Ti sarò padre e madre, amore mio

La mistica - disegno di Rodafà Sosteno

Che cosa significhi essere padri e madri può essere agevolmente chiesto a frotte di esperti ed esperte nelle più diverse discipline. Si affretteranno ed affanneranno a trovare milleseicentoventidue questioni da approfondire e mettere in luce. Chissà però se la risposta soddisferà.

Essere padri e madri non è faccenda biologica, naturale, ma tremendamente culturale.

Quando falliscono un padre ed una madre? Quando pretendono, esigono, impongono reciprocità a figli e figlie. Ed il loro ruolo diviene così apparato di perfetti creditori pronti ad intimare un adempimento esistenziale terribile, insostenibile, a fronte di un “patrimonio” – come s’usa nell’economicismo imperante – piuttosto esiguo in base a calcoli e rendiconti. Direbbe il Papa che sembrerebbe roba “da scartare”.

Essere padri e madri è questione di innamoramento. Ed il padre può essere madre e la madre può essere padre.

Ma anche chi non ha alcuna maternità e paternità biologica – cioè chi non ha figli e figlie per capirci – può essere ottima madre ed ottimo padre.

C’è qualcosa d’altro che sfugge all’incasellamento delle identità parentali secondo presunte logiche di genere.

È piuttosto un desiderio profondissimo di potersi fidare di qualcuno. E questa fiducia eros non la consente, non la tollera, verrebbe meno il gioco, l’incognita, la sfida. Agápe invece sì.

Essere padri e madri è esperienza a chiunque possibile sol che si abbia il coraggio di porsi una domanda, una soltanto: cosa significa amare?

Noi associamo pressoché sempre l’amore al piacere, al nostro piacere, ma il piacere altrui è una buona rotta per comprendere dove si orienti chi davvero ama, dove vada a terminare il suo viaggio.

Non ci si fida di qualcuno in cambio di qualcosa. Il “qualcosa d’altro” della maternità e della paternità non è un contraccambio, fosse pure il piacere di vedere il proprio sé per così dire “riprodotto”, “trasmesso”, in una sostanziale – ed assai povera – proiezione del proprio io. Ma il figlio e la figlia non sono altri miei “io”. Sono Altri, Altre, Altra, Altro.

L’uscita da sé, siccome sembra assomigliare ad una specie di alienazione, non incontra troppe simpatie. Il sé si trasforma comunemente, piuttosto, in un enorme io che giganteggia sempre di più. E poi declina, invecchia, appassisce, pur nella ricerca furiosa di perpetuarsi, di non cedere, di assicurarsi il primato per sempre.

L’uscita da sé assomiglia alla morte e fa paura.

E non servono a nulla le retoriche religiose sulla morte come ingresso nella vita eterna: se il qui ed ora del nostro oggi si disfa viene meno il nostro stesso sé. Salvo che per un aspetto: l’amore appunto, la fiducia. La morte non impedisce di amare. Né impedisce di avere fiducia. Fiducia in che cosa? Qui probabilmente è più rilevativa la cosiddetta follia di ogni compiuta ragione coerente. I “matti” che scansiamo, o su cui disquisiamo, sono testimoni di una soggettività “debole” che atterrisce. Vogliamo soggetti forti e potenti. Statuari, monumentali. Solidi come pietra.

Attendere, aspettare, è voce del verbo amare. Ma si può aspettare solo se si ha fiducia. Certo, il decantatissimo realismo riderà beffardo davanti al sogno di chi aspetta, davanti alla fiducia di chi intravede parole nuove laddove tutto sembra essere stato già pronunciato e definito, eppure è quasi sempre il cinismo ad ospitare le risate del realismo, mentre è il calore di un abbraccio – come che sia, quando che sia, anche se oggi è impossibile per disposizioni sanitarie – a dare un senso alla vita, sempre, anche quando essa appare conclusa, esaurita, terminata.

La paternità e la maternità divincolate da ogni tassonomia sociale, da ogni necessità di sistemazione, da ogni suddivisione esistenziale in compiti da assolvere e necessità naturali da realizzare, insegnano ad amare. Sta qui quel “qualcos’altro” che non è nient’altro.

Essere padri e madri gli uni degli altri – sì, in una accoglienza reciproca che non corrisponde al reciproco semplice guardarsi negli occhi, una “reciprocità-che-non-è-reciprocità” - non è diverso da ritrovarsi sposi e spose gli uni degli altri, le une degli altri, le une delle altre.

Buona domenica.

 

Stefano Sodaro