Mia zia Candida ha insegnato latino e greco a due generazioni. Il greco, in particolare, era la sua passione fin da giovanissima; quando, ginnasiale, ai primi del novecento, compiva la traversata del golfo da Napoli a Sorrento, dove la famiglia villeggiava, si divertiva a coniugare i verbi contratti seguendo la cadenza della macchina del vaporetto a ruote: timò, timàs, timà…
Oltre che al liceo, il suo insegnamento si svolgeva anche in famiglia ed era rivolto a me e a mia cugina Maria Rita, di un anno più grande, unici suoi nipoti. Ci adorava e ci riempiva di soldi e regali -- in casa la chiamavano Il Banco di Napoli -- , ma quando si metteva a farci lezione subiva una metamorfosi, diventando di una severità inflessibile. Tenerezza e intransigenza sperimentate in seguito anche dai figli di Maria Rita e miei che d’estate, quando erano piccoli, sempre a Sorrento, le stavano intorno come pulcini; ma che, più grandicelli, allorché fiutavano il pericolo di una lezione “di mantenimento”, passavano furtivi, davanti alla sua porta sul pianerottolo, con gli zoccoli in mano, paventando sortite improvvise e perentori reclutamenti.
Candida era rimasta vedova ancora giovane, poco dopo essersi sposata. E di quel breve tempo del suo matrimonio era riuscita a costruirsi un buon ricordo. Aveva conosciuto Modestino quando questi era appena reduce dalla Grande Guerra, stravolto dalla trincea, prima, e dalla prigionia in Austria, dopo. La sua famiglia, gli Alife, una volta ricca, era caduta in miseria, un po’ per le bizzarrie del padre, molto per la defezione dei titoli tedeschi e austriaci, fonte di benessere prima del conflitto e poi carta straccia. Modestino, immune da ogni preoccupazione fino alla chiamata alle armi, non aveva adesso né arte né parte e diceva di meditare il suicidio. Candida lo convinse a tentare, prima di decidersi al gesto, il diploma di ragioniere, per poi trovarsi un impiego. Lei lo avrebbe aiutato.
E lo aiutò. Clandestinamente, perché suo padre (nonno mio e di Maria Rita), medico e, come usava una volta, diagnosta alla prima occhiata, avendo una volta sorpresi gli innamorati alla fermata di un tram, per cui le presentazioni erano state inevitabili, aveva poi sentenziato: “Quello ha poca salute”, vietando alla figlia di continuare a frequentare il giovane.
Diciamo pure che fra Candida e il padre i rapporti erano stati sempre di una certa complessità. Quando lei era ancora alle elementari, ebbe la sventura che lui si andasse a informare, verso la fine dell’anno scolastico, sull’andamento di sua figlia. La maestra gli disse che era eccezionale in tutto, ma un po’ debole in aritmetica, e che comunque meritava la promozione alla classe successiva. “Niente affatto”, disse il padre di Candida, allora maggiore medico del Regio Esercito, “se mia figlia è debole in qualche materia, che ripari”. E riuscì a convincere la pur riluttante maestra a rimandare a ottobre la bambina per la sola aritmetica. Parliamo di scuole di una volta. La cosa non finì là. L’indomani della bocciatura, il Maggiore informò Candida che sarebbe stato lui stesso a darle ripetizioni. E, per prima cosa, la condusse con sé al mercato per scegliersi, lei stessa, la cucchiara, il cucchiaio di legno, con cui i suoi glutei sarebbero stati percossi in caso di scarso impegno nello studio. Non sono in grado di dire come la vittima e il carnefice si accordassero sullo strumento. Quello che è certo è che Candida aveva fin da piccola – e ha avuto per tutta la vita – un carattere di ferro. “Un Capricorno”, dice Maria Rita, che di astrologia se ne intende. E quindi, per protervia, non faceva nessuno dei compiti che il padre le assegnava. Quando però, di sera, si avvicinava l’ora del suo rientro si metteva alla finestra fino al momento in cui, visto il suo kepì sbucare dall’angolo, gridando “eccolo, eccolo!” si andava a chiudere nel bagno. Il che inaspriva ancora di più il genitore in quanto, oltre ad esser messo davanti all’evidente inadempienza della figlia ai propri doveri, veniva privato, con quell’arroccamento, di un ristoro che una lunga giornata di lavoro gli stava facendo probabilmente sospirare da parecchio. Per cui, una volta espugnato quel rifugio, le “cucchiarate” si sprecavano. Preparando, per l’indomani, una ancor più pervicace ostinazione della bambina nel disubbidire. Candida, comunque, trovava il modo di scaricare le sue tensioni sputando negli occhi della sorellina, zelante e delatrice, e riempiendo di pizzicotti il fratello neonato, in modo che piangesse e che la madre la esonerasse dal compito di badargli.
Candida fu, per il suo Modestino, un “Bignami” ante litteram, trascorrendo intere nottate a redigere riassunti di letteratura italiana, storia e geografia. Pare gli pagasse anche, col suo stipendio di supplente, le lezioni private di discipline per lei astruse, come la contabilità e la matematica attuariale. Grazie al cielo, con le lingue il giovane se la cavava, avendo appreso, da piccolo, quando gli Alife erano più che agiati, il francese, insegnatogli da una bambinaia-istitutrice, e poi il tedesco, per sopravvivere durante la non breve prigionia in Stiria. Quando i due si incontravano di nascosto, a un giardinetto pubblico, dietro la stazione di una funicolare o, nei casi più fortunati, nel pur sempre sorvegliato salotto di complici amici, piuttosto che baci si scambiavano appunti e temi da correggere, più che sull’amore era sugli argomenti di studio che vertevano le richieste della tenera fidanzata. Quando si dice un Capricorno.
Come Dio e le agevolazioni per i reduci vollero, il privatista Modestino prese il diploma di ragioniere. Poi, in possesso di questo, e sempre grazie alle virtù, conferitegli dalla storia, di ex combattente e prigioniero dell’iniquo nemico, fu assunto al Banco di Napoli.
Pare che quando ne diede notizia al padre, cavalier Enea, questi simulasse sinceramente un attacco di cuore: mai si era visto che un Alife dovesse lavorare per vivere. Ma poi si era ripreso, e anche rassegnato, a seguito delle premure della moglie e dei ragionamenti che, con l’opportuna delicatezza, lei gli aveva fatto circa la situazione economica della famiglia.
La signora Alife, fin da poche ore dopo la celebrazione del suo matrimonio, aveva imparato a subire. Erano andati, lei e lo sposo, in viaggio di nozze a Sorrento. “Aspetta un momento qui”, disse lui quando furono nella piazza del paese, “che vado a trovare un albergo”. Alla fine dell’ottocento si faceva così. E, lasciatala su un marciapiede accanto ai bagagli, chiamò una carrozzella. Poteva essere mezzogiorno. Tornò verso le nove di sera. “Mi sono fatto portare fino a Massa Lubrense”, le disse, ripescandola, sconvolta, nello stesso punto in cui l’aveva lasciata. “Ma che vuoi, il paesaggio era così bello, l’aria così incantata, che non ho resistito: ho mangiato lì, da dei contadini, e ho aspettato il tramonto su Capri”. Aveva composto, nell’occasione, dei versi, annotandoli sul margine del giornale. Li declamò alla sposa, una volta preso alloggio, finalmente.
Nonostante le traversie economiche, gli Alife riuscivano ancora a conservare il loro vasto appartamento, e la giovane coppia di Candida e Modestino vi andò ad abitare. La cerimonia nuziale era stata quanto mai sobria, e il padre della sposa non c’era; all’altare l’accompagnò il giovanissimo, unico fratello, poco più che liceale, di solito succube del rigido vecchio, ma a sprazzi ribelle. Della coabitazione con i suoceri e la sorella di Modestino, Candida nella vecchiaia conservava un ricordo dolce, dorato dal rimpianto, e anche da una inconsapevole, quanto evidente agli altri, volontà di dimenticarne le asprezze. Raccontava che la suocera aveva sostituito, col suo affetto, la madre che aveva perso da poco, e che la cognata, Grazia, era stata per lei una nuova sorella. Modestino, poi, era il marito più tenero e appassionato che si potesse desiderare.
Per la verità, quei pochi anni di matrimonio non pare fossero stati così idilliaci, secondo le impressioni raccolte dai fratelli di Candida e qualche breve sfogo cui lei si era lasciata andare in quel tempo, o poco dopo. La suocera era, sì, affettuosa, ma la sua personalità veniva completamente annientata dalla stizzosa dispoticità del marito e dai capricci teatrali della figlia. Modestino, per parte sua, passava sempre più tempo fuori casa, assorbito dai successi che mieteva come organizzatore e lepido animatore del dopolavoro della banca, iniziativa assai ben vista dal Regime. Quando poi stava con lei, tutte le occasioni erano buone per accusarla di incomprensione verso quella sua povera sorella dai nervi così deboli. Riguardo all’ardore, pare non fosse neppure il caso di parlarne. La diagnosi di mio nonno alla fermata del tram cominciava a mostrarsi indovinata. Per giunta non erano poche le volte che Grazia, gelosissima del fratello, si presentava in piena notte nella camera degli sposi, pretendendo, e ottenendo, di coricarsi fra loro due, pena scenate isteriche e corse verso la finestra per buttarsi di sotto.
Candida non fu tuttavia mai neppure sfiorata dal pensiero di andarsene, col marito o senza, da quella casa. Il debito coniugale contratto – sebbene ridotto dalle circostanze alla sola assistenza --, ma anche la caparbia volontà di non riconoscere le ragioni del padre, glielo impedivano. Tanto più che di assistenza Modestino incominciava ad avere veramente bisogno, essendosi il suo cuore messo a fare, nei momenti più impensati, dei preoccupanti sobbalzi che gli mozzavano anche il respiro.
Una domenica, mentre di sera il dopolavoro tornava da una gita, sul Treno Popolare a Modestino si strozzò in gola il canto alpino di cuoi era corifeo. Si fece bluastro, con le labbra nere, e perse conoscenza. Portato dalla stazione all’ospedale, morì durante la nottata.
La giovane vedova restò nella casa dei suoceri ancora per qualche mese. Poi la nomina di ruolo presso un liceo della provincia fu l’occasione per uscirne. Prese in affitto una camera in un convitto di suore, non di clausura ma di buon fiuto commerciale. Lì sarebbe restata fino all’andata in pensione, vergine come le sue ospiti, secondo quanto fatto trapelare da qualcuna delle convittrici alle quali dava ripetizioni gratis, che aveva particolarmente conquistato la sua confidenza. A questo proposito, tutto quello che a me risulta è che, una delle rarissime volte in cui i suoi discorsi andarono un po’ oltre i limiti di un’assoluta castità, parlò della congiunzione fra innamorati come di una impellenza fisiologica a volte inevitabile, simile al dover andare di corpo dopo essersi nutriti. Volpe e uva, inestirpabile moralità censoria, orgoglio di Capricorno, o mescolanza di tutte e tre le cose?
Una ventina di anni dopo quel trasferimento, la raggiunse la notizia che la cognata Grazia si era finalmente gettata dalla finestra, uccidendosi. E una notte, nel dormiveglia, sentì la sua voce che la invitava a seguirla. Le “chiamate” della suicida si fecero poi sempre più frequenti, tanto che la superiora, con cui Candida si era confidata, comprensibilmente preoccupata per più di un motivo, ne informò i fratelli. Candida fu ricoverata in una casa di salute dove il primario, prof. Martone, la sottopose subito a reiterati elettroshock che in qualche modo smorzarono i richiami di Grazia. La paziente, dopo le prime applicazioni, fu seguita dal viceprimario, essendo nel frattempo il prof. Martone morto in un incidente d’auto causato, a quanto si seppe, da sua imprudenza.
Sarà stato quello che sarà stato, il farsi sostituire da un’altra vittima, come qualcuno disse, che aveva placato le brame della morta, fatto è che Candida, dimessa dalla clinica e dopo una congrua convalescenza, dimenticò del tutto i suoi spettri, pur ricordando con memoria sempre più lucida ogni sfumatura della grammatica, della sintassi e della letteratura greca e latina. E tornò al suo liceo. Fu da allora che, di quella memoria, fruimmo Maria Rita e io; e dopo di noi i nostri figli, quando pensionata, dopo una toccante cerimonia di commiato in cui le fu regalata una pregevole copia dell’Apollo del Belvedere, si era ritirata a Sorrento.
Forse Zia Candida visse troppo a lungo. L’arteriosclerosi trasfigurò implacabilmente la sua dolcezza in asprezza, il suo altruismo in sospettosità, le sue parole tenere in motti taglienti. L’ultima domestica che riuscimmo, per poco, a farle accettare, una somala, se ne andò via stravolta, accompagnata dall’epiteto di “ascara infedele”, cosa ben diversa dagli “ascari fedeli” che aveva conosciuti in gioventù. Si consumò in una casa di riposo, affacciata sul mare della sua infanzia, che però non riconosceva più. Si esprimeva sempre più di frequente attraverso citazioni in latino, cercando così di venire incontro al personale dell’ospizio, da cui, indulgente, non pretendeva anche la conoscenza del greco. Giunse a ripetere in continuazione, fino a farne una cantilena per l’intera giornata: “Sunt lachrimae mortalia rerum”.
Quando si assopì per sempre era una vigilia di Natale e aveva da pochi giorni compiuto cent’anni. La casa di riposo scintillava di festoni e palloncini sistemati dal volontariato. Si aspettavano febbrilmente le visite del sindaco e del vescovo. La salma fu occultata nella sacrestia della cappella, per non rattristare i riti gioiosi della nascita del Signore. Di messa funebre, data la coincidenza con l’Evento, neppure a parlarne. All’alba del santo giorno la bara di Candida fu quasi trafugata per essere portata al cimitero, dove frettolosi becchini, sotto una pioggia sottile, la misero a dimora, scalpitando alle preghiere che un giovane prete si ostinava a recitare.
Si era nel segno del Capricorno.