza alla quale Dio vuole che ci dedichiamo! Egli vi confonderà per mezzo della vostra stessa scienza e sapienza. Io ho fiducia nei castaldi del Signore, di cui si servirà per punirvi. Allora, volenti o nolenti, farete ritorno con gran vergogna alla vostra vocazione.» (in G. Miccoli, Seguire Gesù povero, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, 1984, p. 62).

Più che mai espressivo, dunque, che il Vescovo di Roma abbia datato e firmato la sua nuova Enciclica Fratelli tutti sulla fraternità e l’amicizia sociale (http://www.vatican.va/content/francesco/it/encyclicals/documents/papa-francesco_20201003_enciclica-fratelli-tutti.html) non dal Vaticano e nemmeno dal Laterano, ma proprio da Assisi.

Una possibile chiave ermeneutica della nuova assai densa lettera del Papa alla Chiesa Universale – in quanto enciclica appunto – sta, a nostro avviso, nei tre numeri 88, 89 e 90 contrassegnati dalla rubrica Al di là. Merita riportarli per intero:

«88. Dall’intimo di ogni cuore, l’amore crea legami e allarga l’esistenza quando fa uscire la persona da sé stessa verso l’altro. Siamo fatti per l’amore e c’è in ognuno di noi «una specie di legge di “estasi”: uscire da se stessi per trovare negli altri un accrescimento di essere». Perciò «in ogni caso l’uomo deve pure decidersi una volta ad uscire d’un balzo da se stesso».

89. D’altra parte, non posso ridurre la mia vita alla relazione con un piccolo gruppo e nemmeno alla mia famiglia, perché è impossibile capire me stesso senza un tessuto più ampio di relazioni: non solo quello attuale ma anche quello che mi precede e che è andato configurandomi nel corso della mia vita. La mia relazione con una persona che stimo non può ignorare che quella persona non vive solo per la sua relazione con me, né io vivo soltanto rapportandomi con lei. La nostra relazione, se è sana e autentica, ci apre agli altri che ci fanno crescere e ci arricchiscono. Il più nobile senso sociale oggi facilmente rimane annullato dietro intimismi egoistici con l’apparenza di relazioni intense. Invece, l’amore che è autentico, che aiuta a crescere, e le forme più nobili di amicizia abitano cuori che si lasciano completare. Il legame di coppia e di amicizia è orientato ad aprire il cuore attorno a sé, a renderci capaci di uscire da noi stessi fino ad accogliere tutti. I gruppi chiusi e le coppie autoreferenziali, che si costituiscono come un “noi” contrapposto al mondo intero, di solito sono forme idealizzate di egoismo e di mera autoprotezione.

90. Non è un caso che molte piccole popolazioni sopravvissute in zone desertiche abbiano sviluppato una generosa capacità di accoglienza nei confronti dei pellegrini di passaggio, dando così un segno esemplare del sacro dovere dell’ospitalità. Lo hanno vissuto anche le comunità monastiche medievali, come si riscontra nella Regola di San Benedetto. Benché potesse disturbare l’ordine e il silenzio dei monasteri, Benedetto esigeva che i poveri e i pellegrini fossero trattati «con tutto il riguardo e la premura possibili». L’ospitalità è un modo concreto di non privarsi di questa sfida e di questo dono che è l’incontro con l’umanità al di là del proprio gruppo. Quelle persone riconoscevano che tutti i valori che potevano coltivare dovevano essere accompagnati da questa capacità di trascendersi in un’apertura agli altri.»

Sembra qui di scorgere i tratti – ma osiamo annotarlo in assoluta modestia, con pudore e ritegno – di quella “onnigamia”, un tempo, cioè ormai diversi anni fa, descritta come “fraternità sponsale”, che ha contraddistinto molti dei tratti di scrittura e di impegno esistenziale concreto del nostro settimanale, anche nei tornanti ecclesiali.

Rodafà, in qualche modo, per così dire, “si è interamente speso” sul fronte del tratteggio di un possibile nuovo sogno d’amore, prossimo all’utopia, che rimetta in discussione ogni luogo comune affettivo dato per scontato ed indiscutibile, ad iniziare dalla coppia, per moversi verso orizzonti di dedizione amorosa molto più vasti ed anche più impegnativi.

Tutte le considerazioni papali più “ardite” – che sinora nessun Papa aveva mai formulato (due numeri per tutti, il 131: «Per quanti sono arrivati già da tempo e sono inseriti nel tessuto sociale, è importante applicare il concetto di “cittadinanza”, che «si basa sull’eguaglianza dei diritti e dei doveri sotto la cui ombra tutti godono della giustizia. Per questo è necessario impegnarsi per stabilire nelle nostre società il concetto della piena cittadinanza e rinunciare all’uso discriminatorio del termine minoranze, che porta con sé i semi del sentirsi isolati e dell’inferiorità; esso prepara il terreno alle ostilità e alla discordia e sottrae le conquiste e i diritti religiosi e civili di alcuni cittadini discriminandoli».» ed il 141: «La vera qualità dei diversi Paesi del mondo si misura da questa capacità di pensare non solo come Paese, ma anche come famiglia umana, e questo si dimostra specialmente nei periodi critici. I nazionalismi chiusi manifestano in definitiva questa incapacità di gratuità, l’errata persuasione di potersi sviluppare a margine della rovina altrui e che chiudendosi agli altri saranno più protetti. L’immigrato è visto come un usurpatore che non offre nulla. Così, si arriva a pensare ingenuamente che i poveri sono pericolosi o inutili e che i potenti sono generosi benefattori. Solo una cultura sociale e politica che comprenda l’accoglienza gratuita potrà avere futuro.») - si originano qui, in un venir meno delle mura, anche sacramentali, disciplinari, persino teologiche, che definiscono la Chiesa verso lo spazio non più definito né definibile di ciò che proprio la teologia chiama “il Regno di Dio”. Il Regno di Dio supera ogni pesatura di cosa sia eticamente negoziabile e cosa no verso una prospettiva che può sconcertare anche l’etica laica (ad esempio il canone ricorrente, in pressoché tutta la sensibilità etica contemporanea, del valore assoluto della “verità” e della “fedeltà” interpretate come modalità esclusive di appartenenza di qualcosa e qualcuno/a a qualcosa ed a qualcuno/a, che richiedono una difesa senza cedimenti).

Da Fratelli tutti non traspaiono indicazioni di riforma ecclesiale perché non è questo ciò che interessa a Francesco papa nell’attuale terzo passaggio di Chiesa – dopo gli entusiasmi degli inizi e dopo il momento delle acquisizioni pastorali (basti pensare ad Amoris Laetitia). Ora ciò che interessa al Papa è la filosofia più che la teologia, l’unica famiglia umana più che la sola famiglia ecclesiale, i ripensamenti dei modelli sociali e politici più che degli schemi canonici e delle correlate dottrine.

Ma tutto ciò si presenta come una specie di “scacco matto” alle strategie culturali d’ogni tipo, fino probabilmente a generare sconcerto. Dove vuole andare a parare il Papa? Giungeranno – è pressoché certo – critiche furibonde da tutti gli assetti conservativi e financo moderati, spingendosi il Vescovo di Roma così avanti, per alcuni sicuramente troppo, nel prendere le parti degli ultimi. E tuttavia, proprio qui, proprio in questa dislocazione regno-centrica delle mappe ecclesiastiche, un problema di Chiesa si pone.

Mentre il povero – così come enucleato dalla teologia della liberazione latinoamericana – assume una centralità determinante nel magistero pontificio e dunque di rimbalzo, riottosità nolenti o applausi convinti poco contano, sull’intero Orbe cattolico, restano aperte le quattro questioni per le quali “l’amicizia sociale” deve trovare e sviluppare specifiche attitudini: la questione della soggettività – che nessun “noi” può far sparire -, la questione degli abusi – sessuali e di potere -, la questione delle donne (Chiara non viene mai menzionata in tutto il testo dell’Enciclica), e la questione istituzionale per la quale bastano e avanzano le cronache vaticane di questi giorni.

La simbologia francescana – in essa dovendosi ricomprendere, nell’anno 2020 e non più nel Duecento, la dimensione fondamentale della sororità (espressione pure del tutto assente nell’Enciclica) – ha provocato contraccolpi liturgici, spirituali, disciplinari, ecclesiologici che la concretezza gesuitica, assai poco simbolica e spesso addirittura casuistica, ha attraversato e fatto avvertire ad onde lunghe nella storia della Chiesa.

L’amicizia sociale non è evanescente filantropia ma è matrimonio. Con tutte e tutti. Sol a volerlo, ma volerlo è tutt’altro che acquietamento e codice noto.

“Fratelli tutti e sorelle tutte”, il futuro è additato, non qui, ma lì, molto più avanti di qui.

Buona domenica.

 

Stefano Sodaro