Pasqua senza messa, ma non senza eucaristia

Crocifisso  nella St.-Viktor-Kirche di Dülmen, North Rhine-Westphalia, Germania, 

- foto dell’anno 2018, tratta da commons.wikimedia.org

Riconosciamolo: è uno scandalo che sta nelle cose, di cui nessuno ha responsabilità, ma che lascia di stucco, impietriti, incapaci di proferir parola.

Un paradosso assoluto. Una vera e propria assurdità religiosa, letta con occhi appunto religiosi. La fede è altro, ma non complichiamo subito.

La Pasqua, la celebrazione fondativa di ogni liturgia cristiana, è proprio oggi – domenica di Pasqua - assente nelle chiese.

O forse tocca dire: è assente a Pasqua, oggi, l’assemblea che possa celebrarla. Il rito avrà officiante ma non avrà assemblea.

In questa seconda versione, di un rito officiato sì ma in una chiesa vuota, in realtà il dinamismo ecclesiale, la stessa vita ecclesiale, sembrano subire una compromissione ancora più grave. Una Pasqua senza il Popolo di Dio. Una Pasqua in cui, come ci si sta rendendo con diffuso sbigottimento, “non possiamo andare a messa”.

Essere giunti a Pasqua e non poter, neanche volendo, “andare a messa”.

Lo sconcerto è evidente, ci manca – sembra – una teologia all’altezza di ciò che viviamo, qualcosa che ci capita, che dobbiamo accettare, ma che fatichiamo a leggere con approccio non moralistico, con un’attitudine di totale laicità scorgendo in tale laicità la provocazione autentica della fede nell’uomo di Nazaret confessato come risorto dopo essere stato ammazzato in pubblico, ad esito di un pubblico giudizio.

Anche la pastorale, sistemate le norme canoniche, sembra entrata in stallo, non sa come argomentare simile controsenso epocale, deve ricorrere ad una forma di culto da assicurare in ogni caso, anche senza popolo, anche senza di noi. C’è pericolo di implosione religiosa e bisogna affrettarsi a far sì che qualche segno sacro comunque sia dato, sia reso visibile, in ogni forma consentita, non dalla teologia, invero, bensì consentita dalle circostanze, coinvolgendo tecniche di comunicazioni a distanza, immagini, trasmissioni via internet, diffusioni radio.

Un’epidemia di gravità unica impedisce la formazione stessa dell’assemblea liturgica, ovvero – stando al significato greco della parola “ekklesía” – impedisce la Chiesa. Sembra piuttosto ingombrante simile affermazione, molto al di là ogni scandalo tollerabile, eppure è così.

La fede però cos’ha da dire davanti a questa Pasqua? Davanti a 19.468 morti in un mese per la medesima causa di affezione, come può la fede trovare parole di senso, come fa a resistere senza scadere in sbalordimento religioso che pronunci banalità scontate?

La parola “messa” crea disaffezione e addirittura opposizione in alcune, beninteso rispettabilissime, sensibilità culturali. Si sono raccolte anche in questi giorni domande stupite del tipo “e che sarà mai?”. Come se fosse reazione ad una omologazione benpensante che avvilisce il senso critico invece che suscitarla. “Ite missa est”, traduzione un po’ libera: andate pure adesso, è finita. Un rito che ha un inizio ed una fine, compiuto in sé, verso il quale l’attitudine antagonista può ben esercitarsi in base a linguaggi, luoghi, tempi tutti presuntivamente assai noti. “Voi andate a messa”, “io resto fuori, dove sta la vita vera”.

E tuttavia se la “messa”, intesa appunto come categoria di identificazione religiosa, lascia spazio alla celebrazione di una “eucarestia”, tutte le inclinazioni avverse, religiose oppure no, vanno in crisi. Altro è “la messa”, altro è “l’eucarestia”.

La messa è celebrazione dell’Eucarestia, certo, ma è l’unica modalità concepibile per la sua celebrazione?

La prima lettera ai Tessalonicesi, al versetto 18 del capitolo 5, riporta l’invito “ἐν παντὶ εὐχαριστεῖτε”, “en pantì eucharistèite”, tradotto con “rendete grazie in ogni cosa”, ma forse si potrebbe anche mantenere la mera traduzione letterale: fate eucarestia in ogni cosa.

Per “fare eucarestia in ogni cosa” non è necessario adire i luoghi di culto. Del resto – come qualcuno ha ricordato in questi giorni – il Nazareno non è risorto in una chiesa.

La domanda può farsi anche ardita, troppo provocatoria se non impertinente, e preferiamo lasciarla senza risposta, però si pone: esistono messe in cui invece, nonostante la perfezione rituale e formale, non si celebra in realtà l’eucarestia?

La liturgia deve essere in grado di parlare alla vita nostra, concreta, quotidiana. Il compiacimento cerimoniale – che in quanto tale probabilmente non è neppure “religioso” – ha parentele strette con quel narcisismo caratteriale che, quand’anche si dimostri preoccupato per l’altro, in realtà è tutto centrato su di sé, non fa che parlare di sé, delle proprie esperienze, delle proprie convinzioni, persino dei propri amori e strumentalizza l’apertura all’altro come occasione per riaffermare la propria autoreferenzialità. Esiste un’iniziazione cristiana, un cammino di fede, che libera da una specie di coazione a non sognare, a non coltivare progetti, a non volare alto, a non cercare, a non interrogarsi, ma esiste anche un’iniziazione esistenziale, laica o religiosa, narcisisticamente antagonista, ripiegata su di sé, che si compiace di andar contro, di negare, di contrapporsi, di precisare, nell’ansia, quasi spasmodica, di tenere tutto sotto controllo, in ciò molto simile alla preoccupazione di garantire riti sacri in luoghi sacri.

Ci salveremo solo assieme accettando una Pasqua che assomiglia ancora ad un permanente Sabato Santo, chiusi nei sepolcri delle nostre case; però questo stare assieme non è una melassa, non è abolizione della complessità di ciò che siamo, non è accantonamento dei pianti, degli strazi, delle fatiche sino allo sfinimento, degli interrogativi che non ci danno pace.

Fare eucarestia è possibilità laica di celebrare un senso nella nostra vita adesso, per chi crede con l’umile fiducia che questo senso realizzi anche una presenza, che renda esperibile un incontro con qualcuno che ha pronunciato parole di liberazione, e per chi non crede – o crede di non credere – con l’altrettanto umile fiducia che l’amore sia prospettiva e dimensione capace di non far morire la speranza.

È Maria di Màgdala, non un uomo ma una donna, a recarsi al sepolcro di mattino, “quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro”, racconta Giovanni nel suo Vangelo proprio all’inizio del capitolo 20.

La comunità ecclesiale ha un mandato costitutivo di recarsi presso i sepolcri “quando è ancora buio” - “cum adhuc tenebrae essent”, traduce la Nuova Vulgata -, non quando sfavillano le luci, quando probabilmente non è possibile celebrare alcuna messa, perché proprio non ci si vede, ma quando una eucarestia attende invece di essere celebrata per vedere finalmente un sudario deposto a parte, senza più morte.

Buona Pasqua di tutto cuore alle nostre lettrici ed ai nostri lettori.

 

Stefano Sodaro