Il Dottor Alberto Pascale, napoletano, medico, era nato intorno al 1860, anno più anno meno. Il padre, Vincenzo, medico anche lui, veniva ricordato dai familiari per l’alta statura, accentuata dal cappello a cilindro, e per aver curato i colerosi di Napoli nell’epidemia del 1883, durante la quale esortava la moglie ad acquistare frutta e verdura in abbondanza, approfittando del ribasso dei prezzi. Di lui si diceva anche che fosse il beniamino di alcuni conventi di suore che aveva in cura e che, medico militare del neonato Regno d’Italia, prescrivesse ai soldati di provenienza sabauda prodighe dosi di chinino e olio di ricino mormorando a mezza bocca: “suda e caca, piemontese fesso”.
Appena laureato, Alberto fu anche lui ufficiale medico nel Regio Esercito. Ebbe, giovanissimo, una compagna che morì nel partorire, assieme alla creatura, e che non aveva potuto sposare per il divieto vigente sul matrimonio degli ufficiali al di sotto di una determinata età.
Partecipò alla battaglia di Adua (1896), dove poi raccontava di non aver usato la sciabola (che chi scrive conserva) ma soltanto il bisturi. A quel tempo doveva aver già sposato mia nonna, Olimpia, visto che la loro primogenita era nata intorno al 1892. Ebbero poi altre tre figlie femmine e finalmente, nel 1900, un maschio che però morì di polmonite poche ore dopo la nascita. Il morticino fu battezzato Umberto, in omaggio al re ucciso qualche mese prima, anche per serbare il nome del nonno, Vincenzo, per l’auspicabile prossimo maschio. Che, con immaginabile sollievo di Olimpia, arrivò nel 1903, visse e fu mio padre: Enzo, in famiglia.
Nei primi anni del ‘900 Alberto fu imbarcato, come ufficiale medico e Commissario regio, sulle navi degli emigranti in Nord America. Pare fosse di casa a Ellis Island, dove cercava di sottrarre il maggior numero possibile di compatrioti alla quarantena. Mio padre e le mie zie mi raccontavano dei pranzi nel quadrato ufficiali quando “il vapore” faceva scalo a Napoli e del loro tormento per dover sbucciare la frutta con forchetta e coltello. Durante una traversata curò da una brutta infezione un ricco passeggero americano, che in segno di gratitudine gli donò un revolver decorato in argento. Conservo anche quello.
Non so molto di lui durante la Grande Guerra, a parte il fatto che, addetto alle commissioni di leva, ne tornava stravolto per aver dovuto dichiarare idonei al fronte dei ragazzi di poco più grandi di suo figlio ed essersi anche trovato a fronteggiare le pressioni di amici che, comprensibilmente, lo supplicavano di esonerare i propri figli. Verso la fine del conflitto, il quindicenne Enzo, dei Giovani Esploratori Italiani - quelli laici, come si conveniva al figlio di un massone anticlericale - fu mandato a La Spezia come ausiliario nell’ospedale militare. Si salvò dalla Spagnola perché, ai primi sintomi, i medici, riconosciuto in lui il figlio di uno stimato collega, lo presero subito in massima cura sottraendolo al lazzaretto. Quella breve esperienza fu comunque sufficiente per fornire al ragazzo un consistente repertorio interregionale di turpiloquio e blasfemia, che avrebbe perfezionato in seguito durante la naia e che mi si sarebbe disvelato quando, arrivato io alla scuola media, quel ragazzo, divenuto mio padre, iniziò a darmi ripetizioni di latino e matematica.
Congedatosi dall’esercito, il Dottor Alberto aprì a Napoli un ambulatorio di oculistica, riservando un giorno alla settimana a visite gratuite per i poveri; dovette tuttavia porre fine a questa iniziativa a seguito dei ripetuti atti di vandalismo che gli devastavano la sala di attesa.
Come padre fu dispotico e illuminato. Pur trasferendo fra le mura domestiche la disciplina della caserma, fu liberale nell’educazione dei figli e, cosa rara a quel tempo, fece laureare tutte le femmine, che potrei ricordare così: Emilia, matematica e mistica, quasi ieratica; Bianca, umanista dotta e ribelle; Anna (Ninì), pedagoga inflessibile, melodrammaticamente altruista; Ada, madre e insegnante capace di nascondere il rigore morale sotto un anticonformismo apparentemente spregiudicato.
Qualche episodio. Quando Bianca era alle elementari, Alberto esortò la maestra a non indulgere alla sua debolezza in aritmetica e a rimandarla ad ottobre. Poi condusse la bambina al mercato per scegliere la cucchiara (cucchiaio di legno) con cui sarebbe stata sculacciata se non avesse studiato a dovere. E quando poi Bianca crebbe, avendola incontrata a una fermata di tram in compagnia di un giovanotto, tornati a casa le disse: “Quello non tiene salute”. Ostinatasi lei a sposarlo, non andò al matrimonio. Dopo poco il giovane morì. Una volta che Ninì gli lavò un paio di pantaloni senza avergliene chiesto il permesso, se li fece ridare e li indossò bagnati come erano, dicendo “Se prenderò una polmonite sarà stata colpa tua”. Quando Enzo gli manifestò il desiderio di iscriversi a Medicina rispose: “Fallo pure, se vuoi dare una coltellata al cuore di tuo padre”, per cui il ragazzo scelse Ingegneria; il giorno in cui si laureò, dopo averlo redarguito per il ritardo a cena commentò: “Adesso puoi aggiustare il cesso e il campanello”. Negli ultimi anni - era già vedovo - ogni sera leggeva a letto qualche passo di Tacito, in latino. Poi suonava un campanellino: arrivava Ada con una tazza di caffè; lui la beveva e si addormentava. Intorno ai 70 anni si autodiagnosticò un tumore alla prostata; a coloro che lo esortavano ad operarsi disse: “Lasciatemi morire in pace”. Cosa che fece, poco tempo dopo.
Oltre alla sciabola, lasciò alcuni strumenti chirurgici, una cassetta in noce, stile liberty, con tutte le lenti per la misurazione della vista (che conservo io), e un pregiato Atlante di anatomia illustrato con incisioni su rame, che la zia Ninì conservava e che non volle mai lasciarmi sfogliare, per ragioni morali. Purtroppo è andato perduto.
Del Dottor Alberto conservo anche una pubblicazione, Note mnemoniche di anatomia umana normale; un “Bignami” ante litteram che pare avesse un certo successo fra gli studenti, visto che ne fu fatta anche un’edizione postuma. L’aveva scritta, si legge nella prefazione, “nella lusinga di non aver fatto opera vana per tutti quelli che, con giustificabile orgasmo, si accingono a superare l’ardua prova di un esame di Anatomia umana normale”.
a. p. (jr), marzo 2018