7° Giorno, 10 aprile

7 giorno - giovedì 10 aprile 2014

ROVIGO - SAN MARTINO di VENEZZE (km. 16 circa)

Anche oggi mi servo del treno che mi porta a Rovigo. Faccio una breve visita della città che mi stupisce per quella sua aria tranquilla e serena.

E’ giorno di mercato e gli abitanti convergono nelle piazze e, data la magnifica giornata di sole, affollano i tavolini esterni dei bar.

Ricordavo questa città con aspetto di "paesone" della bassa, ma molto hanno lavorato gli abitanti del luogo per recuperare una loro orgogliosa identità e fierezza, quasi una rivalsa verso un terreno ostile.

Povertà ed emigrazione furono la costante di questa gente polesana; soprattutto negli ultimi due secoli che, come risorsa di vita, si nutriva solo di polenta. Non a caso la Pellagra era la loro costante orribile e terrificante compagna di vita.

In tempi antichi qui vi erano solo acquitrini, data la posizione fra Adige e Po, che tracimavano ripetutamente, quasi curiosi di investigare questa vasta pianura assolata o nebbiosa. Solo rari reperti testimoniano la presenza di popolazioni venete e romane.

Mare e montagne sono lontane da quest'habitat naturale; ciò nonostante l'uomo, attraverso i secoli, ha saputo imbrigliare con ostinato lavoro i due fiumi principali costruendo argini e numerosi canali per rendere fertile e produttiva la zona. Rovigo è diventata così un importante polo agricolo ed in tempi recenti anche industriale.

Il primo documento che riguardi la città risale al '838, e nel X sec. fu eretto un castello difensivo appartenente ai vescovi di Adria e poi agli Estensi. Oltre agli Estensi, con alterne vicende, la città appartenne ai Carraresi di Padova, alla Serenissima, agli Spagnoli ed agli Austriaci. Ritornata alla Serenissima, seguì poi la storia della Regione.

Tre sono le torri rimaste: una fra le più alte d'Italia e l'altra mozza sono visibili in Corso del Popolo. E con loro pochi ruderi delle mura, sono quel che rimane dell'antica cinta muraria e del Castello, cinta in gran parte distrutta a fine '800 per far posto alla città.

Sulla Piazza Vittorio Emanuele, oggi riempita di bancarelle, si affacciano: il Municipio (già Loggia dei Notai) del XVI sec., la settecentesca Torre dell'Orologio e l'Accademia dei Concordi che ospitava collezioni di pittura ed una sezione archeologica oltre ad una ricca Biblioteca.

Le collezioni di pittura sono state trasferite, dal 2006, nel quattrocentesco Palazzo Roverella che ospita anche interessanti mostre temporanee.

Ci sono altri bei Palazzi ed alcune magnifiche ville in stile liberty. E poi non manca il Teatro Sociale ed il Conservatorio di Musica "Francesco Venezze".

Dopo aver gironzolato per la città, gusto un ottimo caffè e ritorno nella zona della stazione, procedendo poi sulla provinciale che porta a Boara Polesine a destra del fiume Adige e, attraversato il ponte, a Boara Pisani, sulla sinistra, in provincia padovana.

Il lungo vialone che esce da Rovigo è per lo più zona industriale o commerciale, nulla che mi interessi in queste costruzioni anonime simili in tutto il mondo.

Arrivo finalmente al ponte che attraverso per dare “un’occhiata" al paese padovano, in realtà è simile a quello polesano. Solo le due chiese caratterizzano un diverso momento della storia.

I due paesi inizialmente erano un'unica comunità, una delle più antiche del Polesine (XII sec.). Fu per volere della famiglia Pisani che nel 1563 fu costruita una nuova Chiesa e quindi una nuova Parrocchia creando di fatto un nuovo paese.

In questo tratto, dove l'Adige fa le bizze, la ricchezza era rappresentata proprio dalla pesca e dalla macinazione dei cereali per i numerosi mulini lungo il fiume. Un semplice approdo diede naturalmente impulso al trasporto lungo l'Adige e ovviamente all'agricoltura.

Tutto cessò con la seconda guerra mondiale quando Boara Polesine ed i suoi Ponti (ne esiste anche uno ferroviario) subirono ben centoquaranta bombardamenti. La Chiesa e molti edifici andarono persi così come la vita di alcuni abitanti.

Encomiabili coloro che con duro lavoro hanno rimesso in piedi agricoltura ed economia in genere.

Riguadagnato l'argine destro, inizio a camminare dopo le 11; c'è molto caldo e non c’è neppure un lieve zefiro che dia sollievo all’afosa giornata. Però stamani c’è qualche pedone e qualche ciclista, forse dovuto alla vicinanza con la città.

In basso ammiro la vecchia Chiesa, le case e le molte frazioni sparpagliate nella feconda campagna ben curata. Qualche industria è poi allineata lungo la statale che si scorge per lungo tratto.

Tutt’intorno è un immersione di giallo a non finire e la strada bianca è la compagna della giornata. Alla ricerca di un terreno più confortevole anche oggi zig-zago sull’argine rallentando il ritmo del mio passo.

Oltre al giallo dei campi noto come nelle cascine ci siano numerosi glicini fioriti.

Sono cascate di colore che prendono il cuore e ingentiliscono vecchi ruderi solitari e talvolta abbandonati.

Subito fuori Boara vi sono una serie di cisterne collegate fra loro da percorsi aerei cementizi che ritengo appartengano ad un vecchio acquedotto abbandonato.

Certo una volta si attingeva l’acqua dal fiume con canalizzazioni ben calcolate. Ora l’acqua si pompa forzatamente e velocemente dalla falda e si immagazzina in enormi serbatoi che sembrano funghi che sfidano il cielo. Se ne notano di altissimi tutt’intorno nei paesi.

Mi chiedo se questi enormi funghi, data la maestosità del loro ombrello, resisteranno alla inevitabile pendenza che sopraggiungerà in queste sabbie alluvionali? Queste terre in epoche remote erano percorse anche dal Po’, il fratello maggiore dell'Adige che scorre ora a pochi chilometri dà qui.

I campanili e questi funghi sono l’identificazione dei luoghi. I campanili, alti e slanciati, per la loro pendenza, sembrano perfino danzare. Mi paiono tanti Dervisci roteanti che nonostante le pendenze estreme rimangono saldi anche fuori del loro baricentro iniziale.

Destano tutti meraviglia per questo pendere alla ricerca di un equilibrio che non potrà mai essere definitivo.

Sembra che le frazioni si chiamino tutte Ca’ Bianca, a quel che mi dicono, ma finalmente un podista mi indica il campanile che mi interessa, quello di San Martino di Venezze.

Da lontano non sembra così pendente come me lo hanno presentato, ma poi, aggirandolo, fa perfino impressione. Sembra stia cadendo da un momento all’altro, ma neppure il terremoto di un paio d'anni fa, lo ha smosso dalla sua sede.

Scendo dall’argine proprio davanti alla chiesa di San Martino del XVIII sec. che, data l’ora, è chiusa.

Mi inoltro nel paese con la sua grande piazza. Interessante è il suo municipio, l’antico Palazzo Mangili-Valmarana del XIX sec. con notevoli comignoli.

Chiedo informazioni ad un uomo che ne sta uscendo, mi dice che l'agriturismo Corte Carezzabella, dove ho riservato una stanza, non è lontano e si offre di accompagnarmi.

Ma poiché oggi il mio tragitto è stato più lieve procedo a piedi fino all’estrema periferia del paesino.

E’ tutto srotolato con nuove case lungo la provinciale che porta a Rovigo. In fondo, un enorme complesso rurale, a cui si accede da un arco con cancello, porta ad una vasta e bella corte quadrata dove in un lato è alloggiato l’agriturismo che mi interessa.

E’ la prima volta che mi fermo per la notte in questo tratto di “Camminando lungo l’Adige”.

Ormai mi sto allontanando da casa ed il ritornarvi con cambi di autobus e treni sarebbe troppo laborioso e stancante.

La corte con i suoi archi ha un che di antico, ricopia chiostri e ville venete anche se in realtà non risale ad epoche remote. Ha il grande fascino della laboriosità di campagna, di quel che lì accade per consentirci di vivere.

Il lavoro della terra, faticoso, duro, senza fine e talvolta devastato dai capricci della natura, difficilmente, noi cittadini, abbiamo potuto accarezzarlo con le mani e con il cuore.

Intorno vi è un bel giardino con piscina, ma sono gli alberi fioriti che daranno frutta, le fragole a terra, gli asparagi ed il preannuncio di peperoni e pomodori e non so di quanto altro ancora a stupire ed incantare così come i gesti lenti dei contadini che ricoprono le colture contro il freddo della notte. Eppoi vi sono anche serre argentee e lunari che proteggono il lavoro dell’uomo con la certezza del risultato.

Grande accoglienza familiare e grande calore in questo assaporare i ricordi anche attraverso attrezzi antichi appesi ai muri dei portici o nei mobili accantonati ma poi riportati all’antico splendore.

Buon gusto negli arredi, e rassicurante pace nel silenzio di questa campagna vicina che sciama lontano fino a farsi abbracciare dal fiume.

Un bell'approccio questo portarmi “nelle case, nella vita” degli altri, che da anni non assaporavo più.

La sera infuocata sembra affondare lontano nel fiume, poi una buona notte fra rane ed animali notturni ed al mattino la campagna rorida di rugiada come se avesse piovuto. Sono grata a questa gente che per una notte mi ha fatta sentire una di loro.