Solo 70, 75 anni fa

Statue dei Sette Dormienti di Efeso 

nella cripta della Cappella di Sept-Saints in Vieux-Marché, Francia;  

la barca è stata donata da Louis Massignon

- foto tratta da commons.wikimedia.org

Il 31 ottobre 1962, pochi giorni dopo l’inizio del Vaticano II il 12 dello stesso mese, muore a Parigi Louis Massignon.

Muore a Parigi - bisognerebbe meglio specificare - l’abbè Louis Massignon, o, se preferiamo, don Massignon, o padre Massignon.

Un grande studioso dell’Islam, ma pure un uomo sposato, con tre figli, due maschi e una femmina, ordinato prete nella Chiesa Cattolica Melkita il 28 gennaio 1950 al Cairo.

Aveva conosciuto intensamente, strettamente, Charles de Foucauld, ma non lo aveva seguito – benché richiesto di farlo dall’amico - nella vita eremitica nel deserto. E si era, appunto, sposato.

Ci permettiamo qui di rinviare alle riflessioni svolte qualche anno fa ed ora rinvenibili ai link:

https://www.academia.edu/37654124/Su_Massignon_I https://www.academia.edu/37654107/Su_Massignon_II

Martedì prossimo ricorreranno i 70 anni dall’ordinazione presbiterale di Massignon, quella mattina di fine gennaio del 1950, alla presenza di sole tre persone: il Vescovo Pierre-Kemal Medawar, Ausiliare del Patriarca Melkita Maximos IV Saigh – che autorizzò l’ordinazione benché Massignon provenisse dal rito latino e non fosse dunque nativo nel rito bizantino proprio della Chiesa Melkita -, il parroco della stessa chiesa egiziana dove fu celebrata l’ordinazione e una donna, che non era la moglie, Mary Kahil, artefice in certo modo  delle condizioni che resero possibile quell’evento di 70 anni fa.

Fu infatti Mary Kahil a tessere fitti rapporti con le Autorità ecclesiastiche melkite perché il desiderio di Massignon – giacché di questo si trattava, bisogna riconoscerlo – ottenesse positivo discernimento e favorevole accoglienza.

Proprio quando si potrebbe concludere che nessun coinvolgimento comunitario fu implicato nella destinazione presbiterale di Massignon, si resta in realtà stupiti, forse pure stupefatti, nel constatare che quella presenza comunitaria c’era ma era mediata da una donna, era impersonata da una donna sola, sua amica e confidente, assieme alla quale il grande orientalista aveva addirittura fondato un sodalizio religioso di preghiera per l’Islam, la Badaliya.

Il 13 ottobre 1965, il Patriarca melkita Maximos IV, che era a Roma per il Concilio, scrisse a Paolo VI, accompagnando alla lettera il testo dell’intervento che non pronunciò nell’assise della Basilica di San Pietro. Vi si leggono le seguenti testuali parole: «Permettetemi dunque, venerabili padri, di esporre brevemente davanti a voi i vantaggi spirituali ed apostolici di un clero sposato, quale esiste in Oriente. Facendo ciò, ho coscienza di adempiere ad un dovere, poiché si tratta qui di una istituzione profondamente cattolica che non conviene sbrigare in un inciso di due righe, come fa lo schema al n. 14. Lo faccio a titolo di informazione: l’Occidente è libero di seguire l’evoluzione che meglio si addice al suo temperamento e a ciò che stima essere l’interesse della Chiesa. Ma – come su tanti altri punti – l’Oriente cristiano ha conservato, esso pure, per il bene della Chiesa universale, una tradizione parallela, non meno fondata dell’altra sulla Scrittura, gli apostoli e i padri; e questa tradizione, nel momento e nei paesi nei quali la Chiesa giudicherà opportuna, potrà essere invocata per appoggiare una svolta nella storia, che si renderà forse necessaria per le mutevoli circostanze dei tempi, dei luoghi e delle persone.» (in Discorsi di Massimo IV al Concilio, Edizioni Dehoniane, Bologna, p. 241).

La vicenda dell’ordinazione sacerdotale di Massignon è descritta con grande perizia e quantità di notizie dettagliate dallo studioso Anthony O’Mahony in http://journals.sagepub.com/doi/abs/10.1177/001258060812644403.

Eppure quasi mai viene ricordata da qualcuno, meno che mai in ambito ecclesiale. Come se fosse un precedente che, in coerenza con le parole di Massimo IV, crea disturbo e fastidio.

Del resto la rappresentazione del sacerdozio uxorato contenuta nel recente libro del Card. Sarah – di cui non è ancora chiaro se sia o non sia effettivo coautore il vescovo Joseph Ratzinger – è esattamente opposta a quella della esposizione patriarcale appena riportata. E la domanda non può essere elusa: ha ragione Massimo IV o ha ragione Dal profondo del nostro cuore?

Domani, Giornata della Memoria, ricorreranno i 75 anni dalla liberazione di Auschwitz. Massignon divenne prete 5 anni dopo la scoperta di quell’orrore pianificato e comprovato dove morirono 1.100.000 persone.

E qui bisogna purtroppo annotare, per serietà ricostruttiva, che le parole dell’Episcopato melkita, contenute nel medesimo volume citato sopra, sono tutt’altro che confortanti e profetiche. Dopo aver riconosciuto che la «Chiesa ha il dovere di riconoscere al popolo ebreo le sue glorie, le sue promesse e la sua missione» e che «Essa ha anche il dovere di eliminare dalla sua liturgia, dal pensiero e dalla condotta dei suoi fedeli ogni traccia di rancore, di vendetta o di discriminazione razziale verso il popolo ebreo» (Ivi, p. 412), la Commissione Centrale del Patriarcato Melkita così scrive il 5 giugno 1962: «Mettiamo egualmente in guardia i nostri fedeli contro i dubbi sollevati da alcuni a proposito della verità di quello che riferiscono i santi vangeli al riguardo della responsabilità della crocifissione di Cristo. Queste persone tentano con artifizi di addossare la responsabilità ai romani e di assolvere gli ebrei. E tuttavia i santi vangeli sono molto chiari quando affermano che sono stati gli ebrei a decretare e a volere la crocifissione di Cristo e che i responsabili romani l’anno autorizzata ed eseguita.» (Ivi, p. 414)

Si tratta di affermazioni gravissime che saranno contraddette e confutate dalla Dichiarazione conciliare Nostra Aetate del 28 ottobre 1965, al suo n. 4: «(…)  gli Ebrei, in grazia dei padri, rimangono ancora carissimi a Dio, i cui doni e la cui vocazione sono senza pentimento. Con i profeti e con lo stesso Apostolo, la Chiesa attende il giorno, che solo Dio conosce, in cui tutti i popoli acclameranno il Signore con una sola voce e «lo serviranno sotto uno stesso giogo » (Sof 3,9) (12).

Essendo perciò tanto grande il patrimonio spirituale comune a cristiani e ad ebrei, questo sacro Concilio vuole promuovere e raccomandare tra loro la mutua conoscenza e stima, che si ottengono soprattutto con gli studi biblici e teologici e con un fraterno dialogo.

E se autorità ebraiche con i propri seguaci si sono adoperate per la morte di Cristo, tuttavia quanto è stato commesso durante la sua passione, non può essere imputato né indistintamente a tutti gli Ebrei allora viventi, né agli Ebrei del nostro tempo.

E se è vero che la Chiesa è il nuovo popolo di Dio, gli Ebrei tuttavia non devono essere presentati come rigettati da Dio, né come maledetti, quasi che ciò scaturisse dalla sacra Scrittura. Curino pertanto tutti che nella catechesi e nella predicazione della parola di Dio non si insegni alcunché che non sia conforme alla verità del Vangelo e dello Spirito di Cristo.

La Chiesa inoltre, che esecra tutte le persecuzioni contro qualsiasi uomo, memore del patrimonio che essa ha in comune con gli Ebrei, e spinta non da motivi politici, ma da religiosa carità evangelica, deplora gli odi, le persecuzioni e tutte le manifestazioni dell'antisemitismo dirette contro gli Ebrei in ogni tempo e da chiunque.»

La ferma opposizione melkita all’elaborazione del testo del Vaticano II in un senso di massima apertura verso l’ebraismo – ad esempio citando espressamente l’accusa di “deicidio” - è raccontata con grande cura da Saretta Marotta in un articolo comparso sull’Osservatore Romano del 5 novembre 2018: http://www.osservatoreromano.va/it/news/una-pietra-miliare.

Siamo in tempi, anzi in giorni, in cui si ritiene “non incompatibile”, in quanto asseritamente parte della medesima storia nazionale, la testimonianza di Liliana Segre e le memoria di Giorgio Almirante. Ma le narrazioni non sono affastellamento di torti e ragioni, la libertà democratica assicurata dalla Costituzione non è ricettacolo di ogni evento pur che sia incidente sul volgersi delle cronache pluriennali del nostro Paese. Rimarginare le ferite comporta che l’operazione avvenga a beneficio del corpo in condizioni di sicurezza e non con gravi rischi di setticemia.

Si potrebbe dire che tanto è insostenibilmente compatibile la ragione con il torto quanto, in ambito ecclesiale, si ritiene, altrettanto insostenibilmente, incompatibile matrimonio e presbiterato, oppure quanto si ritiene compatibile aperturismo alle riforme ecclesiali – fino ad esserne ossessionati con linguaggi a volte propri di istanze più antagonistiche che di dissenso – e propensioni antiebraiche. Sembra un ragionamento involuto, ma la contraddizione c’è e andrebbe assunta, elaborata, quindi posta a fondamento di scelte precise.

Era a conoscenza Massignon del documento dell’Episcopato melkita del giugno 1962? Personalmente non ho elementi a disposizione, ma in quanto presbitero di quella Chiesa si può ritenere che lo fosse. Avrebbe potuto o dovuto reagire? A modestissimo parere del qui scrivente, da un lato l’abbè Massignon non era in nulla allineato ai contenuti della presa di posizione del Patriarcato melkita in considerazione della stessa sua storia personale, dall’altro non risultano più rapporti particolarmente stretti tra lui e l’Autorità ecclesiastica melkita dopo la sua ordinazione.

Eppure la complessità della memoria – cosa assai diversa dalla storia – è ben capace di riconsegnare, come in un parto, dedizioni utopiche e devastazioni terrificanti, conciliazione di opposti culturali (il matrimonio ed il sacerdozio nel mondo latino) ed obbrobri genocidari.

Silvia Guidi – in un altro numero dell’Osservatore Romano, di data 21 maggio 2018 (http://www.osservatoreromano.va/it/news/lorientalista) – ha ben ricordato come Bernard Lewis fosse stato allievo di Massignon.

Sembrano riassuntive dell’identità presbiterale del grande studioso allora le parole pronunciate al Concilio il 24 ottobre 1963 dal vescovo melkita mons. Georges Hakim, che succedette a Massimo IV nel 1967 con il nome di Massimo V e che ebbi l’onore di incontrare a Damasco nel 1997, (in Ivi p. 262): «(…) molti in questa aula hanno disprezzato e rinnegato i diaconi sposati, ignorando quanto e quale bene essi facciano nelle Chiese cristiane che hanno felicemente conservato queste istituzioni. Glorificandoci del celibato ecclesiastico della Chiesa latina, non dimentichiamoci, non disprezziamo questi chierici sposati delle Chiese orientali e tanti pastori e presbiteri sposati delle altre comunità cristiane? ... Non si tratta, in realtà, di un diacono già ordinato che si sposa, ma piuttosto di un laico di provata idoneità che, già sposato, è elevato al diaconato o al sacerdozio.»

Settant’anni fa avvenne qualcosa nel silenzio della liturgia con quattro persone in tutto.

Settantacinque anni fa un milione e cento mila morti si affacciarono per sempre alla nostra buona coscienza che vorrebbe amalgamare tutto e così, in fondo, tutto dimenticare.

Ma resta la vita, non solo la nostra, a cercare il futuro.

Buona domenica.

 

Stefano Sodaro