Maria
Maria era la primogenita di cinque figli. Dopo di lei venivano tre maschi e la sorella più piccola, mia madre. Ai primi del secolo, genitori, figli, due nonne, due zii scapoli di parte paterna e materna, un cameriere e una governante, fratelli fra loro, e una servetta vivevano tutti in una casa grandissima nel quartiere dell’Anticaglia. Era tanto grande, quella casa, che le nonne si recavano in visita l’una dall’altra, annunciandosi con biglietti recapitati dalla servitù. Il reddito familiare era assicurato dallo stipendio del padre, docente universitario di botanica e insegnante di scienze naturali al liceo Vittorio Emanuele, nonché dagli introiti delle sue pubblicazioni per le scuole, che si intitolavano tutte “Sinossi”. Quando la mattina il professore arrivava a scuola, accompagnato dai tre figli maschi che di quel liceo erano alunni, gli studenti dicevano: “Ecco Sinossi e i Sinossielli”. In qualche modo, anche gli zii scapoli contribuivano al ménage, col sobbarcarsi le spese dei ricevimenti che organizzavano in casa e con frequenti regali, soprattutto di vestiario, ai nipoti. Erano entrambi avvocati e mondani. Il più giovane di loro, impegnato in politica, era anche un ammirato spadaccino e non erano rare le volte che usciva di casa all’alba per fare da protagonista o da padrino in confronti d’onore, originati quasi sempre da ingiuriosi lanci di caffettiere da un tavolo all’altro del caffè Gambrinus; luogo per altro anche delle riconciliazioni. Le quali, talvolta, erano funestate da nuovi lanci di caffettiere.
Da giovane Maria era molto bella, con capelli e occhi nerissimi, slanciata, il naso leggermente aquilino. In un ritratto a figura intera dipinto dal fratello Federico, vestita di un abito rosso fiammante, aveva un che di gitano. I corteggiatori non si contavano, perché alla bellezza si aggiungeva il fascino di una personalità intensa e ironica, frutto di una cultura letteraria che si era fatta leggendo avidamente i libri della ricca biblioteca di casa, alimentata in continuazione dal padre e dagli zii. Era anche una formidabile medium, al punto di non riuscire a liberarsi, certe notti, delle presenze evocate nelle sedute, che continuavano a battere colpi al suo letto. A volte si divertiva a tenere una mano sospesa su una poltrona o un tavolino, e a vederli piroettare sotto l’influsso che da lei promanava.
Non si sposò mai, per la disperazione dei tanti innamorati. Rimasta sola, poco dopo la seconda Guerra mondiale, andò a vivere con i miei. Mio padre, vittima dalla nascita di quattro sorelle maggiori, quale più quale meno tutte dal piglio militaresco, trovò in lei una sorella del tutto diversa la cui dolcezza lo sorprendeva ancora dopo molto tempo.
Quando nacqui io Maria poteva avere circa quarant’anni. Mi accompagnò per l’infanzia, l’adolescenza, la giovinezza, donandomi l’amore di una seconda madre, insaporito tuttavia da certe sfumature di demagogia e di complicità che un vero genitore non può permettersi. La sola occasione in cui, da bambino, diffidavo di lei era quando parlava in francese con i miei. Non avevo tutti i torti, visto che quell’incomprensibile confabulare preludeva spesso a una visita dal pediatra, l’amico di famiglia Renato. Un uomo mite, con la erre moscia, orecchie gelide e basette ispide al cui contatto la mia schiena nuda rabbrividiva, rimasto scapolo per non essere riuscito neppure lui a fare breccia, in passato, nel cuore della fatale Maria.
Maria, o piuttosto Tètta, come io la chiamavo fin da un primo balbettare infantile, è stata la più grande narratrice orale che abbia conosciuto, la mia Sherazade personale. Ricordo ancor oggi, a sprazzi, parti delle sue favole, attraversate quasi sempre da un soffio di sensualità o sottile crudeltà che più che sconcertarmi, mi catturavano con trasognata seduzione. Come la storia del bel cavaliere che, per penetrare negli inaccessibili appartamenti della principessa, si faceva rinchiudere in un grande leone tutto d’oro (su mia richiesta mi veniva assicurato che lì dentro c’erano anche cibo, bevande e un vasetto per i bisogni). Incapricciatasi del prezioso oggetto, la principessa otteneva dal padre, sovrano temibile ma incapace di negare nulla alla figlia, di farselo regalare e depositare in camera da letto. Oppure l’altra storia della giovane maga che, messasi in cammino per andare a conquistare l’inaccessibile cuore del Re Superbo, attraversava mille avventure. E una volta le capitò di essere ospitata alla corte di un re che deperiva giorno dopo giorno. E lei scoprì che la regina lo tradiva con un erculeo schiavo negro e ogni notte, prima di abbandonarsi nelle braccia dell’amante, somministrato un sonnifero al marito, gli succhiava il sangue dalle vene con una sottile cannuccia d’argento, per farlo morire piano piano. Non so se Tètta lo facesse ad arte o se le venisse naturale, ma quando giungeva all’inevitabile lieto fine delle sue storie, dove i giusti trionfavano e i reprobi erano puniti, lo raccontava in modo da insinuare in me una certa noia per quella rassicurante, quanto banale, conclusione e una segreta nostalgia, invece, per i passaggi più tenebrosi e inquietanti delle vicende.
Oltre che fantasiosa affabulatrice, Tètta fu per me anche la memoria storica del ramo materno della famiglia. Quel crocifisso in legno che pendeva sul suo letto, e che tuttora in casa mia rende presente, con il morboso realismo barocco della scultura, tutto lo strazio di un’agonia atroce, veniva dalla cella di Zi’ Monaca, prozia della madre e badessa di Sant’Eligio. Era entrata in convento a undici anni e, da novizia, in osservanza della regola le avevano assegnato le incombenze più mortificanti; come il giro delle celle, all’alba, per raccogliere i vasi riempiti dalle suore durante la notte. E in quei corridoi deserti e ancora bui più di una volta l’avvilita monaca bambina aveva incontrato delle anziane suore che le avevano rivolto parole di conforto. Aveva poi saputo che erano suore morte, ma che doveva considerarsi fortunata per quegli incontri che denotavano benevolenza verso di lei. Davanti a quel crocifisso Zi’ Monaca aveva assiduamente pregato, durante la sua lunga vita, per tutti i peccatori: innanzitutto per i suoi fratelli miscredenti, liberali e massoni; ma anche per Giuda Iscariota che, a giudizio di lei, pur se aveva fatto quello che aveva fatto, era solo stato uno strumento della volontà di Dio. Il crocifisso era stato deposto sulla coltre funebre di quasi tutti i morti della famiglia e l’ultima a esserne coperta fu proprio Tètta, che spirò a casa. Per gli altri, spentisi in ospedale, sarebbe stato un rischio troppo forte esporre un oggetto così prezioso in una cella mortuaria pubblica.
La sciabola con la coccia di ottone e le tante nature morte che riempivano le pareti di casa venivano dal suo nonno materno Federico. Era ufficiale di cavalleria e un giorno, durante delle manovre, per un ordine sbagliato dato dal re Ferdinando II in persona, cadde da cavallo e fu calpestato dall’intero squadrone. Stette a lungo fra la vita e la morte, ma poi guarì. Di tornare in arcione, comunque, neppure a parlarne. E allora il re, che si sentiva responsabile dell’accaduto, gli affidò la direzione dell’Albergo dei Poveri. Nelle lunghe ore libere l’ex ufficiale rispolverò una vocazione giovanile, sopita negli anni di carriera militare, e si mise a dipingere. I suoi lavori erano soprattutto nature morte, che vendeva anche bene: specialmente in Inghilterra, a quanto sembra, visto che la figlia ricordava che di tanto in tanto si faceva vivo un signore che parlava strano, il quale si portava via un certo numero di tele e lasciava dei rotolini di monete d’oro, che poi erano sterline. Fu per la famiglia del pittore un periodo di discreto benessere e serenità, che mia nonna evocava spesso con un velo di nostalgia, esordendo: “Quando stavamo all’Albergo dei Poveri…”
Una quindicina di quei quadri sono ancora sparsi fra me e qualche cugino. La maggior parte li ho io, eppure mi rammarico di non aver avuto, anni fa a Londra, i soldi per acquistare una natura morta esposta a Portobello Road, che mi sembrava proprio potesse essere stata dipinta ed “esportata” dal mio bisnonno.
Poi c’era la stelletta che a Maria aveva regalato Augusto, in partenza per il fronte, staccandosela dalla giubba. Augusto era un assistente di mio nonno alla cattedra di botanica e socialista, si può dire, di famiglia. Suo fratello, Amadeo, sarebbe poi stato fra i fondatori del Partito Comunista d’Italia. Fu l’unico uomo, a quanto pare, di cui Maria fosse stata veramente innamorata; e temette molto per lui una volta che fu per cacciarsi in un pasticcio alquanto pericoloso. Erano sulla terrazza di amici comuni per vedere sfilare le truppe che, al canto di Tripoli bel suol d’amore, andavano a imbarcarsi per la Libia. Da finestre e balconi venivano sventolati i tricolori, e anche da quella terrazza il tredicenne Federico ne agitava uno. Fulmineo, Augusto glielo tolse dalle mani e, arrotolatene la banda verde e la bianca, quella con lo stemma sabaudo, si mise a sventolare dal parapetto solo la parte rossa. Altrettanto fulmineo, un ufficiale dei Bersaglieri che era fra gli ospiti, con tanto di uniforme, gli si parò davanti, lo chiamò traditore e gli diede uno schiaffo. E urlò ancora: “Non finisce qui, mi darete ragione con le armi di questa vostra offesa alla patria!”
In quanto uomo di studio, nonché nemico dichiarato dei riti borghesi, Augusto non sapeva niente di scherma. Non intendeva tuttavia tirarsi indietro e fare la figura del codardo, tanto meno agli occhi di Maria. E allora, avvalendosi del diritto che lo sfidato ha di scegliere il tipo di arma con cui battersi, ebbe la brillante idea di indicare la pistola. Il che gettò nella costernazione tutti quelli che gli volevano bene, perché certamente nemmeno di pistole il giovane botanico ne aveva mai maneggiato una.
Augusto nominò come proprio padrino Alberto, lo zio spadaccino di Maria, per la verità più vicino alle idee dello sfidante che alle sue, ma comunque caro amico ed esperto in questioni cavalleresche. E mai scelta fu più provvida, perché Alberto era anche, per affetto, preoccupato dell’incolumità del suo mandante, come avvocato, un fine persuasore e, da politico, un abile manipolatore di divergenze e convergenze ideali. E pare che, tirando in ballo il favore mostrato dal socialista Bissolati alla campagna libica, e anche l’entusiasmo dell’altro socialista, oltreché vate, Pascoli per l’iniziativa bellica dell’Italia - “La grande proletaria s’è mossa!” -, riuscisse a convincere l’indignato ufficiale che intenzione di Augusto non fosse altra che quella di mostrare ai soldati, ai figli del popolo che andavano a liberare la Quarta Sponda dalla barbarie ottomana, la vicinanza morale di tutto il proletariato italiano: povera gente che il giovane, e quelli che la pensavano come lui, in buona fede nella loro obnubilata utopia, si illudevano di rappresentare.
Lo sfidante prese, o volle prendere, per buona questa spiegazione e, pur senza ridursi a scuse formali, ammise che forse il suo era stato un malinteso, ritirando la sfida. Fu poi alquanto difficile placare l’orgoglio ferito di Augusto, che lo schiaffo l’aveva preso e non condivideva affatto l’interpretazione politica travisante e riduttiva che si era voluta dare del suo gesto. Ma sia l’amico Alberto, sia il paterno titolare di cattedra, sia soprattutto Maria alla fine vi riuscirono.
L’essersi salvato quella volta da una pistolettata pressoché sicura non allungò tuttavia di molto la vita del giovane socialista che, qualche anno dopo, fu tra i primi fanti italiani a sperimentare l’efficacia dei gas asfissianti che un imperial-regio nemico aveva studiato per loro. A Maria restarono la stelletta, le evocazioni sempre più rarefatte al tavolino e il pervicace impegno nel disdegnare qualunque altra offerta di amore.
Maria visse a lungo, dedicandosi, attraverso gli anni, ai suoi vecchi, ai fratelli, alla sorella, a me. Assistette lo zio Alberto (il mio adorato “Zio Vecchio”) fino alla morte, che avvenne in un paese dove erano sfollati e che si trovò lungo la strada della rabbiosa ritirata tedesca dal litorale salernitano dove erano sbarcati gli alleati. La bara fu portata al cimitero su un carrettino a mano mentre piovevano schegge e gli sciacalli del posto invadevano le case. Negli ultimi anni un compito di Maria era stato anche quello di fare da scudo al povero vecchio, senatore del Regno e unico fascista della famiglia, contro gli strali impietosi dei suoi fratelli Achille e Alberto (iunior). Dall’orbace dello zio ricavò poi una giacca per sé, e dalla camicia nera il mio grembiule delle elementari.
Per tutta la vita Maria fu perseguitata, nella persona fisica, da una misteriosa forza che le attirava gli incidenti. Ancora bambina, mentre era affacciata al balcone, le finì in un occhio un piccolo e durissimo fico acerbo che un ragazzo, nella strada, si divertiva a lanciare in alto. Un’altra volta, sempre in un occhio, fu saettata dal fiocco di una frusta che un cocchiere di carrozzella faceva schioccare mentre, di carriera, portava all’ospedale delle persone intossicate da cibi guasti. In entrambi i casi fu in cura da un oculista che molti anni dopo – coincidenze -- sarebbe stato il mio nonno paterno. Fui poi testimone io stesso di quando, sfondatosi un solaio, precipitò al piano di sotto. Cadde su un presepe di sughero, che attutì l’impatto. Il proprietario del presepe provò poi a farsi risarcire, sostenendo che si trattava di una preziosità del Settecento. Ma dovette ritirarsi quando si scoprì che struttura portante dell’oggetto di antiquariato era un cartone ondulato con la scritta “Condicirio”. Quando Maria attraversò, su una barella dei pompieri, il vicolo sotto casa, vennero giocati dei numeri e in diversi vinsero un terno. Oltre che testimone, fui anche suo soccorritore, anni dopo, allorché, entrati per primi lei ed io in una casa affittata per la villeggiatura, si tirò addosso un intero armadio, per fortuna aperto, per cui restò ammaccata ma non schiacciata. Suo fratello Achille commentava: “Le novantanove disgrazie di Pulcinella”.
Maria si divertì sempre, come poté, a sconcertare quelli che si aspettavano di trovare in lei una figura convenzionale. Quando, al tempo del referendum sul divorzio, dei ragazzi dell’Azione cattolica bussarono alla porta per avere conferma del suo sostegno di anziana signora alla causa antidivorzista, li licenziò dicendo che andassero da qualcun altro, perché lei era vecchia, certo, ma non antica.
Non posso dimenticare i lunghi colloqui, intensi di una tenerezza che il pudore cercava di minimizzare nei paradossi, che facevo con lei, accanto al suo letto, fino a notte tarda, quando tornavo a casa di tanto in tanto da Milano, mentre già si andava spegnendo. Fece in tempo a conoscere il primo dei miei figli - il suo “piccolo grande tesoro” - ma non la seconda, della cui nascita ebbe solo notizia, ma che si affrettò a ribattezzare, da lontano, “piccolissimo grandissimo tesoro”.
Quando entrò in agonia, mi precipitai, con l’aereo, ma la trovai già morta. La sua fu la prima fronte gelida che le mie labbra abbiano baciato. Sul petto, il crocifisso di Zi’ Monaca. Le avevano trovato nel pugno una stelletta militare. Conservo io anche quella.
(α. π.)