“Che fosse un fuori gioco l’avranno visto qualche milione di spettatori in Eurovisione, ma non tre persone presenti sul campo: l’arbitro e i due guardalinee”. Fu l’ultimo pensiero che attraversò la mente di Emilio prima che tutto piombasse nel buio. Non un’improvvisa perdita del segnale tv, ma proprio tutto, dopo quell’istante di gelo improvviso nella testa e nel corpo.
Ci si era seduto di malavoglia a guardare la partita quella domenica sera, dopo cena. Era trasmessa in differita e nella saletta dell’albergo c’erano soltanto lui e Persichetti, il collaboratore che gli avevano affiancato perché lo istruisse nel lavoro di ispettore. Il peggio delle missioni lunghe erano proprio i periodi di riposo, specie il sabato e domenica o qualche festività infrasettimanale: intervalli di tempo troppo lontani da casa per un rientro, ma interminabili sul posto, passati a bighellonare fra qualche museo e qualche cinema. Quella domenica, almeno, la visita alle Grotte gli aveva offerto qualcosa di veramente insolito; ma la compagnia di Persichetti, il pranzo e la cena con lui gli avevano messo addosso una cappa di afflizione da cui anche una tv serale poteva offrire una via di fuga.
Povero diavolo, Persichetti: non ancora trent’anni e già sposato, con una bambina handicappata grave. Della quale poi parlava come di una qualsiasi figlia, decantandone perfino i progressi nella crescita, e costringendo chi lo ascoltava ad ipocriti sorrisi di apprezzamento. Erano alcune settimane che se lo portava dietro, per insegnargli il mestiere. Quel mestiere nel quale Emilio si era ormai incallito, fino a farlo rassegnare all’aura di antipatia e diffidenza che lo accompagnava. Ispettore: uno che si presenta all’improvviso in filiale, in agenzia, e dice: fermi tutti, vediamo come posso prendervi in castagna. O che almeno viene visto così dagli altri, che pare non sappiano vivere senza pensare male. Mentre lui non sperava altro che trovare tutto in regola e concludere la missione con una bella stretta di mano cordiale. L’indomani si riprendeva in quell’ufficio di provincia, fra gli uliveti e il mare. Meglio tirare tardi la serata, meglio illudersi di protrarre la domenica davanti a un’insipida partita registrata.
Quella giornata festiva però era stata in qualche modo diversa da tante altre. Si era alzato con un senso indefinibile di malessere che quasi gli faceva rinunciare a visitare le Grotte, non fosse stato per Persichetti al quale aveva promesso di fare compagnia. Ma erano state le Grotte stesse che poi avevano agitato qualcosa di indefinibile dentro di lui. Il loro addentrarsi nella roccia dall’ingresso assolato, di antro in antro, sempre più in profondità, l’intrico di figure fantastiche sorgenti o pendenti nelle caverne lo avevano per dei momenti catturato come sprazzi di metafore che, chissà perché, gli avevano ricordato fasi singolarmente varie ed intense di una vita, la sua, che tutto sommato aveva da non molto superato i cinquant’anni. Le file scomposte delle stalattiti e stalagmiti che si incontravano e separavano nella penombra gli erano apparse come istantanei richiami ai tanti incolonnamenti ai quali la sorte lo aveva destinato fin dall’infanzia.
Da un giorno all’altro si era trovato in fila con altri bambini, tutti vestiti uguali, tutti con la stessa mantellina, con qualche prete o qualche suora che lo spostavano di qui o di là: andare in classe, al refettorio, in chiesa; particolare svago: scortare, con l’uniforme della festa, il feretro di qualche notabile. D’altra parte non sarebbe stato pensabile che un uomo come suo padre, rimasto vedovo in una società di cavatori e contadini, potesse o sapesse crescere da solo un piccolo orfano; soltanto un collegio poteva fare al caso. E ci restò fino a quando, con un diploma di ragioniere in tasca, si trovò a passare dalle file del collegio a quella del consiglio di leva. Qualche mese in caserma, poi in Grecia. E poi ancora l’ordine: “tutti in colonna per Salonicco, la guerra è persa; lì c’è un treno che vi riporta a casa”. Ma sembrò esplodere, il vagone piombato, per le grida disperate quando a Tarvisio la bussola tascabile di un ufficiale rivelò che il treno, anziché a ovest dirigeva a nord.
Stutthof, Polonia. “Basta aderire alla Repubblica Sociale e si torna in Italia”: era la prima volta che si trovava a poter scegliere e chissà quale congenito e insospettato orgoglio anarchico ribollì improvvisamente in lui e lo portò a dire “no, non è cosa per me”. E a farsi quasi due anni di lager: ancora file, per gli appelli nella neve, per le due patate quotidiane, per le latrine, per le marce nel gelo davanti ai russi che avanzavano. Al ritorno, altre file per mesi all’Associazione Combattenti e Reduci; la lunga coda agli sportelli percorsa dal livore di ciascuno verso tutti: “Avrete anche fatto la fame, ma almeno stavate qui a casa vostra, mentre noi prima al fronte e poi la prigionia”… “E chi ve lo ha detto di non tornare: potevate firmare e poi darvi alla macchia; tanti lo hanno fatto. La verità è che avevate paura, se vi beccavano sai che dolori…”. La vetrina delle solidarietà. Finalmente l’impiego in banca. Si sposò quasi subito.
Ci aveva riflettuto proprio quel pomeriggio, sul pullman di ritorno dalle Grotte: ma quand’è che lui aveva conosciuto l’amore? Non solo quello dell’innamoramento, ma quella cosa più grande che si chiama voler bene e sentirsi voler bene. Momenti di serenità, di calore, sì, ne aveva avuti. O a guardar bene erano stati solo intervalli di quiete fra una pena e l’altra? Nei primi anni da sposato si era sentito ripagato delle privazioni trascorse: un lavoro sicuro, una casa a cui tornare la sera come in una rocca impenetrabile dalle insidie esterne, una compagna capace di rassicurare lo smarrimento che, sia pure ben nascosto, non cessava di alitargli dentro. Una seguace docile, che di fatto si rivelò sempre più una guida esigente e anche severa, a volte persino crudele nel chiedergli, quasi a ricompensa della propria devozione, traguardi sempre più avanzati nella condizione sociale. Per cui ogni passo compiuto nella carriera di lui rappresentava per sua moglie non un traguardo raggiunto ma piuttosto il nuovo stimolo di una costante bulimia di benessere e prestigio. I continui trasferimenti, nei primi tempi, da sede a sede - “è solo così che si va avanti senza troppa lentezza” -, gli incalzanti cambiamenti di casa, clima, abitudini, ambiente erano da lei accettati, se non anche auspicati, purché garantissero un nuovo mobilio, un’ auto più potente, una seconda pelliccia, ammirati vicini, anche se solo temporanei. Fu lei che lo spronò ad accettare questo incarico di incessanti missioni che ne faceva la consorte dell’autorevole e temuto ispettore. Il quale ormai passava la maggior parte dell’anno lontano da casa, comprese le serate come questa, nella saletta di un albergo di provincia. Brevi rientri in sede ogni due o tre settimane. A voler essere sincero, almeno ai primi tempi questo lavoro non gli era poi tanto dispiaciuto: lontano dalla sede, senza qualcuno che gli stesse col fiato sul collo a dirgli momento per momento cosa fare o non fare, e senza doverlo fare neppure lui verso altri. Il lavoro era suo, lo conosceva bene ed era responsabile solo dei risultati. Punto.
Ma non c’era più stata la dolcezza di anni prima, quando semplice impiegato rincasava ogni giorno un po’ prima di cena e, nelle serate di primavera, la piccola Marzia, la sua “Stella Marzolina”, con la faccina fra le inferriate del balcone, incominciava a chiamarlo fin da quando compariva in fondo al cortile del palazzo: “Papà, papà!...” e lui rallentava il passo proprio perché lo gridasse più volte. E neppure quando, iniziate da poco le missioni, al ritorno lei adolescente gli correva incontro nell’ingresso per saltargli al collo mentre aveva ancora la valigia in mano, stringendogli la vita fra le ginocchia. E il dopo cena, incollata a lui sul divano, entrambi addormentati davanti alla tv pur di non far finire troppo presto quella serata del ritrovarsi.
Da tempo ormai a casa trovava solo la moglie, che della figlia parlava solo per riversargli addosso risentimento e preoccupazione. Già quando Marzia era ancora al liceo aveva avvertito che fra le sue “due ragazze” c’era qualcosa che non andava: a una madre corazzata di stile e compostezza vedeva contrapporsi, irreversibilmente, una ragazza che, forte della sua intelligenza e irreprensibile per i successi scolastici, si lanciava in discorsi, enunciazioni, proclami che stravolgevano certezze credute fino ad allora inespugnabili: “ma non l’hai vista che discorsi da senzadio va facendo? E come si veste, che sembra una zingara? E’ anche scesa alla media del sette!” (Quanti altri genitori avrebbero acceso un cero di ringraziamento!). In verità, a Emilio era sembrato che Marzia, e i ragazzi come lei, qualcosa di giusto la dicevano. Si capisce, con l’irruenza ribelle dell’età, con quel gusto di scandalizzare. Ma non si può pretendere che i giovani accettino il mondo così come noi glielo propiniamo. Comunque era inutile insistere; e di fatto, alla vaporosa vivacità delle chiacchiere a tavola, ai racconti divertenti al ritorno dai suoi viaggi, si erano sostituite sillabe frettolose, spesso stridenti, fra lunghi silenzi e occhi levati al cielo per la fatica della sopportazione. Stanco come era per le lunghe assenze, desideroso di non amareggiare i brevi rientri a casa, aveva cercato di convincersi che in fin dei conti non poteva trattarsi d’altro che di incomprensioni, forse anche rivalità – ma certamente temporanee - fra madre e figlia, ciascuna in una età difficile.
A volte qualche amico, costretto a fare da cuscinetto fra la propria madre e la moglie, gli aveva manifestato invidia per non doversi trovare mai in questa situazione. E invece eccoci qui, a doverlo fare con moglie e figlia, nella costante, e vana, ricerca di un espediente di conciliazione. Fino a non poterne più. E fu certo l’esasperazione che, un pomeriggio, nella camera di Marzia, gli fece perdere ogni controllo: un suo ennesimo tentativo di mettere una toppa, era stato preso dalla ragazza con una smorfia beffarda e una frase ingiuriosa verso la madre. E volò uno schiaffo.
Si guardarono stravolti. Lui avrebbe voluto gettarsi in ginocchio all’istante e implorare perdono, gridare la propria disperazione per quel gesto maledetto e irrimediabile; lei moriva dalla voglia di piangere e di rifugiarsi fra le braccia di un padre che nel profondo dell’anima adorava ma la costringeva ad odiarlo. Nessuno però si mosse. Lui uscì in silenzio dalla stanza; la serata non fu diversa dalle altre, con i lunghi silenzi ormai divenuti abitudine. Anni dopo, vide un film dove una maschera dai tratti soavi copriva il volto di un lebbroso; e gli venne in mente la sinistra compostezza di quella serata, nascostamente intossicata dal dolore. Passati un paio di giorni, Marzia se ne sarebbe andata di casa.
Non che la famiglia si fosse dissolta. Le necessità della vita di ogni giorno lo avrebbero reso impossibile. Trasferita a casa del suo giovane - e spiantato - compagno, Marzia aveva continuato a frequentare la casa dei suoi, non foss’altro che per qualche rifornimento di contante o di viveri. Del resto lo stesso Emilio, al tempo dell’occupazione dell’università, aveva portato alla figlia qualche pacco di biscotti, biancheria, sapone e anche aspirina, dovesse servire in quella baraonda di promiscuità. Quando poi, sempre con quel suo ragazzino, se n’era andata in India per un anno, certo i genitori non avevano mai perso, per quanto possibile, i contatti con loro. Anzi, gli avevano anche commissionato l’acquisto e spedizione di qualche tappeto, per sé o per conoscenti. Si sarebbe potuto dire che il clima familiare si era addirittura rasserenato.
Ormai erano due coppie, una di anziani e una di giovani, che si frequentavano con una certa cordialità, e anche con affetto. Ma era questo che Emilio voleva? Qualche pranzo insieme, a parlare del più e del meno, evitando certi argomenti? Un tacito comune accordo ad eludere, un diplomatico modus vivendi? Mentre lui non era di diplomazia ma di concordia che aveva fame, di quel reciproco desiderio di tenersi più vicini proprio al profilarsi della discordia. E che questo struggimento non fosse soltanto suo lo leggeva in un’ombra che attraversava lo sguardo di Marzia quando si accomiatavano con quel bacio rituale che in entrambi, ne era certo, avrebbe voluto mutarsi in un abbraccio senza fine.
Ci voleva una serata squallida come questa per poter far maturare una domanda tanto semplice? E cioè: perché non affrontare con sincerità e amore questa situazione malata che si trascina ormai da anni, tanto che forse è morta mentre noi non ce ne siamo accorti? Quale sciocco pudore deve trattenere un padre dal dire alla figlia tutto l’amore che nutre per lei? Perché dare per perduta la speranza di ritrovare la bambina che lo chiamava dal balcone? “Potrei scriverle una lettera, fin da domani, ma non è il mio forte, e poi il lavoro… Ma appena torno in sede, per prima cosa la vado a trovare. E domani una telefonata, quella sì, gliela faccio, appena inizia l’intervallo di pranzo, così elimino da subito ogni possibilità di ripensamenti”. E gli parve da pazzi continuare a rivoltarsi nella solitudine, a considerarla scritta nel suo destino fin dalla nascita, insomma a piangersi addosso, mentre appena fuori dalla porta c’era un amore tenero, conosciuto, sicuro che cercava disperatamente di rientrare. E c’era la pace, soprattutto la pace.
La partita volgeva al termine e, preso come era dal rimuginare, non l’aveva neppure seguita questo granché. Ma certe enormità saltano anche agli occhi più distratti: “come si fa, dico, come si fa ad assegnare un rigore per un fallo commesso in un lampante fuori gioco?” Questa istantanea indignazione per qualcosa avvenuta al di fuori di ogni suo coinvolgimento personale quasi lo rinfrancò.
La sigla musicale dell’Eurovisione aveva svegliato Persichetti nella poltrona accanto. “Buona notte, a domani…” Poi il blackout. E forse Emilio si ritrovò ancora una volta in una fila, chissà dove.
Una telefonata, atroce, nel cuore della notte, toccò al povero Persichetti farla.
Gennaio 2020