In attesa di “Fratelli tutti”, a Bose è stato ordinato un prete

Ordinazione presbiterale a Bose - disegno di Rodafà Sosteno

Questo articolo esce nella mattinata del sabato 3 ottobre 2020, quando Francesco papa non è ancora partito per Assisi – in forma privata –, da dove firmerà il testo della sua nuova Enciclica, in cui, per ragioni di fedeltà al testo delle origini francescane che fornisce il titolo alla lettera pontificia, la sororità al momento ancora non compare nel titolo, ma verosimilmente sarà presente nel contenuto.

E tuttavia sembra sfuggito all’annotazione di qualunque osservatore ed analista un evento ecclesiale che fornisce molte indicazioni su quale possa essere il futuro ecclesiale che seguirà al 3 ottobre.

Tutti hanno parlato di Enzo Bianchi allontanato da Bose per decreto singolare della Segreteria di Stato approvato in forma specifica dal Papa, ma nessuno – salvo errore – ha commentato l’avvenuta ordinazione presbiterale di fratel Emanuele Borsotti, monaco di Bose, la domenica 20 settembre, proprio nella chiesa monastica di Bose. Ponendo mente a quanto accaduto, si tratta senza dubbio di un segno di grande vitalità della realtà fondata per appunto da Bianchi ed evidentemente la Santa Sede non ha affatto impedito di porre un simile segno di vitalità che ha conseguenze sul futuro della Comunità.

E tuttavia è pure senza dubbio un fatto assai raro nella storia del monachesimo – prima della sua clericalizzazione – la destinazione di un monaco al presbiterato, cioè al “sacerdozio” come comunemente si dice. Il monachesimo ha un’identità squisitamente laica che tanto più l’esperienza di Bose ha voluto sempre preservare.

La destinazione presbiterale di un monaco è – in tale contesto – soltanto funzionale al servizio della Comunità, non è inveramento di una vocazione individualmente avvertita e poi riconosciuta dal Vescovo. Il percorso monastico è molto diverso.

Durante la liturgia eucaristica di ordinazione, l’Arcivescovo di Palermo Corrado Lorefice ha pronunciato queste parole: «È questo il senso del mandato che ricevi stasera, carissimo Emanuele. «Per la misericordia che ci è stata usata – dice ancora Paolo – abbiamo ricevuto questo ministero, questa diakonia» (2Cor 4,1). La misericordia e la diaconia stanno l’una accanto all’altra. L’Eucaristia manda (ite, missa est) ogni discepolo, ogni donna e ogni uomo che la celebra, ad annunciare e a testimoniare l’amore ricevuto. È questa la diaconia della Chiesa e non per nulla la parola che scrive Paolo è la stessa di quella usata da Gesù in Luca: «come un diacono (os ho diakonòn) io sono in mezzo a voi» (Lc 22,27). La diaconia del Figlio e quella dei credenti nel suo nome sono la medesima cosa. Tu, Emanuele carissimo, ricevi questo pomeriggio l’unzione che fa di te un presbitero, uno cioè che presiede nella comunità celebrante il memoriale della Pasqua e che è dunque deputato a precederla e a guidarla nel «portare ai poveri la buona notizia, nel fasciare le piaghe dei cuori spezzati, nel proclamare la libertà degli schiavi, nell’annunciare la libertà ai prigionieri, nel promulgare l’anno senza fine della misericordia di Dio» (cfr Is, 61,1-2; Lc 4,18-19) per il mondo, per tutti. La parola di Isaia rappresenti la stella polare di ogni tuo atto da presbitero del popolo di Dio, non dimenticando mai – come ci ha ricordato Luca – che per essere presbiteri davvero bisogna essere neòteroi: chi vuole essere il più grande sia il più piccolo, sia il minore (cfr Lc 22,26). Ti sia fratello e icona su questa strada ‒ come suggerisce la Regola di Bose (n. 8) ‒ Francesco d’Assisi che scelse la via della minorità per essere un padre diverso dagli altri, per essere un cristiano fedele al Vangelo, sulla scia di Gesù che lavò i piedi a colui che lo tradiva. Francesco pensò e visse l’Eucaristia così: come il dono dell’ultimo, del lebbroso, del peccatore, del nemico con cui condividere le fatiche del giorno e il pane quotidiano. Perché solo rimanendo accanto all’altro da minore, da neòteros, non presupponendo nulla di sé ma ritenendo di non avere primati o diritti rispetto a qualunque compagno di strada, accettando tutti, chinandosi sulle ferite di tutti, poteva ricevere in queste esperienze semplici e radicali la grazia della salvezza: «Essendo nei peccati, troppo amaro mi sembrava vedere i lebbrosi. Il Signore mi condusse da essi…» (Testamento 1226). «Quindi ‒ come si legge nella Regola di Bose ‒ tu metterai con umiltà al servizio degli altri il tuo carisma affinché la comunità sia edificata e sostenuta» (n. 17).»

La Comunità Monastica di Bose si caratterizza, fin dai suoi inizi, per la partecipazione congiunta di monaci maschi – i “fratelli” – e monache donne – le “sorelle” – alla medesima esperienza di vita. È una “comunità mista”, secondo una descrizione corrente.

La compresenza di fraternità e sororità è peraltro atta a far sorgere una nuova “nuzialità”, inedita, persino temibile alla luce di certo compassato devozionismo diffuso anche negli ambiti degli istituti religiosi, dove l’Altro e l’Altra possono tessere forme ed espressioni di comunione reciproca che non esclude la quotidianità di chi, fuori da un monastero, condivide le giornate con una moglie, un marito, un compagno, una compagna, dei figli e delle figlie.

Il ministero presbiterale di un monaco di Bose, proprio per la sua assoluta eccezionalità e singolarità, è capace di far parlare, in trasparenza, in controluce, il senso del servizio liturgico di presidenza nei confronti di ogni sororità e fraternità. Come sanno quanti vanno a Bose, il presbitero, durante la celebrazione eucaristica, si posiziona in fondo, dietro la Comunità dei fratelli e delle sorelle, frequentemente non legge il vangelo e non tiene l’omelia, ma assicura quel minimo – e non quel massimo – che testimonia un’autorità apostolica nel contesto assembleare, che sintetizza cioè in un’unica persona, ordinata, ciò che ognuna ed ognuno è per fede battesimale.

Il prete monaco di Bose è il capovolgimento esatto del prete del modello tridentino, va detto e riconosciuto senza paura. Ed è la traduzione, invece, del modello conciliare di presbitero.

Ora attendiamo che, questo pomeriggio, Francesco papa incoraggi la strada dell’affratellamento, maschile e femminile – ci mancano persino le parole, i termini – alla scuola del Vaticano II.

Buon Sabato.

 

Stefano Sodaro