Conversione singolare o collettiva?

Giudizio Universale, Ercole Ramazzini, 1597, Collegiata di San Medardo, Arcevia (AN)

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Nel secolo scorso, il grande teologo Adolf von Harnack nelle sue lezioni su L’essenza del cristianesimo (Lezione Terza, 100s) ha scritto: “Il regno di Dio viene, in quanto viene in singoli uomini, trova accesso alla loro anima ed essi lo accolgono. Il regno di Dio è la signoria di Dio, certo, ma è la signoria del Dio santo nei singoli cuori”.

La fede, dunque, è una scelta personale, per cui nessuno può sostituirsi a un altro. Papa Benedetto XVI sembra aver concordato con questo indirizzo quando afferma che, a differenza di quanto avviene in campo tecnico o economico dove i progressi di oggi possono sommarsi a quelli del passato, nell’ambito della formazione e della crescita spirituale delle persone “non esiste una simile possibilità di accumulazione, perché la libertà dell’uomo [1] è sempre nuova e quindi ciascuna persona e ciascuna generazione deve prendere di nuovo, e in proprio, le sue decisioni. Anche i più grandi valori del passato non possono semplicemente essere ereditati, vanno fatti nostri e rinnovati attraverso una, spesso sofferta, scelta personale” [2].  Dunque ogni singola persona parte sempre da zero, sia che la sua famiglia fosse credente, sia che fosse atea. Questo significa che la fede non si integra nella persona per contagio culturale come la religione [3], ma richiede un’adesione personale (n. 150 Catechismo), una scelta individuale, spesso anche sofferta. Nessun papa, nessun vescovo, nessun prete può fare questa scelta al nostro posto. E, soprattutto, nessuno è in grado di imporcela. Men che meno la fede piove a casaccio dal cielo sulla testa, a qualcuno sì, e a qualcun altro no. Ognuno deve vedersela con sé stesso. Dunque, fede in Dio significa aprire individualmente la propria porta e accogliere personalmente il suo dono, che viene visto come luce [4].

Se la fede è scelta personale non ereditabile dovremmo concludere che la risposta di fede è sempre personale. Tuttavia la Chiesa cattolica, al pari dell’Islam, ritiene che per essere credente praticante serva un posto dove incontrarsi e che innanzitutto occorra una comunità, avendo lo stesso Gesù creato una piccola comunità. Occorre cioè la condivisione sì che è impossibile vivere la fede in solitaria, visto che solo riunendosi in gruppo ci si può aiutare reciprocamente e mantenere viva la fede. In effetti, secondo la Chiesa cattolica, seguire Gesù è una risposta collegata all’esperienza dei Dodici che sono stati “in compagnia” del Rabbi galileo (Mc 3, 14), hanno atteso il Paraclito (lo Spirito santo) secondo le indicazioni del Risorto (At 1, 4) [5] e sono vissuti in comunità (ecclesia o chiesa).

Per la Chiesa cattolica, poi, questa comunità deve essere gerarchicamente strutturata, e la base deve obbedire all’autorità dei capi, rappresentanti visibili di Dio in terra [6]. Sotto quest’ultimo aspetto si è molto lontani dall’Islam (sunnita), che allora è la religione più laica al mondo, perché il rapporto fra l’uomo e Dio è più diretto, e per definizione non c’è un’autorità umana, non ci sono papi o vescovi. Per i musulmani sunniti è credente colui che dà adesione volontaria ad Allah, si rimette a Lui con fiducia e segue i 5 pilastri dell’Islam [7], ma non c’è un clero cui obbedire, diversamente dal mondo sciita. Anche nella religione sikh, la quinta religione nel mondo, non c’è spazio per alcun mediatore fra l’uomo e il divino.

Ma si torna allora alla domanda fondamentale: basta aver fede personalmente, o serve una comunità? Neanche il Catechismo aiuta più di tanto nel dare una risposta, visto che da una parte (n. 166 Catechismo) afferma che la fede è un atto personale, dall’altro (nn. 168, 181) afferma che nessuno può credere da solo e che la fede è un atto comunitario (ecclesiale).

La risposta in effetti non è semplice, e all’interno dello stesso cristianesimo le impostazioni sono diverse.

Per i cattolici, solo la Chiesa consente la relazione piena con Cristo. Per i cattolici il cristianesimo è come un edificio e l’insegnamento della Chiesa realizza i piani [8]. Nella visione dei cattolici, il credente può incontrare Cristo solo nella Chiesa, perché Gesù si dà agli uomini solo attraverso la sua Chiesa e i suoi sacramenti [9]. E allora avremo una struttura piramidale: 

Gesù

Chiesa

fedele

 

Per i protestanti, invece, la Chiesa è giudicata dalle Scritture; perciò è obbligata sempre a riformarsi, perché le Scritture sempre la interpellano [10]. Secondo i protestanti, anche l’istituzione resta in secondo piano rispetto alle Scritture, e la parola di Dio annunciata dipende solo dall’azione dello Spirito santo [11]. Dunque, i protestanti, oltre ovviamente a non riconoscere il primato del vescovo di Roma, non danno alla Chiesa il valore che essa detiene nel cattolicesimo. Siamo veramente su due sponde opposte dello stesso mare. Per i protestanti solo una relazione autentica con Cristo consente la manifestazione di una vera Chiesa, sì che la comunione col Cristo ha il potere di suscitare la Chiesa. La loro visione può essere così schematizzata in un cerchio (e non in una piramide):

Gesù – fedele - Chiesa

Per i protestanti, dunque, occorre liberare Dio dall’invadenza della Chiesa. La Chiesa, intesa come la intendono i cattolici, deve essere ridimensionata. La Chiesa cioè dovrebbe annunciare il Cristo, ma poi deve fare un passo indietro e consentire ad ogni fedele di avere un rapporto diretto con Dio. La Chiesa non è la gerarchia, e la gerarchia non è la Chiesa; la Chiesa è formata da tutti i credenti, e la coscienza di ogni credente è un santuario inviolabile.

Personalmente, mi sembra che i protestanti abbiano avuto una felice intuizione dicendo che, nella fede, si è innanzitutto davanti ad una relazione personale <io e tu>, visto che Gesù chiama i suoi seguaci amici (Gv 15, 15).

Che la fede autentica non derivi da un’appartenenza collettiva [12], ma nasca e si sviluppi da un impegno personale, trova poi conferma nei vangeli che si incentrano sulla conversione del singolo, mai del gruppo. Il popolo, come comunità, non ha una funzione privilegiata, a differenza di quanto riteneva il popolo di Israele in base all’Antico Testamento [13]. Chi risponde positivamente all’offerta di amore di Dio sarà anche eletto, ma la sua comunità non diventa una comunità eletta, né si diventa eletti perché si partecipa a una comunità particolare. Dio agisce a livello di individui, quindi si può essere cristiani solo in quanto individui, non in quanto comunità; tant’è vero che il credente cattolico non si distingue dagli altri, né è migliore degli altri solo perché appartiene alla Chiesa. Sarà migliore solo se si sarà convertito come individuo e se si comporterà di conseguenza. Sicuramente – come ben si vede nella società odierna - non può esistere alcuna comunità veramente cristiana quando i singoli di quella comunità non incarnano e non diffondono i valori spirituali che Gesù ha raccomandato di praticare. Definirsi cattolico perché si va a messa non segna infatti automaticamente una diversità virtuosa [14]. Il fatto di andare a messa dimostra semplicemente che si pratica la religione, non che si è cristiani. E anche se la stessa comunità si definisce cristiana, in realtà non lo è se i singoli componenti non lo sono, o meglio, se non lo dimostrano all’esterno attraverso il loro comportamento individuale.

È impossibile, del resto, pensare di ideare nel mondo una struttura collettiva capace di rendere gli uomini più buoni in quanto gruppo. Il marxismo, che si era ribellato all’idea di una giustizia solo ultraterrena e aveva cercato la giustizia in terra, ha probabilmente fallito perché è partito proprio da questa idea utopica (a prescindere dal fatto di come poi è stata applicata in pratica). Al marxismo aveva sicuramente aderito tanta gente perbene, allevata in una fede quasi religiosa, in un culto mistico [15]. Questa fede aveva dei punti fermi, indiscutibili e incrollabili: per cominciare, vi era l’assoluta convinzione che questa fosse l’unica ideologia capace di sradicare l’ingiustizia dal mondo e liberare l’umanità da chi l’opprimeva. Come la Chiesa a un certo punto della storia considerò sé stessa l’unica società perfetta [16], così l’Unione Sovietica fu considerata come la versione terrena del paradiso. Ma a quel punto, ecco il problema: tutto quello che si opponeva al paradiso (al comunismo e all’Urss) era un nemico mortale che andava combattuto in ogni momento e con qualsiasi arma [17]. Sappiamo tutti com’è finita, e anzi questa certezza simil religiosa forse è crollata proprio perché, a un certo punto, la gente che viveva nei Paesi cosiddetti socialisti si è accorta che in nessuno di essi si era realizzato un modello soddisfacente di paradiso. Al contrario, i totalitarismi ci hanno mostrato più volte che l’utopia del progresso sfocia spesso nell’impero del terrore [18]. Lo stesso schema si era già visto nella nostra Chiesa (che per secoli ha creato terrore fra i fedeli: pensiamo all’Inquisizione) perché quando uno pretende di possedere la Verità, si arriva facilmente al totalitarismo e all’esclusione di chi la pensa in maniera diversa. Come nel marxismo, anche nella religione vi sono ancora molte persone le quali pensano di essere più buone delle altre e di trovarsi automaticamente a un livello superiore [19] per il solo fatto di essere entrate nel recinto dove si trova il gregge obbediente alla gerarchia della Chiesa, e sono altresì convinte di dover combattere in ogni momento e con qualsiasi arma coloro che sono fuori da quel recinto o all’interno scalpitano per uscire (ovverossia, non credono a ciò che esse credono), dimenticando che Gesù ha previsto che tutte le pecore possono uscire dal recinto (Gv 10, 9).

Certo, il miglioramento del singolo uomo può partire solo dalla conversione interna individuale. Si torna perciò a rimarcare che la fede comporta innanzitutto e sempre un rapporto personale fra gli uomini e Dio. Se per fede non s’intende credere all’insieme dei dogmi, o accettare come vero il contenuto della Bibbia, ma s’intende l’incontro tra un Dio che offre e l’uomo che risponde, nel caso della fede cristiana il rapporto è incentrato su Gesù, unico capo (Mt 23, 10), perché Gesù è l’unica manifestazione concreta e visibile di un Dio invisibile [20]. Fede diventa allora dare adesione individuale a Gesù, seguire con fiducia Gesù imitandone il comportamento. Pertanto, si può dire che uno ha fede non se dice di credere in Dio [21], non se dice di credere a quello che insegna la Chiesa, ma se vive e crede come Gesù. E Gesù ha aggiunto che se uno viene a lui non lo caccerà mai, e che se uno crede il lui ha la vita eterna (Gv 6, 35-40).

Pertanto, se uno ama profondamente Gesù, prova a servirlo con tutte le sue forze, ispirandosi ai suoi fatti e alle sue parole, è un credente che ha fede. Ovviamente per chi è invece convinto che fede sia solo credere all’insegnamento del magistero e obbedirgli, quell’altro che rifiuta di credere ai dogmi, o non crede che Gesù è Dio, resterà sempre un infedele. Ma in punto fede va ricordato che Gesù ha ammirato quella del centurione romano (Mt 8, 10; Lc 7, 9) o della donna cananea, persone che di sicuro ignoravano tutta questa cristologia (Mt 15, 28).

Detto questo, mi sembra però che abbia ragione anche papa Francesco quando afferma che in realtà è impossibile credere da soli [22]. Infatti la trasmissione della fede passa anche attraverso l’asse del tempo, di generazione in generazione. Tertulliano l’aveva espresso con efficacia parlando del catecumeno, che “dopo il lavacro della nuova nascita” è accolto nella casa della Madre per stendere le mani e pregare il Padre nostro, non da solo ma insieme ai fratelli, come accolto in una nuova famiglia. Dunque è attraverso una catena ininterrotta di testimonianze che arriva a noi il volto di Gesù. Non arriva perché un giorno uno si mette a leggere da solo il vangelo. L'idea che il Regno di Dio abbia a che fare solo col singolo e con l'interiorità è errata perché, per Gesù, esso deve essere ben visibile e non nascosto: tutto avviene davanti agli occhi di tutti. Non si può quindi dissociare il regno di Dio dal popolo di Dio (Mt 11, 5) [23]. Chi riceve la fede nella comunità scopre che gli spazi del suo “io” si allargano, e si generano in lui nuove relazioni che arricchiscono la sua vita.

Come è possibile questo? Come essere sicuri di attingere al “vero Gesù”, attraverso i secoli? Se l’uomo fosse un individuo isolato, se volessimo partire soltanto dall’“io” individuale, che vuole trovare in sé la sicurezza della sua conoscenza, questa certezza sarebbe impossibile. Non si può vedere da sé stessi quello che è accaduto in un’epoca così distante da noi. L’uomo vive da sempre in relazione. Viene da altri, appartiene ad altri, la sua vita si fa più grande nell’incontro con altri. E anche la propria conoscenza, la stessa coscienza di sé, è di tipo relazionale, è cioè legata ad altri che ci hanno preceduto: in primo luogo i nostri genitori, che ci hanno dato la vita e il nome. Il linguaggio stesso, le parole con cui interpretiamo la nostra vita e la nostra realtà, ci arrivano attraverso altri, preservati nella memoria viva di altri. La conoscenza di noi stessi è possibile solo quando partecipiamo a una memoria più grande. Avviene così anche nella fede. Il passato della fede, quell’atto di amore di Gesù che ha generato nel mondo una nuova vita, ci arriva nella memoria di altri testimoni, e la Chiesa è quella comunità, che – in un modo o nell’altro,- è riuscita a conservare viva questa memoria. “La Chiesa è come una Madre che ci insegna a parlare il linguaggio della fede. Giovanni ha insistito su quest’aspetto nel suo Vangelo, unendo assieme fede e memoria, e associando ambedue all’azione dello Spirito Santo che, come dice Gesù, «vi ricorderà tutto» (Gv 14, 26). L’Amore che è lo Spirito, e che dimora nella comunità (chiesa), mantiene uniti tra di loro tutti i tempi e ci rende contemporanei di Gesù, diventando così la guida del nostro camminare nella fede” [24].

A queste condivisibili parole del papa si può anche aggiungere che se la scelta fosse esclusivamente personale non avrebbero senso i sacramenti, che sono segni esteriori, visibili nella comunità. Stando a Luca (At 2, 39: discorso di Pietro a Pentecoste), ancorché la conversione personale sia pregiudiziale, occorre poi anche la comunità per vivere cristianamente: infatti è cristiano chi sceglie Gesù come suo maestro di vita, decide di diventare suo discepolo ed esprime questo col battesimo. La decisione interna è personale ed individuale, ma occorre poi anche questo segno esterno, il battesimo, la comunione, perché evidentemente Gesù ha pensato a una comunità. Infatti, Gesù ha detto che quando uno (singolo) lo ama e mette in pratica le sue parole Dio stesso abiterà in lui [25] (Gv 14, 23), ma ha anche aggiunto che dove due o tre convertiti si riuniscono nel suo nome sarà sempre presente (Mt 18, 20), facendo appunto un chiaro riferimento a una comunità, seppur piccola. Da queste parole sembra che Cristo non raggiunga l’uomo soltanto attraverso un circuito privato-individuale. Dopo la conversione individuale ci vuole inseriti nell’unico circuito più ampio, che mette in comunione noi con lui.

Insomma, si può probabilmente pensare all’umanità come a un gigantesco lampadario di Dio. Nessun uomo può custodire in sé tutta la parola di Dio. Siamo fatti per essere luce per sempre, attaccandoci alla sorgente di vita energetica divina che alimenta tutti: la presa di corrente è unica, la singola lampadina è unica e già da sola fa luce, ma il massimo dello splendore è dato dal lampadario con accese in contemporanea tutte le lampadine. Si cresce, dunque, solo nelle relazioni interpersonali, e il massimo splendore lo dà il lampadario-comunità, non la singola lampadina.

Nell’episodio dei due di Emmaus (Lc 24, 13-35) che si recano senza indugio a Gerusalemme per raccontare agli altri cos’era successo e per capire se è stato tutto vero o tutto un sogno [26], c’è chi vede l’immagine la Chiesa. Il confronto dei singoli (i due di Emmaus) con la comunità (la Chiesa) conferma ai singoli che la loro non è stata una visione. È essenziale, dunque, che il singolo si confronti con la comunità, che trasmettendo parole e grazia può far sorgere la fede nel singolo. Nell’episodio di Emmaus sono presenti questi elementi: l’amore per il prossimo (l’attenzione per il forestiero che ti passa accanto), l’ascolto della parola, l’eucarestia (lo spezzare il pane) e la comunità (la Chiesa). Tutti e quattro devono coesistere per arrivare alla vera fede.

In effetti, quando entriamo in una chiesa antica, ricca di storia, sentiamo effettivamente qualcosa che di solito non sentiamo in una chiesa appena edificata, come se solo la prima trasudasse della presenza e delle preghiere dei fedeli che sono passati di lì. Percepiamo che queste chiese sono spazi comunitari capaci di dirci qualcosa (per questo sacri?), e lo stesso capita anche in spazi di altre grandi religioni, perché è come se quegli spazi fossero impregnati della fede di tante generazioni che sono passate di là prima di noi. Ecco, allora, che la fede non si ferma ad un’avventura personale, ma assume significato nell’essere dentro, all’interno di una lunga catena di fedeltà. È come se ognuno di noi, all’interno di questa catena, potesse arricchire il soggetto vivente che è la chiesa comunità, che quindi oggi è più ricca della chiesa primitiva, più ricca di storia e di preghiera, più ricca di spiritualità e di fede proprio perché ogni credente ha lasciato agli altri qualcosa [27], in quegli spazi dedicati a Dio.

Dunque, i processi di vita si sviluppano nella persona, ma sono poi sostenuti da strutture comunitarie. Se il messaggio di Gesù mira a far crescere ogni persona, poi una persona può crescere solo nel rapporto comunitario con gli altri. Ecco perché dove c’è comunità la parrocchia è viva. Dove invece i fedeli assistono singolarmente al culto, e poi se ne vanno alla spicciolata, la parrocchia pian piano muore [28]. 

Dario Culot

   

[1] E nessuno è libero se non ha la possibilità di scegliere e se non ha conquistato il sapere che nasce dall'esperienza (Drewermann E., Funzionari di Dio, ed. Raetia, Bolzano, 1995, 262).

[2] Benedetto XVI, Lettera sul compito urgente dell’educazione, 21.1.2008, in www.vatican.va.

[3] La religiosità è innanzitutto un fatto culturale, che si insegna per contagio, come il linguaggio, come le abitudini di galateo, di abbigliamento o di gastronomia. Tutti, in un certo posto, si comportano così. Non si mangia allo stesso modo in Italia o in Marocco, in occidente o in oriente. Le abitudini sono diverse secondo la cultura, e la religione fa parte della cultura di quel posto. I bambini cattolici hanno imparato a farsi il segno della croce per imitazione, non perché sanno cosa è la Trinità; i bambini musulmani hanno imparato a inginocchiarsi verso La Mecca per imitazione; i bambini armeni, che escono dalla chiesa camminando all’indietro fin sulla porta per rispetto all’interno sacro, lo hanno imparato per imitazione. Aderire alla religione cattolica e professarsi cattolico non vuol dire ancora essere credente e aver fede: infatti il vero cristianesimo non coincide con una cultura.

[4] Enciclica Lumen Fidei, § 33, di papa Francesco. E già il neoplatonismo aveva fatto conoscere il paradigma della luce che discende dall’alto per illuminare le cose, diventando così un simbolo di Dio.

[5] Malnati E., “Simone detto Pietro”nella singolarità del suo ministero, ed. Eupress FTL, Lugano (Svizzera), 2008, 80.

[6] A somiglianza della società civile la Chiesa è retta da uomini con l’aggravante che la virilizzazione è teologicizzata, con presunzione di normativa assoluta e immutabile (Zarri A., Nostro Signore del deserto, ed. Cittadella, Assisi, 1978,  37).

[7] Cfr. l’articolo Fra i pilastri comuni delle tre religioni abramitiche, al n. 525 di questo giornale (https://sites.google.com/site/archivionumeri500rodafa/numero-525---6-ottobre-2019/fra-i-pilastri-comuni-delle-tre-religioni-abramitiche).

[8] Gounelle A., I grandi principi del protestantesimo, Claudiana, Torino, 2000, 17.

[9] Vagaggini C., Il senso teologico della liturgia, Paoline, Roma, 1965, 260: la Chiesa non è la somma dei credenti in Cristo; infatti nella Chiesa c’è in più il sacerdozio sacramentale gerarchico, includente sempre il papa, per cui non si può essere credenti se non si è inseriti nella comunità sotto il sacerdozio. Con l’Enciclica Mediator Dei del 20.11.47 di Papa Pio XII venne stabilito che: “Ricordiamo solamente che il sacerdote fa le veci del popolo perché rappresenta la persona di Nostro Signore Gesù Cristo in quanto Egli è Capo di tutte le membra ed offrì se stesso per esse: perciò va all'altare come ministro di Cristo, a Lui inferiore, ma superiore al popolo. Il popolo invece, non rappresentando per nessun motivo la persona del Divin Redentore, né essendo mediatore tra sé e Dio, non può in nessun modo godere di poteri sacerdotali”. Da ciò si dedusse che l’individuo deve inserirsi nella comunità-Chiesa solo sotto la gerarchia, non potendo altrimenti partecipare alla vita divina (Vagaggini C., Il senso teologico della liturgia, ed. Paoline, Roma, 1965, 268s.). Pio XII è stato smentito dal Concilio Vaticano II il quale ha dichiarato che siamo tutti sacerdoti (Costituzione dogmatica sulla Chiesa - Lumen Gentium § 10 - del 21.11.1964).

[10] Gounelle A., I grandi principi del protestantesimo, Claudiana, Torino, 2000, 18. Kampen D., Introduzione alla teologia luterana, Claudiana, Torino, 2011, 27.

[11] Gounelle A., I grandi principi del protestantesimo, Claudiana, Torino, 2000, 35.

[12] Gounelle A., Parlare di Dio, ed. Claudiana, Torino, 2006, 146 s.

[13] Ricordiamo, però, che già nella Bibbia vi sono spunti per ritenere che gli ebrei non sono affatto gli unici eletti: questa unicità da parte di Dio liberatore e salvatore finisce necessariamente col mettere gli eletti contro tutti gli altri. Invece in Amos già si trova: «Non siete voi per me come gli Etiopi, Israeliti? Parola del Signore. Non ho io fatto uscire Israele dal paese d'Egitto, i Filistei da Kaftor e gli Aramei da Kir?» (9,7). In ls 19,25 si preannunciano per il futuro la benedizione e l'elezione divina parimenti di Assur, dell'Egitto e d'Israele: «Benedetto sia l'egiziano mio popolo, l'assiro opera delle mie mani e Israele mia eredità». Si veda anche Ger 48,47; 49,6; 49,3 dove Dio promette di cambiare la sorte di Moab, Amman e Elam.

[14] Franco M., La crisi dell’impero vaticano, ed. Mondadori, Milano, 2013, 120.

[15] Per il cristianesimo, il tempo ha un senso: il passato è male, il presente è redenzione, il futuro è salvezza. Lo stesso avviene nella sociologia: ad es. per Marx il passato è ingiustizia, il presente rivoluzione, il futuro giustizia. Come ha detto il filosofo Galimberti, siamo davanti a forme laicizzate del cristianesimo.

[16] Nella teologia del XIX secolo e anche dell’inizio del XX si amava parlare della Chiesa come del regno di Dio sulla terra; la Chiesa era considerata come la realizzazione del regno all’interno della storia (Ratzinger J-Benedetto XVI, Gesù di Nazareth, ed. Libri Oro Rizzoli, Milano, 2008, 73s.). Dunque la Chiesa ha visto sé stessa come la società perfetta (vedi ancora art. 163 Catechismo Pio X); oggi, nessuno osa tanta impudenza, e siamo tutti convinti che non sempre la Chiesa ha dato testimonianza dei grandi valori umani e divini, e che il Regno è sempre qualcosa di più grande, che si trova sempre oltre, e sentiamo la Chiesa al più come una mediatrice al servizio del Regno (P. Casaldàliga e José M. Vigil, La spiritualità della liberazione, ed. Cittadella, Assisi, 1995, 318 s.).

[17] Pansa G., La grande bugia, ed. Sperling&Kupfer, Milano, 2006,104.

[18] Hadjadj F., Come parlare di Dio oggi?, ed. Messaggero, Padova, 2013, 144.

[19] Vedi la parabola del grande banchetto, di cui si è parlato la settimana scorsa.

[20] Ha detto fra Ernesto Balducci in una delle sue omelie (reperibile nel vol. I de Il Vangelo della pace – XXI domenica – anno A): “Noi non siamo, di fronte ai pastori della Chiesa, come sudditi di fronte ai capi. Uno solo è il nostro capo, Cristo. Uno solo è il nostro maestro, Cristo. Queste parole di Gesù (Mt 16, 13-20) sono dette perché non si trasferiscano all'interno dei rapporti del popolo di Dio le dipendenze che sono legittime nell'ambito politico e nell'ambito dei rapporti di consanguineità. Questo è un punto fermo.”

[21] Il fatto di credere in Dio e adorarlo non garantisce di vivere come a Dio piace (Enciclica del 3.10.2020 Fratelli tutti, §74).

[22] Cfr. Enciclica Fratelli tutti, § 8, del 3.10.2020: da soli si rischia di avere miraggi, per cui vedi ciò che non c’è; § 32: nessuno si salva da solo.

[23] Lohfink G., Gesù di Nazaret, Queriniana, Brescia, 2014, 65ss.

[24] Enciclica Lumen Fidei, §38s.

[25] Calvino riteneva che lo Spirito santo operasse nel cuore del lettore, facendogli così comprendere il senso del testo biblico (Kampen D., Introduzione alla spiritualità luterana, ed. Claudiana, Torino, 2013, 36).

[26] Vedi precedente nota 22.

[27] Chiesa S., omelia del 9.11.1997 nella chiesa di Madonna di Campagna (VB).

[28] “Esiste una collettività religiosa, ma non come una semplice somma di individui singoli chiusi in se stessi, bensì come una realtà che trascende i singoli: la Chiesa… L’immagine della Chiesa Corpus Christi mysticum… Questa esperienza, però, non è un’esperienza caotica… Si tratta di una collettività che dogma, liturgia e diritto hanno plasmato. Non collettività soltanto, ma comunità; non un movimento religioso soltanto, ma vita ecclesiale; non uno spirituale romanticismo, ma ecclesiale realtà ontologica”  (Guardini R.,  La realtà della Chiesa, Morcelliana, Brescia, 31s).