Diaspore dell’essere, farmaci contro antagonismo e solitudine

La morte è in agguato 

- foto di Thomas Bresson durante la manifestazione davanti alla Prefettura di Belfort in Francia lo scorso 24 ottobre - 

tratta da commons.wikimedia.org

Altro è il dissenso, altro l’antagonismo.

Altro la politica, altro l’antipolitica.

Altro la bonomia, altro il voler bene.

Altro la buona creanza, altro la passione.

Altro l’amore, altro la simpatia.

Altro il ritenersi a posto, altro il mettersi in discussione.

Siamo, non tanto lentamente peraltro, giunti e giunte al momento in cui l’antagonismo si trasforma in posa narcisistica di autocompiacimento, in postura di godimento – abbastanza sconcia - dei propri brandelli di verità fatti sventolare come drappi di vittoria.

Ma vittoria su che? Non di certo sulla solitudine, non sulla malattia, non sulla rabbia verso la vita, il mondo, gli altri, gli insuccessi, gli amori sbagliati, le occasioni mancate e chissà quant’è lungo l’elenco.

Le bandiere si issano sui balconi dei palazzi.

Ma oggi, adesso, per capire qualcosa di ciò che sta accadendo, bisogna andare in periferia, non restare al centro. Andare laddove pochi stendardi sono esposti.

Eppure una simile ovvietà viene avvertita come un insulto.

Facciamo un esempio che rimane dentro il campo consueto di nostra riflessione: chi potrà mai credere che le sorti della Chiesa Cattolica si decidano a Roma, in Vaticano? Sì, ovvio, ça va sans dire: lì, a Roma, ci sono i vertici dell’intero assetto ecclesiastico mondiale. Ma per cavarne qualcosa: 1) bisognerebbe penetrare nei meandri delle sacre stanze e non restarne fuori a vagliare le soffiate di qualche fonte di seconda mano, 2) bisognerebbe sapere che, per quanto ci si arrabatti in canoni, articoli, provvedimenti e pronunciamenti, le comunità vivono di vita proprio assai distanti dal presunto centro. Perché è la nostra stessa vita a dover essere ormai decentrata, pena – appunto – una invincibile solitudine.

L’antagonismo sembra l’urlo disperato della solitudine che diventa livore, reagisce, inveisce, non accetta verità evidenti sbraitando di esserne l’unico portatore sano e resta, però, intrappolato dentro un’angoscia metropolitana da ricorrenti statistiche serali della Protezione Civile.

Prendiamo fiato.

Il lavoro di ognuna e di ognuno, il lavoro quotidiano, è funzionale a che cosa? A chi? Formuliamo la domanda in altro modo: si vive per sé e basta o si vive per gli altri e non basta?

L’insoddisfazione, il non ritenere raggiunto mai alcun risultato definitivo su cui gongolare, sono gli stimoli necessari per focalizzare di continuo il senso della propria vita. Di sicuro del proprio impegno civile.

Sono, insoddisfazione e ricerca, adoprando altro linguaggio, una benedizione e non una maledizione.

Ma se l’orizzonte dell’alterità sparisce ed assorbente d’ogni attenzione – per dire – diventa il colore dei propri calzini o il bottone della camicia da aprire oppure da tener chiuso, mentre il mondo sta collassando, ecco, l’apocalisse si compie: cadono i veli dagli occhi, la rivelazione finalmente compare. Ed infatti viene, in alcuni casi, proprio invocata la necessità di salvataggio della – il termine usato è testuale - “pellaccia”. “Si salvi chi può”, pertanto prima di tutto io.

Non sappiamo che cosa ci attendano le prossime ore, i prossimi giorni. Il sentimento di incapsulamento dentro l’emergenza, facendovi naufragare ogni speranza – “perché tanto non c’è niente da fare” -, diventando altresi i massimi esperti mondiali in ogni tipologia di tampone non si sa bene a che pro, rischia di apparentarsi alla strafottenza negazionista di chi delira di complotti e cospirazioni e progetti di dominio universale, contro l’evidenza di decessi, sale di rianimazione in overflow, lacrime, paure, corse in autoambulanza

In mezzo stanno le nostre vite.

Che sono vite “in diaspora” comunque la si metta e la si veda.

Siamo in grado di annunciare, dalle righe del nostro settimanale, che con questa domenica 1 novembre 2020 l’Associazione culturale “Casa Alta” avvia concretamente il proprio percorso di rifondazione che attraverserà tutto il 2021, almeno sino all’ottobre del prossimo anno, quando – in concomitanza con la settimana della regata Barcolana (che si terrà domenica 10 ottobre 2021) – vorremmo organizzare a Trieste il secondo Convegno sul “Fare memoria”, assieme a tutti i soggetti e tutte le realtà associative disponibili a coinvolgersi.

In questo percorso rifondativo la nozione di “diaspora - anzi, al plurale: diaspore - dell’essere” pare riferimento potente per disegnare, abbozzare e poi esprimere nuove dinamiche culturali, che rompano i clericalismi sia dell’antagonismo, sia di un sedicente realismo che non nutre più sogni e progetti.

Le “diaspore dell’essere” ci vengono additate – facciamo una scelta esemplare - dalla memoria e dall’identità dell’Ebraismo, da quella dei mondi cristiani di Armenia, Abissinia, Ucraina, dell’Anglicanesimo, del Quaccherismo, del Cattolicesimo che si espresse nella teologia latinoamericana della liberazione. Sì, è proprio una scelta simbolica, di sette identità di riferimento. Che vorremmo indagare, su cui vorremmo interrogarci, a partire dalla esperienza delle donne e delle minoranze. Per celebrare ed ascoltare le voci a lungo ignorate.

L’ispirazione proviene dal numero di aprile 2020 dei Quaderni di Diritto e Politica Ecclesiastica dedicato a “Nomos e Terra. La diaspora religiosa e il diritto”.

Per la fine di novembre, cioè di questo mese, vorremmo allestire un evento online – di cui verrà data debita informazione – iniziando da una riflessione sull’Anglicanesimo, alla luce del volume di Gianluigi Gugliermetto, socio di “Casa Alta”, appena uscito in libreria per Gabrielli Editori ed intitolato Gli Anglicani. Un profilo storico e teologico (https://www.gabriellieditori.it/shop/scienze-religiose/gianluigi-gugliermetto-gli-anglicani-un-profilo-storico-e-teologico/).

E, tuttavia, una considerazione forse amara, o amarognola, o dolorosa, o comunque non accomodante, compare quando si parla di “diaspore”: sia che si tratti di “abbandoni”, sia che si tratti di “disseminazioni”, una parte viene presa, ma un’altra abbandonata. Ci sarà chi abiterà nella diaspora e chi no, non solo per necessità, bensì pure per scelta. La scelta di non-diaspora di chi sta bene con se stesso e non abbisogna di alcuna uscita da sé.

Il confine tra vita e morte – che il mese di novembre giù di suo evoca e che in tempo di pandemia è come presenza parallela di ogni nostra azione – è meno marcato di quanto si possa pensare, giacché è vero che “ci sono morti più vivi dei vivi e vivi più morti dei morti”.

Le “diaspore dell’essere” ed una visione esistenziale diasporica forniscono le coordinate per una elaborazione culturale inedita, persino, osiamo dire, per una nuova antropologia.

Il terrorismo di matrice fondamentalista ha portato morte a Nizza nei giorni scorsi. Cos’è il fondamentalismo religioso? Perché si trattiene il sostantivo ma si elide l’aggettivo? Che cos’è la laicità? Dove si apprende? Chi la insegna? Il grido di chi crede di uccidere in nome di Dio trasforma in urlo di morte la voce di chi stava pregando Dio. Che cos’è la preghiera? Perché l’inermità, persino “l’inutilità” della preghiera, diventa tema fastidioso per i commentatori che si ergono a politologi? Cosa significa “pregare”?

Ecco di tutto questo “Il giornale di Rodafà” e l’Associazione culturale “Casa Alta” – di cui il sottoscritto è presidente – vorrebbero farsi carico. Laicamente. Senza pre-giudizi che maledicano le istituzioni religiose per il solo fatto di esistere, o che le applaudiscano sempre e comunque perché infallibili senza dubbio possibile.

Andiamo avanti dunque, con fiducia. 

E con un sorriso. 

Arrabbiarsi e digrignare i denti è solo spreco di energia, conserviamola per i baci che daremo.

Buona domenica.

 

Stefano Sodaro