In quanto appassionato del mare, mio padre si era laureato in ingegneria navale. Inseguendo il sogno di solcare gli oceani, ottenne di fare il servizio militare in marina e fu mandato a Terni, nelle acciaierie, per conto del Genio. Congedato, divenne ispettore del Registro navale per il golfo di Napoli. Ma talvolta ne varcò i limiti, spingendosi fino a Gaeta, a nord, e fino a Salerno, a sud.
Lungo quel tratto di costa si fece conoscere per la scrupolosità che manifestava, di norma, con una fredda intransigenza per ogni minimo difetto delle imbarcazioni e con il garbato rifiuto di qualsiasi fraternizzazione. Ma venivano anche tramandate, di porto in porto, certe sue spettacolari esplosioni di sdegno. Come quella volta che gettò in mare, con uno spintone, un padrone di barca che aveva sorpreso a truccare una prova di stabilità. O come quando, sentitosi apostrofare minacciosamente da un carpentiere di cui aveva bocciato l'opera, impugnò un'ascia sfidando l'altro a prenderne una anche lui, se aveva il coraggio di chiedere fino in fondo soddisfazione del torto che lamentava.
Quando la prova andava bene il rigido ispettore si lasciava un po' andare e accettava qualche estemporaneo invito a pranzo oppure un cartoccio di triglie fresche da portare a casa. Non senza successive frustrazioni, visto che mia madre considerava tutti i pesci, anche i più prelibati, “mostri degli abissi”.
Talvolta mi conduceva con sé, purché ricorressero delle precise condizioni: che ci si trovasse nella bella stagione; che per me non fosse giorno di scuola; che, in base a scrupolose prove già effettuate, si prevedesse per il collaudo un esito sicuramente positivo. Il che comportava la probabile accettazione dell'altrettanto probabile invito a pranzo.
Diseducato da mia madre, non sono mai stato un buon estimatore della cucina di mare. Eppure ricordo come autentiche delizie le vope di Procida, che la padella rendeva croccanti come biscotti; le aguglie di Massa Lubrense dalla lisca turchese; le fritture povere e fantasiose di Pozzuoli. Ma ancor più indimenticabili restano i commensali: quei trapanesi che a bordo del motoveliero imbandirono la tavola sulle botti di marsala consumandovi impassibili - loro - sotto il sole di luglio, cupole di spaghetti vermigli di solo peperoncino; i raffinati sorrentini che nelle trattorie si facevano precedere da esperti di fiducia per dirigere e sorvegliare cuochi incredibilmente remissivi; i torresi, insaziabili, rumorosi, orgiastici. Ovviamente si parla dei torresi per antonomasia, fra la gente di mare: quelli di Torre del Greco.
Di Torre del Greco è il Cuore di Gesù, un peschereccio a paranzella da collaudare. E' una delle prime barche che i maestri d'ascia hanno ripreso a costruire dopo la guerra: vecchi maghi del legno che segano le tavole del fasciame dopo avervi tracciato il garbo con quattro ditate del pollice bagnato di saliva. E che usano l'ascia piccola, quella delle rifiniture, anche per radersi, la sera, prima di chiudere bottega*.
Giugno ha voluto offrire al viaggio inaugurale del Cuore di Gesù una delle sue giornate più belle. Nella luminosità del mattino il peschereccio, tutto verde, con due fasce bianche lungo le murate, è parato a festa. E sembra voler fare coraggio alla Giovannina, tirata in secco lì accanto, con le strisce nere del lutto sul mascone e lo scafo ancora straziato per le cannonate della Wehrmacht che si è presa tre anni fa, davanti Castellammare, per aver disubbidito all'ordine di accostare.
Ma intorno alla barca nuova c'è festa. I colori del gran pavese scompaiono fra i festoni di carta velina, che drappeggiano anche i cavi di ormeggio, le catenelle variopinte di stelle filanti, le immaginette propiziatorie dei santi. Sono appiccicate un po' dappertutto a fare da corte al drammatico bassorilievo in legno dell'Ecce Homo sul coronamento di poppa, rosa nella carne e scarlatto nelle piaghe, messo lì per richiamare, con lo sguardo fisso nella scia, la preda nelle reti dei devoti pescatori.
Tutto stamattina è febbrile, eccezionale: i ragazzini si rotolano per terra con i cani, che poi abbaiano alla banda municipale. Le donne vanno e vengono dalla spiaggia vicina dove i fabbri zingari prestano per l'occasione le forge scavate nella sabbia a colossali caffettiere di stagno.
Per scostare si aspetta che portino il pane dal forno. Finalmente arriva. Lo imbarcano a prua, sopra vento, e il profumo percorre tutta la barca. Si va.
Rotta su Meta, per raccomandare il Cuore di Gesù alla Madonna del Lauro, miracolosa protettrice in ogni pelago dei marinai di questo golfo. E anche per fare scorta degli ineguagliabili caciocavalli e “trecce” che ogni giorno arrivano in quel paese dai Monti Lattari. Il diesel col suo pulsare ritmato esprime soddisfazione per la pacifica maturità che lo attende, dopo una spericolata giovinezza insidiata dalle artiglierie, fra Anzio e Cassino, dentro il cofano di un Ford due assi della Quinta Armata.
Incomincia la distribuzione dei panini all'equipaggio e agli ospiti, una trentina di persone in tutto. Passeggeri di riguardo, il parroco, il maestro d’ascia costruttore, Mastro Gaetano, ispirato rianimatore, trasformatore e installatore di ogni genere di macchina per ogni genere di impiego, l'ingegnere del Registro e il suo giovanissimo figlio che si è equipaggiato con borraccia, binocolo (da teatro) e coltello da nostromo.
Sono pagnotte massicce con prosciutto e provolone: due passate a persona, per chi voglia anche tre. Pure un boccione di vermut compie diversi giri. Ci si incomincia ad alternare sulle falchette, per personali necessità. Il giovane passeggero, ben istruito, sceglie accortamente quella sotto vento, riscuotendo apprezzamenti. È gioiosa quella sottile curva scintillante di luce, che parte da lui e si perde nei baffi schiumosi aperti dalla prua.
La colazione termina con l'attracco alla marina di Meta. Bisogna ora inerpicarsi per la ripida salita che porta al santuario, su in paese. Lungo i tornanti della scalinata di arenaria si snoda la piccola processione cui fa da labaro il grande fascio di gladioli bianchi per la Madonna. Strada facendo si sgranocchiano i taralli alla sugna, pepe e mandorle acquistati sul molo. Salati e piccanti come sono, producono un fitto assembramento intorno al chiosco delle acque stabiesi, sul sagrato della chiesa. La pia missione è compiuta e si apre la caccia al latticino. Scamorze, provole, “pezzottelle” salatissime e dure come pietre sono incettate nelle bottegucce con le tende di canna. Ma il profumo che arriva dalla pasticceria impone anche lì una sosta, giusto per prendere qualche sfogliatella, babà, cassatina, biscotto al cacao e amarena che faccia compagnia durante il ritorno al porto.
Ora si naviga verso Capri, per provare il Cuore di Gesù in mare aperto, fuori dal capo di Sorrento, e per gustare la proverbiale parmigiana di zucchine che fanno da Agostino, alla Marina Grande.
Chi è quello che ha virato e ci mette la prua addosso? Ma sì, sono loro, è il San Ciro, un'altra paranzella di Torre! Fischi, richiami e, quando ci si accosta, auguri, risate, qualche sarcasmo un po' greve. Poi un grosso fagotto di rete, grondante acqua e alghe, passa da lui a noi e si apre sulla coperta, brulicante di fragaglia ancora viva: un contributo alla festa della barca sorella.
Il San Ciro se ne va e da sotto coperta arriva lo sfrigolare della frittura. Dorata, croccante, affiora sul ponte in portate successive, dentro fogli di giornale, con altre pagnotte e fiaschi di vino. Seguono le scamorze, per rinfrescarsi la bocca.
Si arriva a Capri verso le due, per ora di pranzo, e la vagheggiata parmigiana di Agostino è preceduta da capicolli, sopressate, acciughe, gnocchi con mozzarella, pasta in varie salse, cannelloni, zuppe di pesce e seguita da cefali alla brace con menta e aceto, braciole al ragù farcite di pinoli e uva passa, scorfani all'acqua pazza, polipetti affogati, formaggi, dolci, rosolio. Dal trespolo, il pappagallo Arturo scarica sul convito il suo turpe repertorio.
Il caffè lo si prende al ritorno, facendo tappa alla Marina della Lobra, a ridosso di Punta Campanella: le olive di quelle masserie sono speciali e servono a mettere qualcosa nello stomaco mentre si naviga verso il secondo pellegrinaggio della giornata, a Sorrento, da Sant'Antonino, anch'egli più volte salvatore di naufraghi locali, nel Canale di Procida come a Capo Horn. Per lui i gladioli sono rossi.
Sono rosse anche le pizze che, prima di salpare alla volta di casa, si mangiano sotto le pagliarelle di Antonino (non santo, lui, soltanto oste) e si ha anche modo di riconoscere come più che meritata la fama di cui gode la sua impepata di cozze. Poi, tutti all'attigua Premiata Gelateria Vittoria.
Il Cuore di Gesù naviga tranquillamente nella serata verso il suo porto. Un po' illanguiditi, equipaggio e passeggeri fanno circolo a poppa intorno a una chitarra. Il fanale rosso di Torre del Greco già lampeggia di prua. Dalla cambusa emerge il cuoco, depone una zuppiera sulla coperta, ritorna giù e ne porta su un'altra. Sono i vermicelli del commiato, all'aglio e peperoncino e con lardo soffritto e pezzottella grattugiata. Aprono lo stomaco prima di cena, affermano a bordo.