Frasi dure dei vangeli

Leeds Cross - foto tratta da commons.wikimedia.org

Qualche riflessione su alcuni passi dei vangeli che ci spiazzano per la loro durezza.

1. Gesù mite e umile? Ricordate che ha detto: «Nessuno che ha messo mano all’aratro e poi si volge indietro è adatto per il regno di Dio», e ancor peggio se uno vuol fermarsi per seppellire suo padre prima di mettersi a seguire Gesù (Lc 9, 51-62). Ai tempi di Gesù la sepoltura dei morti era collocata ai vertici di tutte le opere buone (Gn 23, 19-20; Tb 2, 4-9; 12, 12-13). Seppellire il proprio padre era il compendio di tutta la religione e delle sue osservanze, e invece Gesù chiede, a chi vuol seguirlo, di liberarsi dai legami che impongono queste osservanze religiose [1] (Mt 8, 22); allo stesso modo non dà peso alla famiglia tradizionale se poi le relazioni familiari esigono delle dipendenze (Mc 3, 33) [2]. Si deve essere disposti anche a correre il rischio di tagliare ogni legame con la famiglia (Lc 9, 59-60: non si può neanche seppellire il padre), dovendo restar concentrati su quello che si sta facendo, non sul passato.

È dura quest’imposizione che vieta di guardare a quanto è successo nella propria vita, e che sembra mancare perfino della pietà verso i propri morti. Eppure questa linea era già stato imposta in passato agli israeliti: non voltarsi a guardare all’Egitto durante il viaggio dell’Esodo [3]. Non dobbiamo legare il cuore a nessun momento del nostro passato perché il nostro tesoro è nel futuro (E. Balducci). E per futuro s’intende quello che vivremo qui, sulla terra, non nella prossima vita di cui oggettivamente non possiamo sapere nulla, perché fa parte dell’inconoscibile trascendente. Bisogna guardare e andare sempre avanti, al Dio che viene [4], senza rimpiangere le cose belle del passato: chi ha in mano l’aratro deve guardare il campo davanti, ai solchi da scavare, qui sulla terra, senza voltarsi indietro (Lc 9, 62).

Con queste parole in apparenza dure ci viene detto in sostanza che occorre stare attenti affinché il passato non si trasformi in una gabbia dalla quale non si può più uscire. Questo porterebbe a un totale rifiuto di ogni novità, e rifiutare ogni novità significa non vivere la storia. Se si pensa solo al passato, perché limitarsi a tornare a prima del concilio quando si può tornare al medioevo [5]? Quanti preferirebbero in effetti non essere usciti dal medioevo. Invece, la spiritualità cristiana (come ben emerge dall’incipit di Lc 3,1-2) inserisce sempre le persone nella storia, e la storia va avanti, senza fermarsi. E tutto ciò che avanza nella storia invariabilmente si trasforma, per cui anche i valori di una volta continuano, ma in forme nuove. Se invece ci si aggrappa sempre al passato, non si riesce a cogliere la vitalità di Gesù che è sempre attuale. Ciò comporta innanzitutto la consapevolezza che viviamo in un processo dinamico, ma soprattutto che non siamo in grado di realizzare tutto e subito. L’uomo è sempre in divenire, e per sua natura non ha proprio la possibilità di accogliere in un solo momento tutto quello che Dio gli offre, non avendo in sé spazi interiori sufficienti di accoglienza. Quindi, se siamo inseriti in un modello evolutivo, e non in una gabbia statica dove non si mai è pronti a mettersi in discussione, il passato non può e non deve determinarci in modo assoluto. Per fare un esempio pratico, pensiamo a quante persone colpite da un lutto smettono definitivamente di vivere e si crogiolano nel proprio dolore. Questo non è un atteggiamento cristiano. Ecco perché dobbiamo essere sempre pronti alla conversione, sempre pronti a rinnovarci; sempre pronti a cambiare idea se sopravvengono fatti nuovi, perché quando cambiano i fatti è del tutto lecito cambiare opinione e cambiare rotta. Già nella Bibbia l’incapacità di accogliere il nuovo, restando sempre in balia del proprio passato, è visto come una minaccia [6].

Se da una parte solo la continua conversione permette un nuovo inizio, dall’altra questo nuovo atteggiamento è sufficiente anche per cancellare il passato ingiusto (Mc 1, 4: cancella i peccati). Il passato chiuso in sé non consente invece l’irrompere di alcuna novità, mentre la storia ci riserva ancora tante novità inedite. Ancorarsi spasmodicamente alla passata tradizione, esaltandone la memoria, fa ritenere che il presente e il futuro non abbiamo da dirci e portarci nulla di nuovo (la fine della storia, erroneamente profetizzata dal professor Fukuyama F. nel suo libro La fine della storia e l’ultimo uomo). Sembra che ormai tutto sia stato fatto, tutto sia stato detto, ed il cristianesimo viene così considerato autentico solo nella misura in cui è archeologico e non si lascia contaminare né dal presente (Gounelle A.), né dal futuro. Ecco perché neanche il dogma immutabile che viene dal passato e che induce in tanti delle certezze granitiche può invece condizionarci per l’eternità.

Lo stesso discorso va fatto per la tradizione: non si può trasmetterla come fosse un oggetto artistico da conservare in un museo; così è una tradizione morta. «Perché avvenga una trasmissione vera bisogna tradire certe cose, bisogna rigenerarne altre. Le radici non ti raccontano la trasformazione, esse sono in grado solo di reggerti nella trasformazione, il solo ritorno alle radici ci congela. La radice è vitale per vivere, ma non per fare da ponte per il futuro» [7]. E poi, da cosa è concretamente costituita la tradizione e l’identità, posto che nessuno le ha mai viste? Maurizio Bettini [8] ha argutamente spiegato come basta sostituire la parola “tradizione” con la parola ‘radici’ e subito si lega un concetto astratto e di difficile definizione a un concetto visivo e concreto, per cui evocando questa immagine concreta delle radici dell’albero si entra in un ordine naturale che nessuno osa più contrastare, mentre prima il termine “tradizione” era qualcosa che poteva anche essere messo in discussione. Insomma si attribuisce alle radici un’autorità che la tradizione non ha, e l’identità culturale predicata attraverso l’immagine delle radici viene così automaticamente estesa all’intera comunità, a prescindere dalla volontà del singolo, visto che, a quel punto, il ramo non può decidere di non appartenere a quell’albero. Una volta che uno è ‘radicato’ in una certa tradizione, costruita da altri, non può più scegliere diversamente.

Va allora rimarcato che, se ci opponiamo ad ogni novità, noi non cambiamo più, e niente può più cambiare. Invece il futuro può irrompere solo se ci prepariamo e lo accogliamo. Per diventare nuovi occorre convertirsi, come ai tempi di Giovanni; e, come ai tempi di Giovanni Battista (Lc 3, 2), a tutti è sempre richiesto che il passato resti aperto per rendere possibile il nuovo futuro. Per nessuno la salvezza sta solo nel passato, ma per tutti sta sempre nel futuro: «vedranno la salvezza che viene» (Lc 3, 6).

A chi accusava Albert Schweitzer di collocare appunto il centro di gravità della fede cristiana nel futuro, anziché ancorarlo nel passato, cioè al momento della morte e resurrezione di Cristo, questo medico missionario che era anche un grande teologo rispondeva: “è vero, ma è Gesù Cristo stesso che situa il centro di gravità della fede cristiana nel futuro, visto che i vangeli sono la predicazione del regno di Dio che è vicino, e non il dramma redentore della nostra dogmatica”.

2. Più volte, in Matteo (13, 42; 13, 50; 22, 13 e 24, 51), appare la minacciosa frase di Gesù secondo cui i non timorati di Dio, coloro che non gli si sottomettono, faranno una brutta fine. Nella parabola della pesca, ad es., si dice chiaramente che i pesci tirati su con la rete saranno divisi: i buoni (che noi interpretiamo come gli obbedienti a Dio e al magistero) da una parte, i cattivi (i malvagi, cioè coloro che non hanno voluto sottomettersi e obbedire) dall’altra (Mt 13, 47-50), e si aggiunge pure che questi ultimi finiranno nella fornace ardente dove per loro ci sarà pianto e stridor di denti (in soldoni: ci hanno assicurato che finiranno all’inferno).

Dobbiamo dare alla parabola un’interpretazione letterale? I cattivi finiranno coll’essere tormentati in eterno dalle fiamme dell’inferno? Ma allora, la misericordia di Dio? Ogni castigo è un mezzo che ha uno scopo preciso: evitare che il castigato compia di nuovo il male, correggerlo, eccetera. Ma una punizione eterna, un fuoco eterno che causa sofferenza reale, brucia e reca dolore senza mai distruggere, non ha alcuna finalità, è solo una vendetta, e un Dio così vendicativo fa a pugni con un Dio misericordioso.

L’uomo Gesù – al pari degli evangelisti [9] - era legato alla cultura del suo popolo. Infatti Gesù è modello di umanità in quanto inserito nella sua storia; quindi necessariamente con i limiti della cultura del suo tempo, e nel condizionamento culturale della religiosità ebraica del suo tempo da cui è emerso; del resto anche ciascuno di noi è chiamato ad emergere dalla propria cultura. Allora, in quella cultura, si credeva ad es. che esisteva lo Sheol (gli inferi, il regno dei morti) [10]: pensiamo al racconto evangelico del povero Lazzaro e del ricco epulone [11]. Solo più tardi la Chiesa ha equiparato lo Sheol all’inferno: ad es., nel Credo apostolico oggi si recita correttamente: “morì e fu sepolto; discese agli inferi”; ma quand’ero piccolo si diceva: “discese all’inferno” [12].

Ma visto che ciò che sta oltre la morte fa parte della trascendenza, cioè di un campo inconoscibile per noi umani (come detto più volte), faremmo meglio a non parlare di quest’ambito, che non è alla nostra portata, come se invece lo conoscessimo di già perfettamente [13]. Diciamo anche che perfino la stessa Chiesa – che pur continua a parlare dell’inferno -  non ha mai sostenuto che una determinata persona (con nome e cognome) è con certezza finita all’inferno: non lo ha detto neanche di Giuda e neanche di Hitler. Quindi, come si fa a imporre come elemento essenziale di fede quello che non conosciamo?

Tanto più che, come ammoniva Paolo de Benedetti, grande esperto di ebraismo, nelle Scritture “c’è sempre spazio per un’altra interpretazione, diversa dalla nostra e non è detto che la nostra interpretazione sia l’unica corretta”. Nel nostro caso, per quest’altra interpretazione basta richiamare quanto detto da Alberto Maggi, il quale ha ricordato in una sua omelia che le tre parabole (l’ultima delle tre è quella dei pesci) sono collegate: quella del tesoro e della perla parlano della gioia nell’incontrare il regno di Dio, mentre l’ultima parabola (quella della rete e dei pesci) parla del risultato di questa scelta (Mt 13, 44-50).

Chiarisce poi questo autore che il testo originale non corrisponde alla traduzione italiana: «il regno dei cieli è simile a una rete gettata nel mare, che raccoglie ogni genere …»”, non si dice di cosa, perché manca l’oggetto della pesca e non c’è affatto la parola pesci aggiunta nella traduzione (potrebbe anche essere ogni genere di carabattole che qualcuno ha buttato in mare per disfarsene, e che una volta raccolte nella rete vanno di nuovo buttate via). E non c’è neanche la parola pesci buoni e cattivi da buttar via, perché anche qui la traduzione (in mancanza della parola pesci che molti ovviamente sottintendono) non rende il neutro del greco: ciò che nella rete è di buono e ciò che è dimarcio. Coloro che hanno gettato la rete non danno perciò un giudizio morale su ciò che si è raccolto (individui buoni o cattivi); piuttosto si deve pensare che se una cosa che è stata raccolta (fosse anche un pesce) è putrefatta siamo davanti a una constatazione, non a un giudizio: c’è una differenza di fatto, ben visibile per tutti, fra ciò (o forse chi) ha pienezza di vita e chi invece è nella putrefazione della morte. Dunque Gesù sta solo dicendo che mentre l’accoglienza del suo messaggio conduce l’uomo ad una pienezza di vita, il rifiuto di questo messaggio, cioè il vivere soltanto per sé, porta alla morte definitiva, alla putrefazione della propria esistenza.

Poi, l’attenzione si sposta sulla “fornace ardente” espressione usata dall’evangelista che è però ripresa dal libro di Daniele (Dn 3, 6), in cui si rappresentava la pena per chi non adorava la statua di Nabucodonosor. Quella che era la pena per chi non adorava il potere diventa qui, all’opposto, la fine per chi invece ha adorato il potere. Solo chi orienta la propria vita per il bene degli altri si realizza. Chi invece ha pensato soltanto a sé, chi ha pensato al proprio potere in realtà si auto-distrugge. E chi ha buttato via la propria vita si accorgerà da solo di averlo fatto, ma sarà troppo tardi: ecco il pianto e stridor di denti, che potrebbero essere tradotto oggi con “si daranno da soli dei pugni in testa, ormai consapevoli del totale fallimento”.

La fornace ardente è indicata spesso anche come la Geenna, dove c’è il fuoco che non si spegne mai (e così è stato facile accostare questa immagine all’inferno); però questo succede non perché il fuoco dura magicamente in eterno, ma solo perché viene alimentato di continuo dall’immondizia: infatti la Geenna era, ai tempi di Gesù, il forno inceneritore di Gerusalemme, che tutti potevano vedere. Tutti potevano capire la similitudine. Quindi è il fuoco che non si spegne mai, non l’immondizia che non si consuma mai, per cui il fuoco della Geenna (o della fornace ardente) descrive semplicemente l’autodistruzione, l’annientamento totale dell’uomo-immondizia che ha pensato solo a sé stesso. Il fuoco non si spegne perché arriverà ancora altra immondizia.

Certo, a molti fa ancora comodo giocare sul termine “fuoco eterno”, che non finisce mai (Is 66, 24), perché questo è funzionale all’idea di un Dio che deve incutere paura e te la fa pagare per l’eternità mandandoti all’inferno [14] dove brucerai in eterno senza consumarti. Ma mentre il Regno dei cieli è stato preparato fin dalla creazione del mondo (Mt 25, 34 e 41), il fuoco segno di distruzione non esiste da sempre, e pertanto in queste due figure si realizza quanto Gesù aveva detto: «A colui che ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a colui che non ha, sarà tolto anche quello che ha» (Mt 13, 12; Mc 4, 21): il che non significa che i ricchi saranno ancora più ricchi e i poveri ancora più poveri, ma che a chi produce vita il Padre regala ancora più vita, mentre a chi non ha donato nulla, trattenendo tutto per sé, non solo non verrà dato più niente, ma verrà perfino tolto quel poco di vita che ancora ha (= l’ultimo soffio di vita biologica). In altre parole non sarà più nulla perché subirà la distruzione totale, la seconda morte come si è detto in altra occasione.

Nel libro dell’Apocalisse si parla specificamente di morte seconda (Ap 20, 6; 21,8). Si muore forse due volte? Sì, esistono due morti; la prima è la morte biologica. Anche oggi, senza che uno se ne accorga, sono morte milioni di sue cellule, domani ne morranno altrettante, ma lui continua a vivere tranquillamente, senza che se ne accorga. Poi arriva anche il momento della morte biologica dell’individuo, la prima morte: gli altri se ne accorgono, ma se la morte biologica incontra una persona carica di amore, carica di vita, questa morte non le fa assolutamente niente: è questa la resurrezione, una seconda nascita, cioè il passare indenni attraverso la morte biologica.

Chi muore la seconda volta subisce invece la totale autodistruzione, e non sarà più nulla [15].

3. Però, come si fa a negare che esiste un castigo eterno (l’inferno) se solo si legge il finale della parabola del grande banchetto? In questa parabola in cui i primi invitati declinano l’invito con scuse varie e sono sostituiti da una seconda ondata di chiamati nelle strade, non sembra che l'uomo entrato nella sala del banchetto senza veste nuziale si auto-escluda, si autodistrugga, visto che viene cacciato fuori dal re: «legategli le mani e i piedi e gettatelo fuori nel buio, ivi sarà il pianto e lo stridor di denti» (Mt, 22, 13).

Per prima cosa c’è da dire che lo strano finale che Matteo mette alla parabola, sull’invitato entrato senza il vestito della festa (Mt 22, 11-14) è, secondo alcuni autori, un’aggiunta redazionale [16], che ha una chiara intenzione esortativa, al pari della descrizione della fine che fa il servo infedele (Mt 24, 50s.). Però l’interpretazione più comune è che questa parabola non sia tanto un’esortazione a vestirsi bene (anche perché è difficile immaginare che tutti quei cattivi e buoni trovati per strada e invitati all’ultimo secondo fossero adeguatamente vestiti), quanto un richiamo nei confronti di coloro che ormai già si consideravano partecipanti ufficiali al banchetto del regno, per scoprire alla fine che non lo sono.

Naturalmente se si prende il racconto alla lettera, siamo davanti a un vangelo terribile: la festa doveva essere per il figlio del re che si sposava (nulla si dice della sposa, che sembra un inesistente ectoplasma). Però quella che si presumeva essere una festa di allegria e di gioia si trasforma in uccisioni e in distruzione di città. Sarà difficile dimenticare una simile festa di nozze, e si deve dubitare che il figlio abbia potuto essere sereno, contento e si sia divertito. Traspare solo il volto di un re terribile e vendicativo, viene cioè cancellata completamente l’immagine del Dio misericordioso [17].

Ma se diamo un’altra spiegazione, diversa da quella letterale, l’episodio del banchetto chiarisce meglio che l’offerta d’amore di Dio è per tutti, sì che non c’è nessuna persona che si possa sentire esclusa dall’amore di Dio: il re invita le persone altolocate, le persone ricche, che restano indifferenti e non intendono partecipare; poi le sostituisce con tutti, anche i cattivi e non solo i buoni. Ma una volta che uno ha accolto l’invito, cioè questo amore di Dio (entrando nella sala del banchetto), è chiaro che il suo comportamento deve cambiare.

Come spiega il biblista Armellini, l’uomo che non indossa la veste nuziale è colui che, pur avendo aderito all'invito di entrare nella comunità cristiana ed essersi fatto battezzare (al battesimo sin dai primi cristiani veniva consegnata una veste bianca [18] che veniva indossata dopo l’immersione), continua a vivere come prima e perciò col suo comportamento dimostra di non aver aderito in realtà alle novità portate da Gesù. Se facciamo questo collegamento col battesimo viene naturale pensare che si tratti di un’aggiunta redazionale; ma a prescindere da questa considerazione, lo stico (cioè questo verso delimitato) ci sta comunque dicendo che anche colui che crede di essere ormai salvo perché si considera un seguace di Gesù, e perché fa parte del secondo gruppo di invitati, se non si comporta come vero seguace non entrerà nel regno di Dio (qui equiparato a un banchetto). Altri interpretano il passo nel senso che la veste adeguata, l’unica che permette di sedere alla mensa del Padre, è la veste immaginaria che indossano le prostitute e i ladri pubblicani, in quanto si sono convertiti. Poco prima Gesù aveva detto che prostitute e pubblicani sono già passati avanti agli altri nel regno di Dio (Mt 21, 31). Ma quelli che non modificano la propria mentalità, e quindi il loro modo di rapportarsi col prossimo, sono esclusi dal banchetto gioioso, sono ributtati a prima della creazione del mondo, fuori, fra le tenebre che imperavano prima di essere vinte dal potere di Dio [19]. La luce splende nelle tenebre (Gv 1, 5), ma chi non accoglie la luce resta per sua scelta nelle tenebre: non occorre che un altro lo cacci.

Per fare un esempio più concreto: se, come si è visto altre volte, Dio pur vedendo la situazione tragica del peccatore lo perdona sempre completamente, come può costui rifiutare di perdonare l’altro? È necessario entrare in questa mentalità per essere ammessi alla mensa del Signore. Questa interpretazione trova conferma nella parabola del servo spietato (Mt. 18, 21-35) [20]. Ed è questa la chiave di lettura anche per la mancanza dell’abito [21]. In altre parole, una volta che si accoglie questo amore gratuito e divino, questo amore deve manifestarsi nel nostro atteggiamento. Io non posso pretendere per me il perdono, ma poi essere incapace di perdonare l’altro [22]. Se non perdono l’altro, sono io che, col mio comportamento da falso cristiano sto dando scandalo; sono io che prego il Padre Nostro ma non lo applico (rimetti a noi i nostri debiti, come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori [23]), e sono sempre io in realtà ad autoescludermi dal banchetto al quale sono stato invitato.

La conclusione del gran banchetto (Mt 22, 1-10; Lc 14, 15-24), che già nella Bibbia era il simbolo della pienezza della vita in Dio (Is 25, 6) indica perciò che ci sono due modi d’intendere la vita. La maniera di chi pensa esclusivamente ai propri interessi e questo è ciò che orienta e determina le sue decisioni e i suoi comportamenti (per cui declina ogni offerta di cambiamento). Oppure la maniera di coloro che hanno come prima e determinante motivazione quella di essere felici condividendo questa felicità con altri (questa dovrebbe essere l’atmosfera di un banchetto nuziale). Non si può allora pretendere di ricevere l’eucaristia e nel contempo non scegliere di essere pane per gli altri; è cioè necessario intendere la propria vita quotidiana come qualcosa da consumare interamente per gli altri e non come qualcosa da trattenere tutta per sé: “Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro” (Mt 7,12; Lc 6,31). Solo coloro che si spendono come pane per gli altri incontrano Dio. Quelli che trattengono per sé non lo incontrano. E da questo angolo visuale emerge un punto fondamentale: il racconto non menziona per niente argomenti o motivazioni di ordine religioso. Godere di un buon pranzo è un’esperienza secolare e laica che, di per sé, non ha nulla di sacro o religioso. È chiaro che Gesù ci spiazza, perché ci apre cammini d’incontro con Dio che mai avevamo sospettato, visto che per incontrare Dio ci indirizza verso il profano, non verso il sacro.

Dobbiamo poi sempre ricordare che i vangeli non sono semplicemente libri che narrano una storia, bensì sono racconti che trasmettono un messaggio religioso. Per di più occorre tener presente che il linguaggio semitico usava normalmente toni molto forti ai quali noi non siamo abituati: basta pensare a “chi non odia suo padre, sua madre…” (Lc 14, 26). Impossibile visto che lo stesso evangelista aveva detto in precedenza che Gesù invitava ad amare perfino i propri nemici (Lc 6, 27). Senza questo approccio non si potrà mai intendere correttamente il testo, e resterà nella propria testa l’immagine di un Dio terribile.

Qualcuno obietterà ancora: ma nemmeno si auto-squarta il servo infedele che fa i comodi suoi: è il padrone che, tornato all'improvviso, «lo farà a pezzi e gli assegnerà la sorte degli ipocriti; ivi sarà pianto e stridor di denti» (Mt, 24, 51): quindi Dio sarà anche misericordioso, ma alla fine punirà con giustizia terribile. In effetti, in quella cultura, era opinione diffusa pensare che chi si comporta male dovesse essere ferocemente punito: perfino gli stessi sacerdoti, di fronte alla parabola dei vignaioli malvagi che uccidono il figlio del padrone della vigna, riconoscono che il padrone li farà perire malamente (Mt 21, 41). Vendetta, non perdono.

Invece in tutte queste parabole, anche in questa del servo infedele, come in quella dei vignaioli e del grande banchetto, il succo è sempre lo stesso, anche se alcune volte viene espresso con toni apocalittici. Il messaggio religioso che viene trasmesso oggi è: se curi solo il tuo interesse, se non cambi comportamento e non cominci a pensare agli altri, sei sempre tu che causi la tua auto-esclusione e finisci con l’annientarti. In passato il messaggio veniva invece espresso con l’idea che sarebbe stata l’ira di Dio ad annientarti, perché si guardava di più alla lettera del testo.

Se infine qualcuno obietta che non si può uscire dall’interpretazione letterale (che descrive un re-Dio tremendo), ricordo che il concilio Vaticano II [24] consiglia un approccio anti-testualista ai testi sacri, quando precisa che: «cresce infatti la comprensione, tanto delle cose quanto delle parole trasmesse, sia con la contemplazione e lo studio dei credenti che le meditano in cuor loro (cfr. Lc 2,19 e 51), sia con la intelligenza data da una più profonda esperienza delle cose spirituali, sia per la predicazione di coloro i quali con la successione episcopale hanno ricevuto un carisma sicuro di verità». In altri termini sono ben possibili interpretazioni evolutive delle “parole trasmesse”, grazie all’approfondimento personale di tutti, attraverso varie forme di comprensione: dalla contemplazione, allo studio, all’esperienza e al ruolo specifico dell’autorità, chiamáta per propria funzione a rispondere alle nuove sfide. Se l’interpretazione fosse obbligatoriamente limitata alla lettera del testo, papa Francesco non avrebbe mai potuto sostenere che la guerra giusta e la pena di morte sono intrinsecamente sbagliate [25], perché la lettera parla di efferate uccisioni di persone che si sono comportate male, e la lettera è a sua volta supportata da una secolare tradizione della Chiesa.

Dario Culot

[1] Morti seppellitori di morti sono coloro che non accolgono pienamente il messaggio di Gesù: nessuna scusa regge davanti alla chiamata. Seppellire i morti dispensava secondo la concezione farisaica praticamente da tutti gli altri obblighi della legge (Schillebeecks E., Gesù, la storia di un vivente, ed. Queriniana, Brescia,1976, 222).

[2] Castillo J.M., La laicità del Vangelo, La Meridiana, Molfetta (BA), 2016, 48, 103s. Cfr. anche il mio articolo Dio, patria e famiglia, al n. 544 di questo giornale, https://sites.google.com/site/ilgiornaledirodafa20201/numero-544---16-febbraio-2020.

[3] La sicurezza è seducente, l’insicurezza fa paura: gli ebrei tornano sotto l’ala di un Dio teistico dopo essere scappati dal faraone: la libertà è troppo dura, anzi desiderano spesso tornare in Egitto (Es 14, 10.12). Il Dio teistico punisce le trasgressioni ai suoi comandamenti. Di fatto è la comunità che punisce il trasgressore, e giustifica le proprie azioni rivendicando il comando divino. Le qualità personali (esigente, punitivo) diventano valori comunitari, elevati all’ambito divino (Spong J.S., Un cristianesimo nuovo per un mondo nuovo, ed. Massari, Bolsena, (VT), 2010, 118ss.).

[4] Diceva il teologo Tillich: chi già possiede Dio non lo aspetta (richiamato da Salas L., Una fede incredibile nel secolo XXI, Massari, Bolsena (VT) 2008, 38).

[5] Pensiamo a quanti sono convinti che solo la messa tridentina sia l’unica vera messa, dove si parla latino che ormai pochi comprendono, dove si sposta il messale a destra e a sinistra senza che nessuno sappia il perché, ecc.

[6] Sal 81, 12s: “…il mio popolo non ha ascoltato la mia voce…l’ho abbandonato alla durezza del suo cuore, che seguisse il proprio consiglio!”

[7] Cupini A., Nuove prospettive di vita religiosa, relazione tenuta il 29.2.2012 al Centro Veritas di Trieste.

[8] Bettini M., Contro le radici, ed. il Mulino, Bologna, 2012.

[9] Ogni evangelista ha espresso la sua esperienza e la sua ispirazione, con l’aggiunta di “zavorra umana” dovuta ai suoi limiti anche culturali, e ogni comunità che ascoltava e recepiva queste parole con la sua cultura, poteva venir “toccata” in maniera diversa dal contatto con la Scrittura.

[10] Sui vari modi di pensare al proseguimento della vita dopo la morte, a cominciare dal più vecchio schema dello Sheol, dei solo buoni che riprenderanno anche il loro corpo del passato, poi di tutti (buoni e cattivi) affinché tutti siano giudicati e ricevano la punizione o il premio nel giudizio finale, si rinvia a Schillebeeckx E., Gesù, la storia di un vivente, ed. Queriniana, Brescia,1976, 545ss. Ma pensiamo anche che, nella cultura di allora, Dio viveva in alto nei cieli, tanto che Gesù ci ha insegnato: “Padre nostro, che sei nei cieli…”.  Oggi, nella nostra cultura, Dio non vive nello spazio, per cui non ci può essere alcuna “ascensione” per raggiungerlo.

[11] Per il giudeo aramaico non esiste la dicotomia anima-corpo e l’uomo è intero; il morto si trova in un'esistenza spettrale nel regno dei morti: una redenzione divina da lì si chiama resurrezione. Dio è in grado di far rivivere i morti, con un ritorno alla vita terrena. Non a caso molti pensavano che Gesù terreno fosse il Battista risorto (Mc 6, 14; Lc 9, 7-9).  Ad es. era comune pensare che gli ingiustamente uccisi (per la loro obbedienza alla Torah) sarebbero stati richiamati in vita, perché a torto essa era stata loro tolta. Sui vari modi di pensare al proseguimento della vita dopo la morte, vedi precedente nota 10.

[12] Cfr. il Credo a p. 336 del Catechismo Maggiore promulgato da san Pio X, ed. Ares, Milano, ristampa 2006.

[13] L’inferno è il luogo dove “il fuoco inestinguibile roderà e brucerà il corpo di fuori; i vermi di dentro roderanno e bruceranno il cuore” (Papa Innocenzo III, De Contemptu mundi (Il disprezzo del mondo), Cantagalli, Siena, 1970, Libro III, 111).

[14] Notevole come Nietzsche abbia colto la mentalità di coloro che apprezzano il Dio che manda all’inferno: “Non giudicate!” loro dicono, ma spediscono all'inferno tutti quelli che intralciano a essi il cammino (Nietzsche F., L'Anticristo, Adelphi Milano 1995, §44, p.59).

[15] Ovvio che questa concezione – ad es. sostenuta da Schillebeeckx - della distruzione da parte di Dio degli empi è inadeguata al concetto dogmatico cristiano, così come insegnato e interpretato dalla Chiesa più conservatrice (Cavalcoli G., L’inferno esiste, ed. Fede&Cultura, Verona, 2010, 88), che preferisce il Dio che incute paura. Come detto, tutte sono solo ipotesi e non certezze, perché del trascendente non abbiamo alcuna informazione assolutamente certa.

[16] L’allontanamento dell'uomo mal vestito è estraneo al racconto originale (Schillebeeckx E., Gesù, la storia di un vivente, ed. Queriniana, Brescia,1976, 165).

[17] Il fatto che la festa di nozze (il banchetto) sia pronta e che gli invitati non vengano, rifiutino (e quindi non sono degni – Mt 22, 8) va letta – secondo altra interpretazione,- come condanna al popolo d’Israele che non ha accolto Gesù (Gv 1, 11: i suoi non lo hanno accolto), e come nella parabola dei vignaioli omicidi, il regno sarà tolto al popolo che si considerava eletto e sarà dato ad altri (Mt 21, 43). L’uccisione dei servi da parte di coloro che rifiutano l’invito (Mt 22, 6) richiama l’uccisione dei servi da parte dei vignaioli (Mt 21, 35), i quali uccidono il figlio, che può essere visto come Gesù. Nel caso dei vignaioli omicidi segue l’ira del padrone della vigna, qui l’ira del re. Se poi teniamo presente che Matteo scrive per gli ebrei (Ratzinger J-Benedetto XVI, Gesù di Nazareth, ed. Libri Oro Rizzoli, Milano, 2008,127), ecco che questa descrizione dell’uccisione degli assassini e della distruzione delle città può essere un’allusione alla distruzione del tempio di Gerusalemme avvenuta nel 70 d.C. a opera dei Romani. È possibile dunque che Matteo abbia letto questo avvenimento funesto, realmente accaduto, come un vero castigo di Dio nei confronti del suo popolo che non ha voluto accogliere il messaggio cristiano. Dio castiga? Per gli ebrei sicuramente sì. E la stessa Chiesa (interpretando Mt 27, 25) ha a lungo insegnato che gli ebrei sono stati puniti per aver ucciso Gesù, anziché accoglierlo.

[18] Sulla stessa linea Rosini Fabio (“Famiglia cristiana, n.41/2020, 99) il quale rileva che alla festa di nozze veniva donata un veste apposita e se ne deduce che quest’uomo aveva rifiutato quella veste. Non si può accedere alla festa di Dio pensando di mantenere il vestito vecchio della propria vita sballata.

[19] Gallazzi S., commento al vangelo di Matteo, in https://www.youtube.com/watch?v=kQPY37QdHqQ&feature=youtu.be.

[20] Ibidem: corrisponde ad altre parabole che esigono lo sfruttamento del talento donato. La salvezza donata diventa, per chi la rifiuta, un giudizio.

[21] Dio ha invitato mendicanti e straccioni: non può meravigliarsi che uno sia messo male. In effetti l'abito nuziale non è quello indossato sulla pelle, è un vestito nel cuore (Ronchi E., su “Avvenire, 8.10.2020). 

[22] Maggi A., Colui che viene a me io non lo caccerò fuori, conferenza tenuta a Cuneo il 10 novembre 2013, in https://www.studibiblici.it/conferenze.html.

[23] E mi piace sottolineare che se capita che un altro ci offende, quale soluzione è possibile? Gesù non menziona nessun rituale né parla di dover ricorrere a un personaggio sacro con poteri per perdonare in nome di Dio (la confessione). Basta che noi perdoniamo per primi.

[24] Costituzione dogmatica sulla divina rivelazione – Dei Verbum, del 18.11.1965, § 8.

[25] Cfr. la recente Enciclica Fratelli tutti, §§258ss.