Tutto così chiaro sulla crisi nel Tigray?

Chiesa di Santa Maria di Sion ad Aksum, Tigray - foto tratta da commons.wikipedia.org

C’è qualcosa che non torna – un oggettivo, insuperabile, semplicismo – in molte letture ed analisi, pur anche assai autorevoli, che si possono leggere in queste ore sui fatti di Asmara, capitale dell’Eritrea, raggiunta ieri sera da tre o quattro missili caduti nella zona dell’Aeroporto, senza, sembra, avere causato danni, morti o feriti.

La logica alternativa, binaria, applicata esclusivamente all’operato del Primo Ministro d’Etiopia e Premio Nobel della Pace 2019 Abiy Ahmed Alì riesce davvero a spiegare perché il Fronte di Liberazione del Popolo del Tigray (TPLF), in guerra con il governo etiopico, lanci missili invece verso la capitale dell’Eritrea? Sembra quasi una deviazione di traiettoria indicatrice di necessarie considerazioni molto più complesse e vaste.

Anche la stampa italiana si suddivide sostanzialmente in favorevoli e contrari alle scelte strategiche che, malvolentieri oppure con celata soddisfazione, il Premier etiopico sta attuando nel suo stesso Paese in questi giorni. E l’Eritrea?

Sbrigativamente si conclude che, siccome scoppiò improvvisa nel 2018 la pace tra i due Paesi del Corno d’Africa in spaventoso conflitto sino al giorno prima, l’alleanza e la comunanza di vedute internazionali – nazionali sembra di no, in realtà – li rende ora nemico unico agli occhi di chi non ha mai goduto di felici conseguenze da tanto sbandierato irenismo.

Ma è una spiegazione soddisfacente? Nessuno ha mai compreso come mai il Presidente dell’Eritrea si sia determinato, davanti al sorriso del Primo Ministro d’Etiopia, a deporre le armi senza concessione alcuna in contraccambio. Paura o miracolo? Ma ancora: uno dei due termini spiega davvero?

E le domande si affastellano e continuano a non trovare risposte. Riproponiamo la prima: come mai un sabato sera di metà novembre del 2020, in piena crisi pandemica, il TPLF se la prende proprio con l’Eritrea?

E le altre questioni si susseguono: un attacco missilistico all’Eritrea indebolisce o rafforza il potere del suo Presidente? Da quale fabbrica provengono i missili con cui è stata colpita Asmara? Chi li ha prodotti e venduti al TPLF?

Di nuovo l’interrogativo ossessionante: com’è possibile nei confronti dell’Eritrea una simile reazione, che sembra quasi disperata – gli obiettivi sono stati falliti - davanti a ben altri interventi militari etiopici nel Tigray?

Ed è verosimile che il Primo Ministro etiopico sia incline a giocarsi così facilmente il prestigio da Premio Nobel per la Pace a motivo di una crisi locale, territoriale? Davvero è immaginabile che l’esempio tragico di Aun San Suu Kyi con la crisi dei Rohingya, di solo un anno fa, non abbia insegnato nulla? Vi è una specie di nemesi culturale per cui i Premi Nobel per la Pace, quando appartenenti al Sud del Mondo, corrono il rischio di trasformarsi nel loro esatto contrario, in convinti promotori di guerra?

Ma allora bisogna adesso precisare che cosa si voglia sostenere mettendo in fila una serie di interrogativi che potrebbero continuare.

Si vuole sostenere che, mentre si dipanano le grandi chiarezze geopolitiche di esperti ed analisti, nessuna parola si sente pronunciare sulla vita concreta di quei popoli, sulle storie concrete – che fanno esse cultura, sì – di famiglie con identità plurime e intrecciate, sulle lingue, l’ahmarico, il tigrino, il tigray (che è diverso dal tigrino), sulle ricchezze antropologiche di un universo religioso completamente taciuto.

E siamo al dunque: la Chiesa Ortodossa Eritrea è senza Patriarca da 17 o 5 anni. Dipende dalla considerazione della legittimità, contestata dalle altre Chiese Ortodosse, di Abune Dioskoros morto nel dicembre 2015 e gradito al governo, mentre nessuna notizia si ha del suo canonicamente legittimo predecessore, Abune Antonios (si può consultare anche Wikipedia al riguardo, https://en.wikipedia.org/wiki/Abune_Dioskoros). In ogni caso attualmente la Chiesa Ortodossa Eritrea risulta acefala non certo per propria volontà. Ma chi se ne preoccupa?

Esageriamo pure, se esagerazione sembri a qualcuno: Abune Antonios è stato, sinché ha potuto parlare pubblicamente, l’Oscar Romero vivente della Chiesa Eritrea Ortodossa. E ora? Come sta? Dov’è? Prosegue la sua carcerazione? In quale carcere?

Insomma lo sguardo analitico può, a parer di chi qui scrive, utilmente deviare dal tracciamento lineare di schieramenti contrapposti sulle cartine geografiche ed occuparsi della sofferenza di interi popoli, che piangono e urlano in lingue per noi del tutto incomprensibili, riconosciamolo. Ci si permetta: non può essere che sabato mattina il TPLF sia quasi un esempio di eroica resistenza contro forze anti-indipendentiste e sabato sera diventi un temibile movimento terroristico. Questa incapacità di penetrare in una realtà estremamente frastagliata paga lo scotto di non assumere e investigare la complessità religiosa e linguistica di un intero sub-continente. Salvo poi trovarsi di fronte le barche alla deriva nel Mediterraneo e non sapere come gestire l’elementare necessità di salvare la vita umana.

Per quanto ci riguarda, resta di estrema limpidezza la testimonianza – anche silenziosa quando necessario - dei quattro Vescovi cattolici eritrei, di Asmara (Arcidiocesi metropolitana), di Barentu, di Keren, di Segheneity. 

Con una piccola avvertenza: che la loro identità rituale, cattolica – ripetesi: cattolica -, non è latina, né romana, ma Ghe’ez. Cosa significa?

Avviare una ricerca personale e imparare. Sarà utilissimo.

Buona domenica sera.

 

Stefano Sodaro