Le parole che curano e non ci sono

Lettrice futurista, omaggio alla moglie di Marinetti, Giulio D'Anna, 1933 

- immagine tratta da commons.wikimedia.org

La cura che non abbiamo sono (anche) le parole che ci mancano, non ci sono, non si trovano, sono assenti.

Sono le parole della nostra soggettività perduta che tuttavia non sarebbe certo realizzata in una sua nuova metafisica.

La cura per le parole è cura per noi stesse e noi stessi, per le nostre vite, le nostre ore, i nostri minuti.

Da una parte, invece, l’estetismo autocompiacentesi, dall’altra la povertà, la pochezza, di voler ad ogni costo usare parole fruste, ignote oppure esoteriche, iniziatiche, esclusive ed escludenti.

Sono giorni, questi, in cui cerchiamo le parole per esprimere un dolore immenso, un senso di impotenza, una sfinitezza ormai insopportabile. Ma non le troviamo.

Ed il dramma è che non troviamo queste parole neppure laddove si celebra la Parola, siano chiese, templi, teatri che son chiusi.

Le parole per dire la Parola sono impossibili, i loro spazi vuoti e vuotati.

La questione non è di poco conto, perché l’ansia di parole avvolge ed anzi nutre l’inquietudine più profonda.

Il 12 novembre 2005 moriva don Michele Do. Aveva vissuto da prete eremita a Saint Jacques, vicino a Champoluc, nella Val d’Ayas. Pregava e predicava con il Monte Rosa attaccato.

La montagna custodisce il silenzio delle parole. Ogni frase, ogni nome, aggettivo, articolo pronunciato nel silenzio della montagna ha un suono che corrisponde al nostro respiro, paurosamente a rischio in tempi di pandemia da covid-19. Dobbiamo respirare da soli, nelle nostre case, non tra gli altri, è pericoloso.

La mascherina che ci altera i tratti del volto sembra impedire il suono della parole, il fiato per dirle ci ritorna dentro. Speriamo di garantire sicurezza nella misura in cui non pronunciamo alcuna parola che veicoli virus. Ci parliamo da lontano, distanti, quando va bene tramite gli strumenti informatici, quando va male al telefono, quando va malissimo solo intravvedendo una presenza da lontano.

Le parole ci mancano.

Quando visitai la casa dove visse sino alla morte don Michele Do, fui presentato come “un teologo” e provai imbarazzo. Credo infatti che sia vocazione di ognuna ed ognuno, quand’anche professante ateismo o agnosticismo, essere teologa e teologo. Me lo ripeteva continuamente l’indimenticabile Edi Kanzian (https://sites.google.com/site/liturgiadelquotidiano/testi-poetici-dalle-case-di-pena).

Le nostre città non sono abituate all’assenza di parole. O forse sì, quando la solitudine e l’isolamento vorrebbero esprimere un disagio che nessuno raccoglie.

Abbiamo paura, pudore, forse anche qualcosa di più, del nostro disagio psichico, non abbiamo il coraggio di invocarne la cura. Mentre volentieri incliniamo a medicalizzarci la vita intera, esoneriamo da ogni cura terapeutica la nostra propria psiche. Facciamo da soli, siamo autosufficienti, siamo “imprenditori psichici” di noi stessi.

Da oggi nelle chiese cattoliche di rito romano non si udirà più alcun “Signore, pietà”, ma solo, obbligatoriamente, “Kyrie eleison”. E dire che lunga e sofferta è stata la strada per abilitare parole nostre a tradurre non solo il testo latino originale di riferimento ma le nostre stesse ansie, ad esempio la nostra struggente necessità di perdono. Ora basta. Il greco per tutti. Sembra un’iniziativa di divulgazione linguistica, invece è solo spegnimento delle parole. Torneremo in silenzio anche nelle chiese, del resto irregimentate da tempo in una rigorosa disciplina di accessi numerati. Ci compiacciamo di poter andare nelle chiese anche se in pochi (pochi ma buoni?), però restiamo desolati a scoprire che mentre stiamo per tornare ci hanno cambiato le parole e non mi pare che ci abbiano chiesto il permesso o, quanto meno, che cosa ne pensassimo. Siamo tagliati fuori dagli abbracci, siamo tagliati fuori dalle parole.

Ci resta qualche speranza da qualche parte?

Sì. Reagire ad ogni silenzio imposto da noi stessi od a noi stessi con l’eccedenza verbale, espressiva, persino performativa, di ciò che siamo. Diciamoci reciprocamente ciò che siamo, confidiamoci i nostri disagi, invochiamo le parole degli altri che non sentiamo, richiediamole, esigiamole.

Mi permetto due indicazioni segnaletiche, in qualche modo proprio para-liturgiche.

Ieri si è celebrato in San Pietro, a Roma, il Concistoro per la creazione dei nuovi cardinali.

Tripudi di rossi porpora, un saio francescano con bianco cordiglio, uno solo beninteso (quello di padre Raniero Cantalamessa, cardinale non ordinato vescovo) e mascherine ricoprenti anche i volti delle Loro Eminenze Reverendissime, che, quand’anche debbano attentamente vigilare sulla propria “eminenza”, come ha esortato il Papa – testuale (http://www.vatican.va/content/francesco/it/homilies/2020/documents/papa-francesco_20201128_omelia-concistoro.html): «Così, ad esempio, il rosso porpora dell’abito cardinalizio, che è il colore del sangue, può diventare, per lo spirito mondano, quello di una eminente distinzione. E tu non sarai più il pastore vicino al popolo, sentirai di essere soltanto “l’eminenza”. Quando tu sentirai questo, sarai fuori strada.» -, di tal titolo pur sempre godono nell’ordinamento ecclesiastico, fino ad eventuali future novità derogatorie al momento non immaginabili.

Ecco, a proposito di Vaticano e vaticanisti, può essere utile confrontarsi – prima indicazione segnaletica – con le parole di Emanuela Provera, pronunciate un po’ più di un anno fa a Trieste, nel corso del Convegno dal titolo “Fare memoria: l’amore, la legge”: https://www.youtube.com/watch?v=a1eHD12tbUo.

Ogni mercoledì, poi, è altamente consigliabile lasciarsi condurre per mano nella conoscenza del Talmud dalla regista ed esperta di ebraismo Miriam Camerini, che tramite apposite videolezioni presenta un tesoro di sapienza di cui in Italia onestamente si sa pochissimo; qui il link: https://www.youtube.com/watch?v=869XplCxem0.

Possiamo in effetti organizzare strategie di cura delle parole che attendono solo il nostro coinvolgimento, il nostro desiderio di gettare ponti di comunicazione dai nostri appartamento verso un esterno che impaurisce, ma che, in pieno silenzio, è pur pieno di sorrisi, confidenze, incoraggiamenti, attenzioni, simpatie.

Il Papa ripete spesso l’importanza di non lasciarsi privare della speranza. Noi, in tutta umiltà, vorremmo non lasciarci privare delle parole, che la speranza tengono accesa.

Buona domenica.

 

Stefano Sodaro