A voler considerare una generazione di fratelli come un lungo segmento, suddiviso in altri minori, si può dire che, fra i figli dei miei nonni materni, Federico rappresentava con precisa simmetria quello di mezzo, con una sorella, Maria, e un fratello, Achille, prima di lui, e un fratello, Alberto, e una sorella, Pia, cioè mia madre, dopo di lui. Di Maria racconto altrove la storia; di Pia forse la racconterò, forse no. Qui vorrei parlare dei tre maschi, anche se con un certo sbilanciamento nella quantità di spazio che dedicherò all’uno, all’altro e all’altro ancora.
Da bambino, conobbi solo Achille e Alberto, ancora scapoli, che vivevano assieme a Maria in una grande casa, attigua a quella dei miei. Federico si era trasferito da tempo in Alta Italia.
Achille, letterato, poeta e scrittore di una certa notorietà, negli anni giovanili aveva per questo suo talento beneficiato dei favori, a volte teneri, a volte esuberanti, di numerose ammiratrici, conquistate dalla serie di poesie ispirate alla Grande Guerra che pubblicò sul Mattino. Arruolato ma assegnato ai Servizi sedentari per insufficienza toracica, il giovane poeta partecipò così a suo modo e, va detto, con sincero coinvolgimento, alla tragedia che il paese e il mondo attraversavano. Finita la guerra, però, diverse di quelle ammiratrici gli divennero ostili, per la sua caparbietà nel rifiutarsi di comporre carmi epici su commissione dei diversi comitati di madri e vedove di caduti, la più accesa delle quali, dal lutto costellato di medaglie, onnipresente alle commemorazioni, lui aveva ribattezzato “Il labaro”.
Gli restò amica, per diverso tempo, solo la signora R., vedova ma non di guerra. Pare che spesso, quando era reduce dalle serate più o meno lunghe trascorse da lei, Achille stava male di stomaco. Tutto a causa di un malinteso. La signora riteneva di far cosa gradita all’ospite con l’offrirgli del Porto, vino che certo a lui piaceva, ma che non riusciva a digerire.
Achille prese poi le distanze dal Mattino, fino a cessare del tutto ogni tipo di collaborazione, per gli orientamenti che il quotidiano aveva assunto dopo la Marcia su Roma. Quella collaborazione l’avrebbe ripresa solo una ventina di anni dopo, quando nella Napoli appena liberata nacque il Risorgimento, che poi diventò di nuovo Mattino, della cui critica teatrale fu redattore.
Conservò l’insegnamento di letteratura italiana alla Scuola d’arte, ma solo fino al giorno in cui, essendogli stato richiesto di esibire la tessera del Partito, dichiarò di non averla, per il semplice motivo che non era fascista. Schedato e pedinato, non finì comunque, chissà per quale miracolo, in nessun carcere o confino. Trovò perfino un lavoro, grazie al coraggio e all’apertura mentale dell’amico di famiglia M., personaggio importante del Banco di Napoli, che lo sistemò all’Archivio storico, di cui anni dopo sarebbe diventato direttore.
Negli anni della dittatura, gli fu di conforto il frequentare assiduamente casa Croce assieme a pochi altri “superstiti nell’età straniera”, come li chiamò in una lirica che fu pubblicata, anonima, sulla Critica. Erano Gino Doria, Alfredo Parente, Raffaello Franchini, Alfonso Omodeo, Fausto Nicolini e qualche altro amico che non ricordo.
Si sposò in età matura ed ebbe presto due bambine, ma morì dopo appena qualche anno, fulminato da un ictus a casa di amici, a un tavolo di poker, di cui era accanito giocatore; sempre perdente, per il fatto di impallidire ogni volta che gli capitavano carte buone, e di arrossire quando bluffava. Fino alla morte fu perseguitato da un processo per diffamazione, avendo collaborato a un pamphlet a più mani pieno di buffonate e idiozie, del quale si faceva figurare autore un certo Chichino, docente di statistica affermatosi col Regime. Il contributo di Achille alla beffa - ordita dal perfido amico Sandrino, molti anni dopo dotto e popolare conduttore di una rubrica culturale in tv - consisteva in un sonetto dove Chichino, adolescente poeta, inneggiava all’autoerotismo descrivendone i progressivi livelli di beatitudine. Il processo, che l’accusa aveva impostato contro una surrettizia denigrazione del fascismo, si estinse non con la caduta di questo, ma solo con la morte della parte offesa, avvenuta dopo quella di Achille.
Di questo zio ricordo poche immagini o impressioni: quando, le volte che avevo la febbre, sedeva accanto al mio letto e mi raccontava i miti greci (aveva un linguaggio molto più forbito di quello dell’altra affabulatrice, la sorella Maria. Usava parole come “figlioletto”, “fanciullo”, “auriga”, “nume” e, pur raccontando a voce, evitava le ripetizioni: se aveva parlato di serpenti, poco dopo li chiamava rettili, se aveva menzionato Pegaso, stava attento a rinominarlo cavallo alato); quando, avendolo visto rincasare, gli correvo incontro lungo il viale e lui, miope e sempre assorto, si accorgeva di me solo se lo chiamavo o gli tiravo la falda del cappotto; la limonata col bicarbonato che la sorella Maria gli preparava, a metà pomeriggio, prima che uscisse per andare al giornale; i gesti di disperazione ai quali si abbandonava quando, la sera, sarebbe dovuto andare a teatro per il suo lavoro di critico, specie se doveva sopportare autori come Niccodemi o Claudel; il mio stupore quella volta che, tiratomi via da una presa di corrente con la quale stavo armeggiando, mi disse di stare attento, perché lì dentro c’erano gli Ampère: un termine che mi sarei aspettato da mio padre, ingegnere, ma mai da lui, un letterato. E poi quella telefonata, tardi, terribile, dai suoi amici, che non avevano avuto il coraggio di parlare con la moglie. E mia madre che gridava nella cornetta: “Ma voi non mi state dicendo tutto…”; e poi si accasciò su una sedia in una sorta di rantolo: “Mio Dio, Achille…” Quella sera mio padre aveva deciso di andare a letto presto, senza cenare, perché non si sentiva bene. Ma, dovendo così inaspettatamente uscire nel cuore della notte, si mise un cantuccio di pane in tasca. Il giorno dopo, fu la prima volta che lo vidi piangere, e mi intenerì come se fra noi due il bambino fosse stato lui. La seconda e ultima volta, molti anni dopo, fu per la cognata Maria.
Ad Achille piaceva sfrenarmi oppure farmi ridere con immaginazioni schifose: era ineguagliabile nel saper trovare per un budino di cioccolata o una chiara d’uovo, con ricchezza di particolari, accostamenti rivoltanti, con mio sommo godimento. Spesso, scatenato da lui, che non era poi per niente capace di riportarmi alla calma, perdevo il senso del rispetto e una volta scrissi su una lavagnetta: “Zio Acille è fesso”. Evidentemente lo andò a raccontare, perché al suo funerale Doria, abbracciandomi, mi disse fra le lacrime: “Zio Acille ci ha lasciati”. Per la scomparsa di Achille vennero a trovarci diversi suoi amici di giovinezza; mi restano nel ricordo Peppino, diventato un pingue direttore di banca (uno dei non pochi ex spasimanti di Maria) e Gigi, avvocato di successo - venuto apposta da Roma in compagnia di un bellissimo figlio adolescente - compagno indivisibile degli anni più verdi, delicato compositore di liriche crepuscolari.
Il più giovane dei fratelli, Alberto, si sentiva erede del padre nell’amore per la natura. Iscrittosi alla facoltà di scienze, mise subito mano alla tesi di laurea e non diede mai un esame. Pubblicò tuttavia un breve libro, Spiritualità della natura, dove dimostrava come le crociane categorie dello spirito fossero applicabili a tutte le creature, vegetali e minerali compresi. L’opera ottenne recensioni favorevoli sulle riviste di ispirazione idealistica (prima fra tutte La Critica) e ostili su quelle positiviste.
Fin da bambino non amava uscire di casa. Erano restate proverbiali le sue urla e convulsioni quando cercavano di trascinarlo al “giardino d’infanzia”. Portato a termine il liceo, si adagiò finalmente nella sua vocazione domestica. Era capace di trascorrere interi mesi senza varcare il portone. Questo non deve far pensare a una flaccida sedentarietà, tutt’altro. Era addirittura mattiniero, e andava a letto tardi, e le sue lunghe giornate, oltre che a leggere e a scrivere, le dedicava anche al moto, nella casa della giovinezza, prima, e poi in quella della maturità, corredate entrambe di lunghe terrazze che percorreva su e giù per ore, fumando e pensando. Di questa autosegregazione non soffrì neppure la sessualità, alla quale era anzi particolarmente portato, grazie a una sua spiccata capacità di seduzione, e anche di adattamento, nei confronti di domestiche e vicine. Giunse a fruire anche dell’avvicendarsi, nel servizio della casa, di una madre e di una figlia, quest’ultima illibata all’inizio del rapporto di lavoro. Ricordo ancora la scenata, per me allora inspiegabile, che la madre venne a fare, minacciando anche l’intervento punitivo di suoi fidi sicari. Oggi mi chiedo se in quell’ira influisse più l’onore familiare intaccato o la gelosia per il rimpiazzo generazionale.
Oltre che di scienza e di filosofia, Alberto leggeva di molte altre cose, fino a farsene una conoscenza così profonda da poter essere tradotta dalla teoria all’azione senza l’intermediazione di alcun esercizio pratico. Si ricordava in famiglia di quando, in uno stabilimento balneare, lui, ben fatto ma mingherlino, aveva scaraventato in mare due grossolani corteggiatori delle sorelle con delle mosse di “lotta giapponese” apprese solo in qualche manuale. Da quarantenne, poi, ebbe una fitta corrispondenza con alcune case automobilistiche su certe sue proposte di miglioramento del differenziale che ai costruttori erano apparse, a quanto sembra, almeno degne di considerazione.
Aveva anche una discreta conoscenza di armi, pur non avendo mai fatto il militare (la sua leva era capitata nell’immediato indomani della Grande Guerra, con un bilancio della Difesa stremato). Riuscì a vivere qualche dozzina di ore da combattente quando, durante le Quattro Giornate, si fece recapitare, ovviamente a domicilio, un moschetto, e diede anche lezioni di balistica ad alcuni sprovveduti patrioti del quartiere. Quella volta, il fatto che facesse le cose senza muoversi di casa fu anche di una qualche utilità tattica: la lunga terrazza su cui di solito passeggiava e meditava era diventata un cuneo fra una masseria dove si annidava qualche pattuglia della Wehrmacht e l’intrico dei vicoli brulicanti di insorti. Vedetta avanzata dei quali divenne lui, il “professore”, col fucile a spallarm. Ma per quanto temibile come seduttore, Alberto non doveva apparirlo altrettanto come nemico, visto che, esposto come era, nessuna pallottola tedesca gli fischiò neppure nelle vicinanze.
Le brillanti intuizioni epistemologiche espresse nel suo libro procurarono ad Alberto l’ammirata amicizia di un ricco commerciante israelita, abile aggiratore delle leggi razziali e portato al mecenatismo, che gli mise a disposizione dei locali in una villetta ai Ponti Rossi, perché ne facesse un laboratorio di studi etologici. Lì, le volte che mi condusse con sé, trovai i giocattoli più appassionanti della mia prima infanzia: ramarri, bisce, decine di cavie e topolini bianchi. Mi regalò anche un rospo, agilissimo saltatore, che gonfiava due vesciche ai lati della testa quando lo stringevo nel pugno. Fenomeno molto divertente che mi induceva a reiterare di continuo il tormento dello sfortunato batrace. Un coniglietto, che pure mi aveva regalato, morì invece di paura sul manubrio della mia biciclettina, dove lo sistemavo per farlo svagare.
Quel laboratorio servì in qualche modo a snidare Alberto dai prediletti otia domiciliari. Fu per altro anche un rifugio più comodo, rispetto alle inevitabili limitazioni domestiche, per incontri degli affetti, fra un’osservazione scientifica e un’altra. Tant’è, che un giorno, da gentiluomo qual era, si sentì in dovere di sposarsi. Il matrimonio fu celebrato nella casa della sposa, profuga istriana, il cui abito nuziale era arricchito da drappeggi sapientemente disposti sull’ormai cospicuo davanti. Il celebrante fece un bel discorso esortando gli sposi, ai quali, a suo dire, “non mancavano i mezzi”, a non accumulare ricchezze e a soccorrere i poveri.
Il provvido mecenate mise a disposizione della coppia un’altra sua proprietà, una casetta in un podere affacciato sul mare dalle parti di Formia, dove Alberto impiantò un allevamento di polli di razza livornese, periodicamente falcidiato dalle morie. Fra un’epizoozia e l’altra veniva a trovarci, e io, da poco uscito dall’adolescenza, gli sottoponevo i miei versi. Nel leggerli si commoveva al punto tale che incominciai a nutrire seri dubbi sul mio talento, sospettando che il suo apprezzamento fosse nient’altro che tenerezza per il nipotino che aveva visto nascere e crescere e al cui capezzale, a sua volta, aveva avvolto di fiaba i celenterati, i lamellibranchi e gli echinodermi.
Pur fra le preoccupazioni della famiglia e dell’impresa, Alberto continuò a studiare. Quando morì, furono trovati dei suoi appunti dove il Dna, da poco scoperto, veniva idealisticamente interpretato come “memoria storica” dell’esistenza fisica. Riordinati il meglio possibile, gli appunti di Zio Alberto furono pubblicati, a cura di chi scrive e del figlio Paolo, dalla Rivista di studi crociani.
Federico, il fratello di mezzo, era chimico, pittore, pianista beethoveniano e idealista. Fin dall’adolescenza, quando era liberale con simpatie socialiste - un gobettiano, si sarebbe potuto definire, anche se solo per ispirazione e non per effettiva militanza - aveva fatto sua la causa degli sfruttati e degli oppressi. Per cui non era senza amarezza che, appena laureato, assunto in una fabbrica di profumi e assegnato al turno di notte, rincasando all’alba con gli abiti impregnati di essenze sensuali, subiva in tram gli astiosi motteggi degli operai che si recavano al lavoro e che vedevano in lui un damerino borghese reduce da chissà quali veglie di dissolutezza.
Si sposò giovanissimo, con un’amica quasi d’infanzia – Maria, ma lui la chiamò sempre Myriam - ed ebbe, a poca distanza l’uno dall’altro, quattro figli maschi. Quando i bambini venivano portati a far visita agli zii paterni, la cagnetta Zag e i suoi cuccioli si andavano ad acquattare sotto la vasca da bagno.
Il dolore non si fece aspettare a lungo. Quando la famiglia si era da poco trasferita in Italia settentrionale, dove Federico era stato assunto da un’importante industria chimica, il secondogenito Luciano alle soglie della pubertà si ammalò di distrofia muscolare. Incominciò un calvario che sarebbe stato lungo e straziante e che Myriam in particolare percorse con abnegazione infaticabile fino alla fine.
A quella tortura presto se ne aggiunse una nuova: l’angoscia per un altro figlio, il primogenito Michele che, di leva all’entrata in guerra dell’Italia, era stato mandato sul fronte jugoslavo. Ne ritornò dopo qualche tempo, vivo, ma con il petto passato da parte a parte da una pallottola dei partigiani titini. Anni dopo, mostrava le cicatrici ai miei sguardi ammirati, e mi diceva che, quando sei colpito, al momento ti sembra come se qualcuno ti avesse dato un pugno, solo che poi, dopo pochi istanti, incominci a tossire sangue e cadi giù.
Gli anni della guerra, per il chimico Federico, civile mobilitato per esigenze belliche, furono tempo di meditazione, di travaglio ideologico e di decisioni. La “rivoluzione liberale” che da giovane aveva coltivato, migrò sempre più irreversibilmente, attraverso i rapporti con gli operai e misteriosi contatti che sembravano farsi sempre più assidui e stringenti, verso un impegno rivoluzionario assai meno astratto. E il dirigente industriale Federico diventò il partigiano Pietro. Michele, guarito dalle ferite, reclutato nell’esercito della Repubblica di Salò e poi ceduto, per la sua conoscenza del tedesco, alle S.S., disertò e andò in montagna, dove diventò il partigiano Marco delle Brigate Garibaldi.
“Pietro” non stava in montagna. Viveva in città, con la famiglia, andando ogni giorno in fabbrica, insospettabile destinatario e diffusore di messaggi degli angloamericani, e anche del Comintern. Uscì allo scoperto solo quando, proclamatasi la Repubblica dell’Ossola, fu nominato membro del Comitato di Liberazione Nazionale e assunse la direzione di uno dei giornali che subito fiorirono. E così, quando il comando alleato giudicò quell’esperienza di repubblica partigiana troppo circoscritta, e anche inquietante, e le tolse ogni appoggio, davanti al ritorno dei nazifascisti assetati di vendetta a Federico non restò altro da fare che caricarsi il figlio malato sulle esili spalle, raccogliere la moglie e gli altri due figli presenti in casa, abbandonare finanche la biancheria e correre alla stazione, da dove sarebbe partito per la Svizzera l’ultimo treno di fuggiaschi. Che poi, quando arrivarono, si era già messo in moto; furono dei partigiani che, mitra in pugno, imposero al macchinista di frenare, perché la disperata famiglia del compagno Pietro potesse salire.
In Svizzera, Federico trovò da lavorare in un’azienda farmaceutica e i due figli minori, Giulio e Andrea, furono ospitati da famiglie del posto, per interessamento della Croce Rossa. Luciano morì poco dopo. Tutto questo lo raccontò lui, Federico: per lettera, dopo che da Berna, tramite un fortunoso giro di contatti che passò anche per gli amici Croce, era riuscito a farsi vivo, e poi anche a liberazione avvenuta; a voce, quando tornò a stabilirsi a Napoli.
Che lettere. Scriveva alla sorella Maria, da sempre rifugio spirituale e intellettuale di fratelli, amici, congiunti diversi. Anche mio, molto tempo dopo. C’era, in quelle lettere (c’è, visto che esistono ancora, e che ho la ventura di conservarle proprio io), il tormento di un uomo che ha nel sangue un culto illimitato della libertà individuale e che però non può resistere al dovere morale di sacrificarlo in nome della giustizia e dell’egualitarismo; la lancinante decisione di rinunciare ai privilegi che l’idealismo garantisce all’anima in nome degli ineludibili imperativi del materialismo storico e della lotta di classe.
Quello che appare abbastanza chiaro è che a Federico di imboccare una sia pur onorabile via meno estremista, come poteva essere il Partito d’Azione, non passò neppure per la testa. O tutto o niente. E quando tornò a fare il dirigente industriale, in quel di Novara, il fatto che fosse al tempo stesso membro della locale federazione comunista non poté essere gradito ai suoi datori di lavoro, passati come salamandre attraverso le epurazioni, che anzi ravvisavano in lui (non a torto) un temibile sobillatore della manodopera.
C’è un detto popolare: il vescovo vuole licenziare Giorgio e Giorgio vuole andarsene. A Novara per Federico non era più aria, e lui non cercava che una buona ragione per tornare, come fece, a Napoli, dove per altro, conoscitore come era del proprio mestiere, si era già assicurato un lavoro. Successivamente impiantò un laboratorio in proprio. Continuò, intensamente, l’attività politica e i figli incominciarono a seguirlo.
Le elezioni del 18 aprile 1948, fonte di amarezza per il Fronte Democratico Popolare, furono invece per me l’occasione per trascorrere delle giornate esaltanti. Il reduce Michele non si perdeva nessuno dei comizi elettorali, non solo della sua parte ma anche di quella avversa, e con al collo il fazzoletto rosso di Garibaldino e l’accento settentrionale, andava manifestando non sempre con garbo la propria tensione ideale. In un tafferuglio fu fermato per resistenza alla forza pubblica, ma riuscì a scappare e, saggiamente, non tornò a casa, rifugiandosi dai miei.
Di quel cugino, più grande di me di parecchi anni, mi invaghii: passava ore a raccontarmi della guerra, da soldato prima e da partigiano poi, delle battaglie, delle imboscate, della ferocia dei fascisti, della prodezza dei partigiani rossi e della goffaggine di quelli bianchi, i pio pio, dei quali mimava in maniera esilarante il modo di combattere, e di scappare. Mi parlava delle notti all’addiaccio e di quelle di sentinella, e mi mostrava come si fuma al buio senza fare scorgere la brace della sigaretta e come atteggiarsi a seconda che, per superare un posto di blocco o sfuggire a un rastrellamento, ci si camuffi da donna, da prete, da suora e finanche da soldato nemico (e in quest’ultimo caso lui la sapeva abbastanza lunga), ma pur sempre con una pistola nascosta da qualche parte, diventasse necessario sparare, o spararsi.. Spodestò le donne dalla cucina per cuocere una polenta dal gusto ben più intenso di quello della “farinella” cui ero abituato. E che fantasia nel costruire giocattoli ingegnosi: con un fornelletto a spirito e barattoli di latta mi fabbricò una turbina a vapore che faceva girare una manovella, con la lama di una sega e un bastone, una balestra. E ben altri ordigni avrebbe saputo allestire. Superfluo dire la privazione che provai, quando le cose si calmarono e Michele se ne tornò a casa.
Passarono diversi anni. Di tanto in tanto Federico, Myriam e i ragazzi ci venivano a trovare o andavamo noi da loro. Col cugino Andrea, quasi mio coetaneo, giocavo al meccano oppure, dopo aver tirato a sorte i ruoli, a Garibaldi e Radetzky. Quello a cui era toccato essere il Feldmaresciallo faceva di tutto per farsi sopprimere al più presto, per poi poter riprendere il gioco come Eroe dei due Mondi. Per regolare gli avvicendamenti ci fu bisogno di un arbitro, nella persona di Giulio, fratello più anziano di un paio d’anni, al quale conferiva autorità un lanuginoso pizzetto che era riuscito a farsi crescere. Convalescente da un incidente sportivo, compiva evoluzioni su delle stampelle ricavate da due bastoni per lavare i pavimenti. Un pomeriggio d’estate tornò dal mare Michele, con un grappolo di pesci pescati con un fucile subacqueo di sua invenzione.
Per Federico sembrava essere arrivato, finalmente, un momento di quiete. Myriam era una madre tenerissima e fin troppo premurosa, il lavoro e la politica gli davano discrete soddisfazioni. Myriam era anche, per me, una zia molto affettuosa. E munifica: il meccano, tesoro del quale andavo geloso, me lo aveva regalato lei. Era attaccatissima alla cognata Maria, che i figli chiamavano Mia, e quasi ogni sera le faceva lunghissime telefonate, al termine delle quali Maria diceva: “Mi fa male l’orecchio”. Di lei ricordo l’eleganza, la bellezza delle mani e un appena percettibile toscaneggiare che le era restato dalla prima infanzia, trascorsa a Pisa.
Una mattina, tornando dalla scuola media, trovai mia madre seduta sul divano, che si copriva il viso con i lembi dello scialle. Di Maria, in piedi, girata verso i vetri di un balcone, vedevo le spalle scosse da un pianto silenzioso. Zia Myriam era morta. Per un attacco di cuore improvviso, si disse. Ma quanto “improvviso” può essere un attacco di cuore sulla cima del Calvario?
Michele e Andrea si sposarono. Con Federico rimase Giulio che, sebbene impegnato nel lavoro, gli diede per qualche tempo anche una mano nel laboratorio. Poi si fece viva la dottoressa Van de W., una biologa belga con la quale, in gioventù, Federico aveva avuto apprezzabili concordanze scientifiche; non immuni, pare, da tentazioni di altra natura, represse sul momento per senso di responsabilità. Gli anziani studiosi decisero di tenersi compagnia per gli anni che restavano loro da vivere. Ma non funzionò; le due esistenze, ormai lunghe e trascorse in realtà tanto diverse non riuscirono a trovare punti di intesa. L’unico che poterono raggiungere, e anche in un tempo non molto lungo, fu che era meglio salutarsi.
Di quella breve unione fu vittima, in qualche modo, Giulio. Oltre che essere inviso a due cani, deportati alle falde del Vesuvio dal nativo Brabante e chiaramente contrariati per lo sradicamento, abituato come era, nelle cene con gli amici, alle sfide a chi riuscisse a divorare più lasagne e braciole, Giulio affrontava come crudeli fioretti i consommé pallidi e i roastbeef diafani serviti dalla nordica dottoressa. Questa, quando non poteva non leggere, negli occhi di lui, lo sconforto della fame, lo esortava a prendere un altro po’ di pane. E spalmata una fetta di pancarrè con un velo di burro, ridotto poi a pura ombra con un’esperta contromossa del coltello, la porgeva pietosa al languente commensale.
Anche l’arroccamento di Giulio nel celibato capitolò. Ebbe due figlie. La prima si chiama Myriam. Federico andò ad abitare con lui. Si rimise, dopo più di mezzo secolo, a suonare, anzi a comporre. Avendo dimenticato completamente la scrittura musicale, usava il registratore. “Il mio onanismo senile”, diceva.
Riprese anche a dipingere. E una mattina, mentre ritraeva la piccolissima Myriam, si sentì male e morì.
Per il mio matrimonio mi aveva regalato un suo quadro. Conoscevo Federico come ritrattista, e invece mi si rivelò anche paesaggista. Ovviamente a modo suo, con un messaggio che non poteva essere di altri che suo. Il quadro si intitola Casette operaie all’ “ora che volge il disìo”: sono palazzine popolari, contro un cielo non ancora buio, con un po’ di alberi intorno, in un chiarore stemperato di lampioni. Dietro le facciate, la fantasia dell’intimità, della frugalità, del tepore della famiglia dopo il lavoro. Me lo guardo sempre quel quadro, il più caro che ho.
Tutte le volte che, nella vita, mi sono trovato a dover prendere una decisione morale costosa, dolorosa, ho visto – e tuttora vedo - Zio Federico seduto davanti a me, con le gambe sottili accavallate, a dirmi: “Ragazzo mio, lo devi fare”. E mi sorride, dal volto scavato, con la dolcezza che solo gli incrollabili come lui sanno avere, e con quei denti un po’ ingialliti dalla nicotina.
(α. π.)