8° Giorno, 1° ottobre

8° giorno – Martedì 1 ottobre 2013

ROVERETOMoriALA (km. 15 circa)

Quando scendo a Rovereto pioviggina. Una pioggia sottile come nebbia, insistente e fastidiosa. La gente sembra quasi raggomitolata in cerca di calore.

E’ da molto tempo che non vengo a Rovereto, da qualche visita al MART, il nuovo gioiello architettonico che accoglie il Museo di Arte Moderna e molto di più.

Questa imponente moderna costruzione, dell’architetto ticinese Mario Botta e dell’ingegnere roveretano Giulio Andreolli, con le sue importanti collezioni permanenti ed alcune mostre particolari, ha dato così tanta importanza alla cittadina da farla conoscere in ambito internazionale.

La cittadina, ricca di storia, sorprende per questo attraversare le culture di due paesi e così architettura, arte e passato si compendiano in armoniose invenzioni. E’ certamente arte trentina dall’antico passato, ma troviamo tracce appartenute alla preistoria. Non dobbiamo poi dimenticare i romani con la loro Via Claudia Augusta che ancora sto percorrendo parallelamente all’Adige. Il fiume è patrimonio essenziale dei popoli della valle, siamo nella Val Lagarina.

Qui troviamo anche molta influenza veneziana data dalla dominazione del XV sec. che ha contribuito a darle il nome di “città della seta”, perché una delle colture portate dalla Repubblica veneta furono i gelsi per il nutrimento dei bachi da seta.

In mezzo a vigneti che risalgono le alture punteggiate di castelli e paesini, nel largo catino contenuto fra ricche montagne, spicca su uno sperone il Monumento ai Caduti.

Non a caso è chiamata anche città della pace. Una Campana che la rappresenta, la più grande del mondo, è chiamata Maria Dolens ed è dedicata ai caduti di tutte le guerre. Fu fusa a Trento nel 1924 con il bronzo dei cannoni dei partecipanti alla prima guerra mondiale ma nel 1939 dovette essere rifusa a Verona. Ricordo ancora il racconto di mio padre che assistette all’avvenimento in Piazza delle Poste. Per una incrinatura fu nuovamente fusa a Castelnovo dei Monti in quel di Reggio Emilia nel 1964. Ogni sera la campana suona 100 rintocchi per onorare tutti i caduti di tutte le guerre e per invocare la pace.

E, sempre riguardante la guerra, vi è anche un importante Museo ospitato nel quattrocentesco Castello di Rovereto, questa volta di aspetto veneziano.

Dall’alto il Sacrario Militare di Castel Dante con i resti di oltre 20.000 soldati caduti durante la prima guerra mondiale, domina la città e la vallata.

Vi è anche un Museo Civico e quello che mi ha particolarmente attratta è dedicato a Depero.

Quest’artista così innovativo e fantasioso donò gran parte delle sue opere alla città.

Nato sul finir del 1800 nella Val di Non, morì a Rovereto nel 1960. Fu pittore, scultore e molto di più. Divenuto allievo di Giacomo Balla entrò a far parte del primo gruppo futurista italiano che inneggiava ad un universo gioioso e coloratissimo.

La sua arte entrò nella quotidianità della gente grazie a pubblicità, arredamento, giocattoli ed allestimenti teatrali.

Molto dovette anche alla moglie che, insieme ad alcune collaboratrici, trasformava i suoi disegni in pannelli con minuzia di intagli e ricami. Così arazzi e cuscini in una variegata ed ubriacante fantasia di colori, riconciliavano l’arte alla vita. Ricordo ancora con vividezza ed entusiasmo una grande mostra che Rovereto gli dedicò una ventina d’anni fa; per oggetti analoghi, bisogna riandare alle vecchie case delle nonne od all’artigianato etnico.

E per finire merita una visita il Palazzo Pretorio affrescato ed il suo cortile del XV – XVI sec.

Finita la mia visita un po’ affrettata, c’è anche il mercato cittadino, mi avvio per la pista ciclabile che fiancheggia il Leno, il fiume della città.

Sottopasso la statale e la ferrovia per seguirlo fino alla foce, all’intersecazione con l’Adige. In basso mi spaventano alcuni scoppi di cui non capisco l’origine; vi è un tirassegno ben mimetizzato.

Sono scomparsi i meli e le viti sono imperanti arrampicatrici lungo le erte delle montagne. Dall’altra parte della Valle, a Marco, colpiscono i ”i Lavini”, la grande frana glaciale che interessò anche Dante. La "gran ruina" viene ricordata nel canto XII, 4-9 dell’Inferno.

Alcun uomini tagliano l’erba e puliscono la pista.

Anche qui percorsi impeccabili. L’Adige è tranquillo e gonfio. Mi colpiscono a terra alcune scritte di cui non ne capisco la motivazione “Le scie chimiche ti uccidono”, ma lo comprendo poco dopo perché, fiancheggiando un’industria, due grandi contenitori, a tre metri da me ed a neppure una decina dall’Adige, hanno la scritta “Soda Caustica e Acido Cloridrico”.

L’industria chimica che dopo questi pochi metri di recinzione a vista, ne ha invece una occultata di centinaia di metri, mi impressiona per questa estrema vicinanza al fiume. Come non temere che per una qualche intrusione o inavvertenza alcuni acidi possano finire nell’acqua che noi beviamo?

Poco avanti, vicino a Mori, parte dell’acqua dell’Adige, in caso di piena, viene deviata in una galleria che convoglia gran parte del fiume verso il Lago di Garda. La Galleria Adige-Garda, iniziata nel 1939, è lunga quasi 10 chilometri ed occorsero quasi 20 anni (si devono considerare le sospensioni dei lavori durante la guerra) di lavoro e 15 morti per realizzarla. Fu progettata per evitare le esondazioni che, a causa dell’Adige, spesso sommergevano Verona.

Nel 1966, per questo motivo la diga fu spalancata per 36 ore e il Lago aumentò il suo livello di 17 centimetri. Fu aperta solo 10 volte, l’ultima nel novembre del 2002.

Dobbiamo considerare che questo "salvare Verona" non è immune da “effetti collaterali”: l’acqua fredda dell’Adige immessa nel Lago di Garda porta ad un calo della temperatura lacustre che, aggiunto al grave inquinamento fluviale, rispetto al lago, porta ad una moria dell’habitat e di pesci.

Poco avanti ancora sbarramenti e chiuse per la centrale, ora dell’Enel, che fu costruita dalla Montecatini che lì aveva negli anni 30 del 1900 un importante stabilimento per la produzione di alluminio. Durante la seconda guerra arrivò ad avere fino a 1250 operai.

Ma la ricchezza della valle, sebbene a caro prezzo per la sicurezza inesistente e le condizioni estreme sul lavoro (60° gradi negli altiforni), si arrestò a causa delle “macchie blu” su persone, animali e piante.

Certo a compensare questo inquinamento mortale c’erano la filodrammatica e le colonie marine, ma la grande fabbrica ora è abbandonata ed in disuso. Nel 1993 la fabbrica fu acquisita dalla Comunità Trentina, però è tuttora immobile nei suoi angoscianti ricordi e rancori.

Da lì diparte il Biffis, il canale che arriva fino a Verona. Stanno facendo grandi lavori e la pista ciclabile è un po’ disastrata.

In ogni caso procedo su questa strada di servizio al condotto ma poco avanti vengo deviata, stanno sistemando la zona lungo il canale che sto seguendo e l’accesso alla via ciclabile non è possibile.

Forse si potrebbe proseguire per Ala con 11 chilometri ritornando alla sinistra del Canale, ma il tragitto è molto danneggiato, non lo conosco e oltretutto un grande cartello “consiglia” di deviare e di arrampicarsi a mezza costa seguendo per un tratto la ciclabile verso il Lago di Garda.

In alto domina un campanile con la guglia in cotto, preannuncio del romanico veronese.

Poiché non trovo altre informazioni, chiedendo mi deviano verso Mori. E’ un delizioso paese che percorro in tutta la sua lunghezza, quasi 2 chilometri se non di più, per arrivare nella piazza della Chiesa. Qui mi fermo in un bar, anche ristorante alquanto carino in cui decido, data l’ora, di pranzare.

L’abitato sembra portare il nome del frutto del gelso per gli allevamenti dei bachi da seta, ma il suo nome esisteva già in documenti dell’845 e le sue origini risalgono alla preistoria.

E’ interessante per le belle costruzioni di manifesta ricchezza passata che fiancheggiano la sua via principale e per il campanile romanico della sua Chiesa parrocchiale.

Ma importante è, per la venerazione portata dalla gente della vallata, il Santuario di Montalbano costruito vicino ai ruderi di un castello che dominava la città.

Cammino fra le viti che danno ottimi vini come Merlot e Marzemino.

Nessuno sa dove sia la pista ciclabile che riporta a valle. Non mi resta che riprendere un autobus che torna indietro, alla stazione di Mori, al centro della valle.

Dopo quasi un’ora l’autobus arriva e chiedo all’autista di lasciarmi vicino al percorso, finalmente, ma dopo pochi passi mi accorgo di essere al punto di partenza.

Camminare ancora due ore per rifare il “già percorso” non mi rincuora ed allora mi avvio verso la stazione. Conto di arrivare a Serravalle e ripartire da lì per arrivare ad Ala.

Il treno arriva dopo poco e poiché si ferma in questa stazione, ritengo si fermi anche alla prossima, invece procede veloce verso Ala, dove si fermerà definitivamente. Sono amareggiata, non so che fare, ormai sono stanca, sono quasi le 15, attendere un altro treno per tornare indietro e poi camminare mi farà far tardi.

A questo punto disperata per tutti questi contrattempi, decido che mi conviene visitare Ala oggi, anziché domattina.

Risalgo verso la città in cerca del suo nucleo antico.

Ala fu importante attraverso i secoli. Già in epoca romana era apprezzata sosta per i viaggiatori che percorrevano la Via Claudia Augusta ed anche in epoche successive questo confine, non solo politico ma di attraversamento fra pianura e montagna, rese la città luogo privilegiato. Del resto anche dalla Lessinia veneta nord occidentale la gente preferiva scendere a valle qui per i rifornimenti necessari. Lo fa anche oggi.

Questo, “città” di Ala, ci riporta a tempi lontani quando la sua importanza fu riconosciuta da Giuseppe II che le riconobbe tale titolo.

Lui, ma anche Carlo V, Francesco I, Napoleone I, lo zar Nicola I e lo stesso Mozart soggiornarono in questo luogo ospiti soprattutto dei nobili Pizzini.

La città appartenne ai Castelbarco ed ai Vescovi di Trento, e fu sotto il dominio veneziano, a partire dal 1411, che iniziò la coltivazione del gelso e l’allevamento dei bachi da seta. Fu in questo periodo che prestigiose famiglie forestiere diedero inizio ad un potere economico che trasformò l’urbanistica cittadina.

Il grande splendore di Ala però iniziò a metà del 1600 quando due tessitori genovesi, qui esiliati, portarono telai e conoscenze per la produzione del velluto.

La crescita della città fu enorme. Nel ‘700 vi erano in città 300 telai e 600 famiglie che lavoravano per una produzione annua di 3600 pezze di velluto apprezzato in tutta Europa. L’acqua che serviva per muovere le grandi ruote dei telai, per le tintorie e quant’altro era sempre presente nelle rogge.

Questo pregio economico fece si che le famiglie più ricche abbellissero i loro palazzi con affreschi, stucchi e marmi.

Ala, la “città di velluto”, con impianto ancora medievale-rinascimentale nelle stradine che risalgono la montagna, appare ora barocca in alcuni importanti palazzi sparsi nell’abitato e nel Palazzo emblema del luogo.

Il Palazzo Pezzini è ora sede del Museo del pianoforte e del velluto. E così a quel periodo di opulenza si devono: ripavimentazione delle strade, fontane potabili, ristrutturazione della sede civica e della Chiesa, la nascita del Monte di Pietà e del Ginnasio, circoli musicali e letterari. Insomma il ‘700 per Ala fu un secolo d’oro.

Non a caso mi hanno colpito le numerose fontane sparse in tutto l’abitato.

Ora la “città” di Ala, con le sue frazioni, non raggiunge i 9000 abitanti, come il “paese” di Mori quasi di fronte.

Quasi tutti i treni però si fermano ad Ala la cui stazione ha allargato il suo parco treni in modo abnorme. Credo sia diventato il deposito-smistamento dei grandi carri gialli attrezzati per sostituire traversine, rotaie e ghiaione lungo la linea ferroviaria. Ve ne sono tantissimi, parcheggiati per centinaia e centinaia di metri. Non saprei quanto possa essere vasta la loro area di competenza.

Dopo circa un’ora il mio giretto è finito, riguadagno la stazione e torno a casa