Perché la teologia della liberazione non è la teologia progressista

Statua di monsignor Oscar Romero sulla facciata esterna dell'Abbazia di Westminster

- foto tratta da commons.wikimedia,.org

 

Accade spesso di avvertire una sorta di delusione in chi, guardando all’elaborazione teologica che proviene dal – o meglio dai – Sud del Mondo, ritiene come depotenzianti quelle istanze a fronte delle urgenze, di colorazione nettamente rivendicativa, avvertite dalle teologie contestatrici del Nord del medesimo Mondo. Come se ci fosse una rottura in una linea di presunta continuità di pensiero. Ma è proprio tale presunzione a fare problema.

Lo stesso magistero pontificio di Francesco è stato percepito come interrompentesi nelle sue logiche conseguenze davanti ad affermazioni proprie delle sensibilità teologiche progressiste di contesti europei o comunque segnati dai fermenti moderni e postmoderni.

L’interruzione esiste, è effettiva, e corrisponde alla dialettica, non ricomposta né forse ricomponibile, tra “io” e “tu”. Dove l’io è l’affermazione delle mie attese, dei miei desideri, dei miei progetti e il tu è invece completo decentramento rispetto a tale prospettiva, è apertura al darsi, all’uscita da sé, alla cura per l’altro, che non è alienazione perché fa anche dell’io un tu per me stesso. Capisco cioè l’alterità del mio io nella misura in cui comprendo la radicale alterità del tu.

Qui c’è un passaggio che crea davvero una spaccatura tra la metafisica della soggettività, tutta propria della teologia progressista – anche quando afferma di voler combattere ogni evocazione sacrale pensata a se stante –, e l’ineffabilità di una ex-stasi, di un sovvertimento della soggettività, che l’alterità dei Sud della Terra pone come un interrogativo, una domanda, davanti cui ammutolire.

È certamente vero che, in quei mondi, veri universi pluriversi sempre più sconosciuti, esiste pure una “metafisica del noi” piuttosto problematica per le nostre categorie personalistiche se non individualistiche, ma è anche vero che quel “noi” non è il nostro “noi”, che si configura quasi sempre come un affastellamento di tanti “io” senza giungere ad alcuna sintesi di alterità. Le questioni identitarie, sino ai cosiddetti sovranismi, sono infatti faccende proprie del nostro “noi”, anche quando i “noi” dei Sud della Terra sembrano ritagliarsi su perimetri etnici o territoriali.

L’uscita da sé, propria dell’atteggiamento di cura, di dedizione, non può avvenire a costo dell’espropriazione dell’io, si ritiene comunemente.

Ed in un simile orizzonte chi non è capace di portare avanti la battaglia del proprio “io” è da accantonarsi e finisce dimenticato: il malato, l’anziano, il bambino, l’adolescente, il single che cerca prossimità, il disabile, il carcerato condannato a seguito di sentenza, la vittima di violenza, lo straniero, il malato psichico, il dipendente da sostanze o altri vincoli soverchianti. La teologia della liberazione invoca per costoro liberazione, la nostra teologia progressista tende a dimenticarli. La nostra elaborazione teologica è spesso additiva, cioè lotta perché a riconoscimenti ancora parziali della dignità dell’io si sommino sempre più completi riconoscimenti; l’elaborazione teologica liberazionista è invece costantemente associativa, dove conta di più tenere conto del passo incerto di chi non ce la fa piuttosto che dell’energia vincente del proprio. In altri termini, la prima è performativa, la seconda inclusiva. Perché esiste uno iato tra cultura performativa e cultura dell’accoglienza. L’immagine dell’ “ospedale da campo”, molto presente nel già menzionato magistero di Francesco papa, crea qualche insuperabile imbarazzo proprio per questo.

Vale la pena leggere Dietrich Bonhoeffer.

«Nell’ultima conferenza c’era una parola che potrebbe non essere stata pienamente compresa: il cristianesimo sarebbe in fondo amorale; ovvero il cristianesimo e l’etica inizialmente non sono correlati, ma fortemente separati. E perché? Perché il cristianesimo parla dell’unica via di Dio verso l’uomo, per l’amore misericordioso di Dio per gli empi, i peccatori e perché l’etica della via dell’uomo verso Dio, dell’incontro del Dio Santo con l’uomo santo, perché nel messaggio cristiano il discorso è sulla grazia e nell’etica sulla giustizia.

Ci sono innumerevoli vie dell’uomo verso Dio, quindi ci sono innumerevoli etiche, ma esiste una sola via di Dio verso l’uomo, e questa è la via dell’amore in Cristo, la via della croce (…). La questione del cristianesimo non è la questione del bene e del male nell’uomo, ma se Dio vuole essere misericordioso o no. Il messaggio cristiano va oltre il bene e il male; e deve essere così; perché se la grazia di Dio fosse resa dipendente dall’uomo secondo il bene e il male, allora di nuovo sarebbe fondata una pretesa dell’uomo verso Dio, ma con essa sarebbe intaccato il potere e l’onore che sono solo di Dio.

È profondamente complesso che nell’antica storia del peccato la causa della caduta sia il mangiare dell’albero della conoscenza del bene e del male. La comunione originale – diciamo filiale – dell’uomo con Dio è al di là di questa conoscenza del bene e del male, conosce solo una cosa, l’amore infinito di Dio per l’uomo.

La scoperta dell’al di là del bene e del male non appartiene affatto quindi al nemico del cristianesimo, F. Nietzsche, che su questo punto polemizza contro la morale ipocrita del cristianesimo, ma fa parte del patrimonio originario, certamente dissipato del messaggio cristiano.»

Lo sconcerto davanti a simile parole, pur commoventi ed intensissime, può portare ad una domanda che lo stesso Bonhoeffer si pone.

«Se l’argomentazione finora è corretta, la conclusione sembra essere abbastanza chiara: il cristianesimo e l’etica non hanno nulla a che fare l’uno con l’altro; non esiste un’etica cristiana, non c’è alcuna transizione dell’idea del cristianesimo all’idea dell’etica. Eppure, è evidente che qui arriviamo su un binario sbagliato. (…) Perché, allora, tutto il Nuovo Testamento, tutto il Vangelo, è pieno di regole apparentemente etiche? Che cosa c’entra, allora, il Discorso della montagna (…)?».

La risposta arriva qualche pagina dopo.

«Questo è il grande rinnovamento morale da parte di Gesù, l’abolizione dei principi, delle norme, con le parole bibliche della Legge (…); perché se ci fosse una legge universalmente valida, se ci fosse una via dell’uomo verso Dio, avrei i miei principi (…), (…) disporrei in un certo qual modo della relazione con Dio, così ci sarebbe un agire morale senza un immediato rapporto con Dio; ma ciò che è decisivo, è che allora divento nuovamente schiavo dei miei principi, rinunciamo al bene più prezioso dell’uomo: la libertà. Quando Gesù pone l’uomo direttamente alle dipendenze di Dio, nuovo e diverso in ogni attimo, restituisce all’umanità il dono più formidabile che ha perso: la libertà.»

Le citazioni sono tratte da “Questioni fondamentali di un’etica cristiana. Conferenza per la comunità di Barcellona, 8/02/1929”, in D. Bonhoeffer, Con i piedi per terra. Un cristiano di fronte a Dio e allo Stato, Figlie di San Paolo 2020, pp. 162, 163 e 166.

Martin Buber, all’inizio del suo Due tipi di fede. Fede ebraica e fede cristiana, scrive (in Op. cit., Edizioni San Paolo 1995, p. 84): «Lo si è visto: stando a quanto egli stesso afferma nel Discorso della montagna, Gesù ritiene che la Torà può essere adempiuta e non soltanto nel suo tenore letterale, bensì anche in conformità con quanto originariamente intendeva la rivelazione. La prima parte di questo asserto Gesù l’ha in comune col Giudaismo farisaico; quanto alla seconda, l’uno incontra continuamente l’altro su singoli punti. Si incontrano solo su punti non collegabili in una linea continua perché per i farisei l’adempibilità attuale della Torà, la sua adempibilità diciamo avvallata dall’esperienza, nel senso del «per quanto tu puoi qui e ora, impegnando tutto te stesso», è ben più di una posizione, è l’aria che respirano. Per Gesù l’uomo adempie la Torà quantum satis allorché fa tutto quello che il cuore di Dio si aspetta da lui; i farisei, quando giungono al punto più alto del loro insegnamento, insegnano sulla base della Scrittura («con tutte le tue forze») che Dio si aspetta che tu adempia la Torà secondo quello che sei e secondo quello che puoi; che nell’adempiere la Torà «tu orienti a lui il tuo cuore»: non di meno, ma anche non di più – l’uomo cominci ad amare, e allora sperimenterà ogni giorno di nuovo se e come egli sia capace di amare.»

Insomma, sia in Bonhoeffer sia in Buber, la centralità del “tu” mostra i piedi d’argilla del gigante “io”.

L’etica si muove dentro un assetto sostanzialmente contrattuale: il “tu” deve corrispondere all’ “io”, l’ “io” avanza richieste al “tu” dal quale attende risposte. La prospettiva liberazionista è completamente rovesciata. Il “tu” fonda la dignità dell’ “io”. Ed è abbastanza evidente che, sempre all’interno di tale prospettiva, opzione credente e passione d’impegno laico, civile, non possono essere scisse, si richiamano costantemente.

I giuristi direbbero che l’etica è “sinallagmatica”, io devo/tu devi, prestazione/controprestazione, mentre la cura per l’altro è del tutto unilaterale e nella perdita trova il senso.

Dal Sud è interpellata la nostra attitudine a scardinare luoghi comuni di pensiero, sia esso religioso oppure no, che invece di liberarci ci schiacciano in adorazione del nostro io.

Asciugando la lacrima di chi, anche magari assai giovane e che non crede più nei doni portati oggi – 6 dicembre – da San Nicolò, non trova più un significato ed un progetto da dare alla propria vita, si riassapora la gioia della libertà.

Buona domenica.

 

Stefano Sodaro