Irma
L’uragano Irma, che qualche settimana fa ha devastato i Caraibi e la Florida, mi ha toccato, diciamo, un po’ da vicino perché in Florida abitano dei miei carissimi amici e la loro tribù di figli e nipoti. Per giunta, possiedono anche una villa a Santo Domingo. Per fortuna se la sono cavata solo con qualche danno, ma l’evento mi ha fatto pensare al curioso ricorrere di questo nome attraverso la mia vita.
Infatti il nome Irma ha marcato alcune tappe del mio destino. Tre incontri che, sia pure di intensità e durata diverse, hanno lasciato un segno. Il primo è quello durato più a lungo: i tre anni delle medie. Irma Arcuno, sorella di un Arcuno che con Gramsci e Bordiga aveva dato vita, nel ’21 a Livorno, al Partito Comunista d’Italia, era l’insegnante di lettere: elegante, quasi bella, dell’età pressappoco di mia madre, cioè fra i 40 e i 50, esigente. A volte terribile. Raramente rimproverava in maniera esplicita; si limitava a fissare a lungo negli occhi il malcapitato, in un silenzio di ghiaccio che paralizzava tutta la classe. Erano momenti che sembravano ore e che terminavano con una sinistra annotazione sul registro, alla quale non di rado seguiva una cartolina beige che arrivava a casa e convocava un genitore. Con me era addirittura persecutoria. Non che andassi male, anzi le piaceva il mio modo di scrivere e un paio di volte lesse un mio tema alla classe. Mi segnalò anche per una gara di composizione del Provveditorato, che vinsi. Il fatto è che ai suoi occhi io recavo con me una tara genetica: appartenevo a una famiglia borghese. Non importa se liberale e progressista, nulla contava che un mio zio materno fosse addirittura segretario della Federazione napoletana del PCI. Non ero un proletario, e tanto bastava per tenermi sotto tiro. Questo non vuol dire che con gli altri, i “proletari”, fosse indulgente. Severa, intransigente lo era con tutti. Di qualunque estrazione fossero, gli svogliati, gli indisciplinati li tartassava senza distinzioni, e li bocciava anche, tutti alla stessa maniera, senza alcuno scrupolo. Ma per me si aggiungeva un pizzico di “riserva ideologica”.
Non le ho mai serbato rancore per questo suo particolare atteggiamento verso di me, rampollo innocente del “nemico di classe”. Una Rivoluzione è una rivoluzione e non può andare per il sottile. Quella di Ottobre del resto non aveva esitato a colpire anche lo Zarevich, fanciullo incolpevole dei misfatti della dinastia. Forse ho addirittura pensato a lei con un po’ di gratitudine. Chissà che non mi sia stato ispirato anche da lei quell’amore per coloro che in seguito avrei chiamato compagni. E poi, rivivendo con la memoria di adulto il turbamento di quelle magnetiche occhiate di rimprovero, ne ho compreso finalmente la segreta seduzione.
La seconda Irma era torinese. Ero stato da poco assunto alla Pirelli, a Milano, e del programma di training faceva parte anche una missione di tre mesi, fra la primavera e l’estate, presso una filiale. Dovevo dirigere una squadra di quattro operai con i quali girare paese per paese in tutto il territorio della filiale - gli operai, in coppia, su due furgoni Ford Transit, io su una Fiat 500 -, visitare i rivenditori di pneumatici, intervistarli riguardo alle loro esigenze, installare o sostituire i supporti pubblicitari: targhe, piantane, poster, display. A me toccò la filiale di Torino. Si partiva il lunedì mattina e si rientrava il venerdì sera. La mattina del sabato per me c’era la riunione in filiale, per gli operai il lavaggio e la manutenzione dei mezzi. Gli operai poi tornavano a Milano per il resto del fine settimana mentre io, che a Milano non avevo ancora nessuno, rimanevo a Torino. Napoli, troppo lontana. Tre mesi faticosi ma bellissimi. In piena autonomia attraverso tutto il Piemonte, paesaggi incantevoli, lunghe serate nelle cantine degli ospitali gommisti, qualche avventuretta qua e là, perfino un po’ di cultura, come un paio di conferenze in circoli della provincia - ne ricordo una su Fenoglio e un’altra su Pavese - e brevi visite a monumenti.
I miei scorci di weekend solitari non patirono tuttavia la solitudine: c’era Irma, impiegata della filiale. Magra, flessuosa, truccatissima, con qualche sorriso e qualche sguardo degli occhi verde acqua mi era sembrato volesse trasmettermi un messaggio che sarebbe stato un peccato non raccogliere. Così, contravvenendo al mio principio di non stabilire rapporti troppo intimi nell’ambiente di lavoro (una saggia regola americana di management recita: keep the prick out of the payroll; ma io dopotutto ero fuori sede), uscii con lei nelle sere del sabato e anche qualche domenica. Era afflitta perché il collega che mi aveva preceduto, l’anno prima, nella stessa missione le aveva prospettato un futuro con loro due in spider, assieme a un bimbo biondo. Poi la missione si era conclusa e il collega, la spider e anche il bambino si erano dissolti. Provai a consolarla come potei, senza tuttavia sbilanciarmi come il collega, memore dell’insegnamento di un mio zio donnaiolo: “Non fare mai debiti con la lingua”. A questo proposito, ricordo che baciava in un suo modo particolare, mai più provato in seguito, con una lingua soavemente ruvida, che mi ricordava, con un vago brivido, quella di una gatta.
Di luoghi ospitali nei quali rifugiarci, nessuno. Lei viveva in famiglia e io non osavo invitarla nel mio albergo, considerando la cosa offensiva per lei (spettri e tabù che rovinavano la vita!). E così quelle sere di sabato le trascorrevamo al parco del Valentino, nella Cinquecento dell’azienda, scambiandoci le effusioni che l’esiguo spazio consentiva. Un paio di volte, di domenica, ci accolsero i cespugli sulla sponda del lago di Avigliana, fra tafani e formiche.
Verso mezzanotte la riaccompagnavo a casa, per poi tirare quasi l’alba nei giardini davanti alla stazione di Porta Nuova, passando di capannello in capannello, fra le discussioni di infervorati immigrati, metalmeccanici e rivoluzionari. Lì incontrai i miei primi maoisti. In filiale poi qualcuno riferì delle mie poco raccomandabili frequentazioni.
Al termine della mia missione Irma e io ci salutammo serenamente, senza prometterci niente. Ma alcuni mesi dopo, in una mia brevissima trasferta a Torino per il Salone dell’Automobile, il telefono della camera squillò verso l’una di notte: era lei che mi aspettava nella hall. Anche se avessi voluto, non potevo invitarla a salire perché, per un disguido nelle prenotazioni, ero stato costretto dividere la stanza con un collega, e non ce n’erano di libere. Tornammo al Valentino. Questa volta nella sua auto: un po’ più comoda.
La terza Irma la conobbi nel treno fra Napoli e Roma. Avevo con me una borsa artigianale di paglia colorata in un involucro di cellofan, un regalo per mia moglie. Se ne innamorò una signora non giovane, certo meno giovane di me, ma graziosa e molto curata, compagna di scompartimento. Si chiacchierò, parlai di Sorrento da dove io e la borsa venivamo, e mi offrii di prenderle, come sua commissione, una borsa simile in un mio prossimo viaggio, dopo qualche settimana. Ne fu contenta e, arrivati a Termini, ci salutammo dopo esserci scambiati i numeri di telefono. Andai di nuovo a Sorrento e ne ritornai con la borsa. Telefonai e chiesi se per consegnarglierla mi potevo permettere di invitarla a cena. Esitò appena qualche istante, poi accettò. Riesumando una mia strategia giovanile (sperimentata e vincente), in quel primo incontro stetti molto sulle mie, esprimendo tutt’al più qualche battuta di corteggiamento di tanto in tanto. Mi sembra anche che ci fossimo dati del lei per tutto il tempo. In macchina, sotto casa sua (dove manco a dirlo viveva con i figli), le sfiorai con le labbra la mano, e poi le labbra. Non ricambiò, ma neppure si ritrasse. E quando le dissi che avrei voluto ripetere quella serata, mi disse che ci teneva molto e che facessi presto a richiamarla.
A chiamarla non esitai: avevo la fortuna, in ufficio, di avere una stanza solo per me e anche un po’isolata: frequenti telefonate, all’inizio soltanto mie, più in là anche da lei a me. Era vedova da tempo, collaborava con sartorie di moda, abitava con una figlia sposata e un figlio, ballerino a teatro e in tv, che andava in giro sempre truccato, “per esigenze di lavoro”. Riguardo al prossimo incontro, la mia mente lavorava: avrebbe dovuto essere la volta buona, ma bisognava organizzarsi bene. Un compagno di ufficio, notoriamente esperto in materia, mi aveva parlato di un ristorante in periferia, che aveva anche una pista dove si suonavano i lenti e qualche camera per riposare. Incominciai a progettare il giorno - non subito, per carità -, a programmare il percorso, feci anche un sopralluogo per non mostrarmi imbranato nel viaggio e nel parcheggio.
Finalmente, con più di una farfallina nella pancia, mi decisi alla telefonata fatidica. Mi rispose il figlio: “Mia madre è stata portata in ospedale, le hanno trovato un tumore”. Ero di sasso, anche se con un meschino senso di sollievo per il problema risolto.
Andai a trovarla un paio di volte all’ospedale e le portavo qualche fiore. Era sempre più magra e pallida; l’ultima volta, le mani adagiate sulla coperta, affinate, ceree, con le lunghe unghie cresciute nella degenza, mi ricordarono sinistre illustrazioni di spettri. Quando si rigirò, un penoso odore di distruzione fuggì dalle coperte smosse.
Fu riportata per un breve tempo a casa, dove le telefonai ancora. Poi di nuovo in ospedale, e lì restò.
Non ho poi conosciuto altre Irme se non, da lontano e “per interposta persona”, quella di Miami.
a. p.. settembre 2017