3° Giorno, 18 settembre

3° giorno – mercoledì 18 settembre 2013

CALDARO – Ora - EGNA (Km. 13 circa)

Scendo dal treno ad Ora e subito fuori, davanti alla vecchia stazione del trenino per la Val di Fiemme, si fermano gli autobus che diramano nelle vallate intorno.

Poco dopo arriva il Citybus per Termeno da dove, cambiando autobus arriverò a Caldaro. Mi aiuta molto una gentilissima signora che lo sta attendendo con la mia stessa destinazione.

Lasciando questo luogo una decina di giorni fa avevo deciso di ripartire da Ora, tralasciando Caldaro, perchè quest’ultimo paese non è strettamente legato alla Via Claudia Augusta, ma un po’ defilato.

Ma stamane ho deciso di ritornare perché, prima di andarmene, devo constatare se il vecchio detto sul vino di Caldaro corrisponde a quanto archiviato nei miei ricordi.

Scendo infine davanti alla stazione della vecchia ferrovia in disuso dove si affacciano, su un grande piazzale, importanti cantine ed il museo del vino.

Mi avvio quindi verso il centro del paese risalendo la montagna. La giornata è tiepida e limpidissima, i contorni delle case e dei tetti sembrano delineati su un foglio azzurro.

Resto stupita per la seduzione del luogo dove trovo anche qui la deliziosa architettura d’oltradige con doppie finestre ed affreschi.

Ma in tutta questa gioia nel riempirmi gli occhi e il cuore di bellezza e nel sentirmi bene poiché il fresco ha preso il sopravvento sulle lunghe giornate afose, desidero finalmente assaggiare questo vino; l’ora, con tutti i mezzi per arrivare fin qui è diventata decente, le 11,30. Giusta per un aperitivo.

E così, entrando in un cortile di un fascinoso palazzo merlato noto che ci sono tavoli e panche per gli avventori. E’ una cantina, una delle moltissime del paese e dei dintorni. Entro anche nella cantina-enoteca di questo castello, mantenuta ancora come all’epoca, con mobili e suppellettili un po’ sgangherati ma con il sapore del tempo.

Non c’è nessuno, così mi pare, entrando al buio, ma una voce maschile mi saluta in malo modo in tedesco, forse perché non ho salutato io entrando.

E’ dietro di me ed allora girandomi anch’io saluto in tedesco aggiungendo che sono italiana. Mi chiede cosa voglio e rispondo che vorrei un po’ di vino bianco, ma non un bicchiere intero, lo voglio solo assaggiare. Del resto camminando mi creerebbe più fastidi che piacere.

Non dice nulla, sopraggiunge una ragazza alla quale chiedo il loro miglior vino, al che “l’oste” seccato dice che non dà assaggi gratuiti. Gli rispondo che non intendo affatto avere il suo vino gratis, ma che sarebbe stato inutile versarne un bicchiere per poi buttarlo e che comunque, è mia intenzione pagarlo come intero, cosa che faccio. Pago anche il loro depliant di reclame che la signorina non vuole darmi, uscendo poi immediatamente alquanto seccata. Certo che tanta malagrazia e scortesia non mi erano mai capitate.

E’ vero che non avrà giovato il mio aspetto snob di pellegrina, che volendo potrebbe aver indotto ad essere scambiata per uno spaventapasseri, né il fatto di parlare solamente italiano.

Nonostante tutto devo riconoscere che il vino, era un Pinot bianco niente male, era proprio buono, vorrei dire il migliore che io abbia bevuto, ma l’ora e la fame avranno certamente molto contribuito.

Ma perché Caldaro e perché parlarne?

Un omaggio indiretto e diverso a mio padre.

Il vino ha fatto parte integrante dei popoli (tralascio arabi e affini) poiché era un momento di aggregazione fra le persone, era una certa ricompensa al duro lavoro del vivere, era moneta di scambio. Spesso un piccolo lavoro, una cortesia, venivano ricompensati con l’offerta di un bicchiere di vino. E pensando a mio padre, nei lunghi giorni o notti di lavoro dei lunghissimi inverni, l’interruzione per un bicchiere di vino al bar era un momento di amicizia al di sopra di “appartenenze” diverse; che fossero politiche o dialettiche.

Noi venivamo da Verona e mio padre si procurava il vino Valpolicella da amici che avevano colture in queste valli, abitudine che ha conservato per tutta la vita.

Il Bardolino, molto conosciuto all’epoca, che prende il nome da un paese sul lago di Garda, non gli piaceva, “lasciamolo bere ai tedeschi” che al Brennero, a suo tempo, ne compravano e bevevano a profusione. Pochi i vini romagnoli che quest’ultimi impararono a conoscere successivamente venendo al mare in quel di Rimini. Di vini toscani e di altri ancora, allora proprio non se ne conoscevano, né si vendevano.

Ma al bar del Bartoli si vendeva soprattutto quello di Caldaro alla spina, allora non così prestigioso e non coltivato in forma così razionale e competente. Certo non sono in grado di farne un confronto ora, ma di Pinot, Cabernet, Sauvignon, di Schiava e di Gewurztraminer chi mai ne aveva sentito parlare allora? Forse neppure i contadini che accudivano i vigneti.

Quanta strada abbiamo percorso anche nel vino e quello che era così disprezzato perché era associato all’ubriacatura ed ai poveri, ora è diventato bevanda per gli Dei e noi, bevendolo ci sentiamo così un po’ più vicini al cielo e cieli belli come da queste parti, con la ventilazione sempre presente, in giro se ne vedono pochi.

Mio padre, unico falegname del paese e che si industriava in molte cose, dell’oste divenne amico per pochi bicchieri di vino, perché andava ad aiutarlo a cambiare le botti, ad aggiustare qualche sedia, ma di lavoretti da fare ce n'erano sempre.

Non lo faceva come professione, non chiedeva mai denaro a nessuno, ma solo per amicizia, per aiutare gli altri. E così un bicchiere di vino saldava il conto di ore di lavoro.

Ma di quel suo vino mio padre non era entusiasta e soleva dire che “finché c’è acqua nel lago di Caldaro ci sarà vino nei dintorni”.

In effetti ho ricordi di un vinello leggero e rosso pallido sconfinante con il vino annacquato, tanto annacquato. Ma non mi sono mai preoccupata di indagare oltre, neppure nel corso degli anni e, questo vino, lo avevo archiviato dimenticandolo.

Mi piacerebbe ora che ci fosse mio padre per ritornare e gustare certamente vini diversi a cominciare dal Pinot bianco da me assaggiato.

Io apprezzo solo i “bianchi” e indubbiamente non sono una intenditrice, ma queste passeggiate fra frutteti e vigneti che risalgono i declivi impervi delle montagne sembrano vere opere d’arte.

E poi come non ammirare questi grappoli maturi fatti crescere in basso per una facile raccolta e per una maturazione più controllata e che non avevo mai osservato da noi? Probabilmente anche qui qualcosa sarà cambiato nelle coltivazioni e nella raccolta dell’uva.

Molto è cambiato anche nel vino con agronomi, enologi e quant’altro che investono tempo e denaro in produzioni perfette e quasi uguali per rispettare uno standard di qualità sempre più elitario.

Quanta strada si è fatta dal povero contadino alle grandi cantine d’oggi.

Il vino non è più risorsa consolante per i poveri, ma oggetto di culto e di raffinato piacere.

E tutti questi vigneti digradanti verso il lago nella larga vallata assolata, sembrano giardini per gli dei.

No, immagino non sia più il vino stentato, acerbo e pallido di un tempo, ma un intemperante balsamo di gioioso incontro verso la vita.

Non importa se il barone, il conte o chi altri fosse quell’oste, mi abbia trattata male, il vino lo sa fare e parsimoniosamente lo sa vendere.

E’ un ricredermi verso i ricordi gelosamente conservati?

Un dubbio però mi è sorto… non che si fosse sbagliato mio padre, ma ……….

che il Caldaro del Bartoli fosse annacquato veramente????

Anche il vino Valpolicella dell’amico di mio padre sapeva di “forte” (aceto). Ma guai a dirlo, era il vino più buono del mondo, glielo forniva un suo amico……e l’amicizia, almeno per mio padre, era sacra.

Per l’amico magari un po’ meno.

Esco dalla cantina e la bellezza del luogo, la Chiesa parrocchiale con l’interno barocco e con l’alto campanile acuminato mi riconciliano con la giornata.

Attraverso il paese affollato di turisti che gironzolano per la via principale. Alla fine del paese per una stradina che scende velocemente a valle, dopo aver attraversato la provinciale, mi inoltro fra i vigneti. La vista sul lago è mozzafiato.

Nel percorso ci sono per lo più solo persone a piedi con importanti racchette e qualche raro ciclista e tutti sono di lingua tedesca.

Una strettoia recintata ed asfaltata, affollata da molte persone, mi porta quasi subito al lago. Ma, delusione, non posso avvicinarmi. Lidi, porticcioli, ristoranti e quant’altro ne bloccano l’accesso. Forse dovrei tentare più avanti, dopo aver superato la frazione di S. Giuseppe, ma a questo punto preferisco risalire verso la provinciale ed attendere l’autobus.

Quando vi salgo, meravigliata, ritrovo la signora incontrata al mattino che rientra a Ora, ma a Termeno perdiamo la coincidenza.

Pittoresche casette a schiera sono allineate a Termeno, mantenendo un fascino d’altri tempi. La Chiesa parrocchiale risale al IX sec. ma la navata fu ricostruita il secolo scorso. La bella Chiesetta romanica, edificata sopra un tempio dedicato a Iside, e che sembra arroccata su uno sperone, conserva pregevoli affreschi del XIII sec..

Ho però osservato con attenzione la strana costruzione verde di Termeno. Fu inaugurata nel 2010 su progetto dell’architetto Werner Tscholl. La sua struttura moderna sembra una vite che abbracci dei grandi cubi di vetro. Già, nella patria del vino che prende il suo nome, una importante cantina non poteva mancare.

Mi ha colpito l’informazione che, sul finir della guerra, gli amministratori di Termeno, favorirono con documenti falsi, l’espatrio in America Latina di Eichman e Mengele, ma questa è un’altra storia; non è una bella storia.

La pista ciclabile potrebbe proseguire sulla riva destra dell’Adige e oltre a Termeno toccare i successivi paesini di Cortaccia, Magrè, Roverè della Luna dove incontra quella che da Bolzano, sulla sinistra dell’Adige, arriva fino a Salorno. Entrambi, a sud, sono gli ultimi paesi dell’Alto Adige.

Ripreso l’autobus scendo ad Ora alle 14. La signora vuole darmi un passaggio che rifiuto, ho camminato poco e desidero vedere Ora pensando che non sia molto lontano. Occorre una lunga periferia ben tenuta prima di arrivare al paese che abbraccia la provinciale per risalire sul costone della montagna.

Non risalgo per visitare il centro storico, preferisco proseguire sulla statale per andare a Egna.

Ora era ed è punto strategico per i collegamenti viari verso la Val di Fassa e la Val di Fiemme.

Per quest’ultima valle era disponibile un trenino che portava a Cavalese. Adesso il tracciato è diventato un’ulteriore pista ciclabile per gli amanti di mountain bike.

La cittadina conserva alcuni palazzi importanti con corti interne che sembrano quelle di un castello.

La signorina dell’Ufficio Informazioni mi sconsiglia di continuare a piedi sulla statale, “è pericoloso” mi dice, e mi rimanda alla pista ciclabile ma oltre due chilometri per ritornarvi mi sembrano troppi.

Dopo aver curiosato procedo nel calore del primo pomeriggio verso sud. Quasi alla fine del paese incontro la massiccia Chiesa di San Pietro in pietra nera con un alto campanile appuntito. La facciata ha un pregevole affresco che rappresenta San Cristoforo, probabilmente a ricordo delle esondazioni dell’Adige. Non a caso l’esterno della Chiesa si presenta a due livelli ma è chiusa e l’interno non si può ammirare.

Avanzo ancora e subito dopo, finalmente, incontro il bar-pensione Flora. Un simpatico ragazzotto mi accudisce in ogni modo con informazioni di ogni genere cui presto una relativa attenzione per i troppi dettagli sulla strada da seguire. E poi, molto incuriosito sul fatto che vada a piedi, (credeva mi stessi allenando per andare a Santiago perchè alcune sue concittadine ci sono state raccontando meraviglie) mi sommerge di domande. Ed allora anch’io a raccontare ed a perdere tempo.

In effetti mi ha consigliato bene e seguendo le sue informazioni, dopo un biotopo, un tunnel sotto l’autostrada ed un maneggio davvero imponente, mi trovo ad una rotonda con diversi svincoli che salgono e scendono dall’autostrada e strade per Egna, Trento e Bolzano. Insomma in questo caos infernale e pericoloso, dove le macchine corrono impazzite, decido di optare per Villa perché quest’ultimo luogo è sulla mia sinistra e da lontano ne individuo il bel campanile e poi immagino che la frazione, in ogni caso, sia collegata ad Egna. Ma quanto traffico e quanti camion mi sfiorano radenti!

Lentamente con un lungo tratto di case e masi, finalmente arrivo nel centro di Egna, una vera rivelazione.

In tempi lontani quasi tutti i treni facevano una fermata qui, ma per me è sempre rimasto un nome senza volto. Attualmente, ahimè, si fermano solo i treni regionali a lenta circolazione.

Ma Egna merita non solo una fermata ma un bel soggiorno per quel sapore desueto di lenta tranquillità.

Il luogo fu scelto anche dai romani che vi fondarono una mansio lungo la via Claudia Augusta.

E’ una cittadina bellissima dal passato medievale di antica opulenza, la cui via - piazza principale, è contornata da ricchi palazzi e da splendidi portici. Negozietti e piccoli bar invitano alla sosta ed al riposo. Alcune fontane gorgoglianti rasserenano lo spirito. E poi sotto i portici ancora scoperte.

Molti portoni sono aperti per consentirci di curiosare vagando lontano con lo sguardo attraverso atri che sembrano tunnel e che ci svelano scorci di cortili, scale, altri archi, cantine e depositi; il tutto in arbitrari e gioiosi affastellamenti che fanno dell’architettura povera dei veri gioielli; senza regole ma con tanti imprevisti e soluzioni.

Sembra che il tempo si sia fermato, che ancora i contadini con il loro grembiule blu gironzolino intorno.

In tutta questa magica atmosfera vi è anche il Museo di Cultura Popolare con mille oggetti d’altri tempi, in cui rincorrere il nostro passato fra ninnoli e memorie.

E così mobili, soprammobili, bambole, corredi, vestiti, porcellane, pentole, oggetti da toeletta e scolastici, barattoli e molto, molto di più, mi commuovono ricordandomi con nitidezza come eravamo.

Ma la meraviglia è indissolubilmente legata alla guida della competente, paziente e simpaticissima Signora Eva che condivide ogni volta il suo fervido entusiasmo con noi, raccontandoci storie e aneddoti di quegli oggetti.

Qualcosa da scoprire e che avevo già visto ma di cui non ne conoscevo l’origine ed il materiale, sono stati i gioielli di capelli. Ma, con lo stesso materiale, si facevano anche altri oggetti e corone. Una raffinata arte di intreccio ha accompagnato amori e disinganni anche se con gli occhi moderni oltre che originali sembrano anche un po’ macabri.

Ma non possiamo dimenticare che, nei medaglioni appesi al collo, le nostre nonne conservavano una ciocca del loro amato.

Mi dilungo molto in questa accurata osservazione e spiegazione del Museo che si deve alla appassionata collezionista ricercatrice Anna Grandi Muller. Si deve al suo grande fervore attraverso anni di ricerche questa importante raccolta di oggetti disparati ed emozionanti, che hanno fatto parte della nostra vita.

E così, giunta alla stazione, devo attendere un treno che arriverà dopo un’ora.

Stamattina ho dimenticato il cellulare e come posso avvisare del mio ritardo?

Chiedo la cortesia di una telefonata ad una ragazzina che gioca vicino a me. Lei va verso Bolzano, il suo treno sta arrivando, ma velocemente mi lascia fare la mia chiamata tranquillizzante a casa. Rientrerò tardi.

La ragazzina, molto carina, non accetta il mio denaro di rimborso per la telefonata, per me è stata una cortesia estrema, che dire, decisamente gentile ed affabile.

Mentre viaggio per rientrare a casa, una luna piena, splendida, tenera e tutta d’oro mi sorride. Da quanto non assaporo la gioia di una simile osservazione. Sembra un benaugurante incontro per l’indomani.