Riti privati e pubbliche virtù

Vescovi orientali cattolici alla messa di canonizzazione del Beato Giovanni XIII e del Beato Giovanni Paolo II

Piazza San Pietro, Città del Vaticano, 27 aprile 2014 - foto tratta da commons.wikimedia.org

Scrive Salvatore Berlingò (in Nel silenzio del diritto. Risonanze canonistiche, Il Mulino, Bologna 2015, p. 221): «Paradossalmente, proprio quando la tipica espressione europea di sovranità politica perviene al suo acme nello Stato napoleonico si determina una svolta, già a partire della forme adottate nella storia dell’istituzione concordataria: entrambe le parti paciscenti sembrano, infatti, rinunziare alla presta di presentarsi, in sede di negoziazione, su di un livello più elevato, l’una nei confronti dell’altra.

L’apparente enigma si risolve se si presta, ancora una volta, attenzione alle situazioni di contesto. La Chiesa cattolica sperimenta – con circa un secolo di anticipo rispetto alla fine del potere temporale – quanto la stessa dimensione universale della sua supremazia spirituale possa essere messa in crisi, con il ricorso ad una semplice «costituzione civile» (del clero), pure da un potere mondano o territorialmente limitato. D’altro canto, la nazione sovrana comincia a fare i conti non più con la dimensione servile del «suddito», ma con le pretese connesse alle native libertà dell’idealtipo del «cittadino».

Può, dunque, affermarsi che non si è di fronte ad una semplice evoluzione morfologica dell’istituto concordatario, ma piuttosto al sintomo dell’inevitabile riflesso su questo tipo di intreccio sinallagmatico di uno snodo cruciale della dialettica fra i due distinti ordini, della Chiesa e della comunità politica. In questa fase storica comincia, cioè, ad emergere con chiarezza come le distinzioni fra le due istituzioni (e, per converso, la loro reciprocamente irriducibile complementarietà) risultino strumentali e serventi nei riguardi della garanzia a tutela dell’umana persona.»

Le disposizioni impartite dai singoli Vescovi italiani in conformità con le Ordinanze regionali e con la normazione d’urgenza adottata dal Governo del nostro Paese onde fronteggiare e contenere la diffusione del coronavirus hanno determinato, in maniera diffusa, la sospensione della celebrazione delle messe, anche domenicali, e pure, a volte, la chiusura delle chiese, comprese le chiese cattedrali, come nel caso del Duomo di Milano.

Si è avuta così, oggettivamente, nel concatenarsi dei fatti, una crisi subitanea del sacro visibile. Niente più celebrazioni pubbliche, niente più condivisione di spazi cultuali.

Tale crisi del sacro, tuttavia, quasi mai in questi giorni è stata interpretata – e propriamente “evangelizzata” – come segno di “garanzia a tutela dell’umana persona”, come si esprime Berlingò, ma come una necessità costretta da forza maggiore, obtorto collo, che richiede una reazione uguale e contraria, per dir così, sempre sul fronte del sacro, quasi si trattasse (e magari qualcuno si è pure spinto ad ipotizzare possibili violazioni del Concordato) di non vedere rintuzzati una sorta di “diritti del sacro”. 

Del tutto erroneamente si potrebbero ritenere tali presunti “diritti” obiettivo primario della cura dei rapporti con lo Stato da parte della Chiesa, che è interessata piuttosto a poter vivere liberamente nella testimonianza e nell’adesione alla parola evangelica, divenendo pane spezzato e vino versato per la vita di tutti, non dei soli credenti e cattolici.

Ed infatti il contraccolpo del sacro si è avuto nella proliferazione di celebrazioni - molto di frequente comprendenti la sola presenza di presbiteri o di vescovi, talora in forma addirittura individuale, talvolta in forma concelebrante – che si sono iniziate a diffondere per tutto il Paese in streaming, in video, tramite social, in qualunque forma tecnologicamente possibile, onde consentire di “vedere il rito sacro” e poterne spiritualmente godere.

Ma è questo il senso della liturgia cristiana?

Converrà essere ancora più chiari.

Gli ammalati, quanti non possono per i più diversi motivi partecipare alla celebrazione eucaristica domenicale, trovano grande conforto nel poter unirsi alle comunità celebranti tramite la radio, la televisione o negli altri modi di collegamento praticabili. Si tratta, però, appunto di unione a comunità celebranti che si riuniscono per spezzare il pane ed ascoltare la Parola di Dio a prescindere da ogni funzionalità massmediatica, comunità che si riuniscono non di certo per essere riprese dalle telecamere e dai microfoni. L’esperienza che viene consentita dai media a chi si unisce a quelle celebrazioni radio o teletrasmesse è un’esperienza di partecipazione, a distanza, all’assemblea celebrante di una comunità reale, viva, effettiva. Bisogna essere fermi al riguardo: senza assemblea non c’è Chiesa, posto che la stessa parola greca “ekklesía” ha il significato di “assemblea”.

Certamente si sono sviluppate forme di celebrazione, anche eucaristica, senza popolo presente (peraltro previste al n. 254 dell’Ordinamento Generale del Messale Romano): il caso eclatante del prete monaco certosino che celebra completamente da solo nella propria cella ne è un caso evidente. E, tuttavia, sarebbe alquanto insano, dal punto di vista spirituale, persino – sia consentito esprimersi così - spiritualmente impudico, più vicino alla superstizione che alla fede, cercare di “vedere” e “sentire” che cosa stia facendo il monaco durante quella celebrazione, come stia celebrando. Assistere, senza poter interagire – salvo non si ammetta una qualche forma di dialogo e reciprocità gestuale a distanza -, ad una celebrazione non equivale a poter ad essa partecipare; ci si unisce spiritualmente ad una celebrazione o perché una comunità celebrante si lascia riprendere e trasmettere durante la sua azione liturgica o perché si sa, senza bisogno di conferme visive ed uditive, che altri stanno pregando e celebrando. Ma non si può ammettere, per una liturgia cristiana, che sia partecipabile un rito che venga celebrato, addirittura in forma individuale (senza laici attorno per capirci), al solo fine di essere visivamente ripreso e foneticamente ascoltato; la prossimità con una gestualità magica sarebbe in pericoloso agguato. Ed infatti il citato numero dell’Ordinamento Generale del Messale Romano dispone che, in caso di celebrazione eucaristica totalmente solitaria, “si tralasciano i saluti, le monizioni e la benedizione al termine della Messa.” Dev’essere cioè mantenuta la verità di ciò che accade, ovvero il fatto che non c’è nessuno da ammonire e benedire.

La presenza del video o del diffusore audio può però essere ritenuta solo pertugio di una diversa forma di comunicazione e partecipazione, pur possibili ma sinora inesplorate? Lasciamo l’interrogativo a semiologi, antropologi, sociologi e psicologi, ma qui osiamo solo osservare - sperando di non esser irriverenti e ricorrendo, per salvarci, agli opportuni inglesismi - che tra sex e cybersex, ad esempio, permane una irriducibile differenza e l’esperienza del pasto eucaristico è descritta, del resto, quale “convito nuziale del suo amore” nell’orazione colletta della messa “In Coena Domini” del Giovedì Santo. Altro è l’amore via filo o via rete, altro l’amore di un incontro in cui toccare, baciare, abbracciare, sentire nel corpo e il corpo. Perché nel linguaggio schermato dai media è infatti proprio il corpo ad essere sacrificato, riconoscendo il primato alla mente e alle sue capacità intellettive multiformi. E forse la nostra liturgia rischia di nuovo, adesso, esili verso spiritualizzazioni, clericalismi, ritualizzazioni e mentalismi, invece che rimanere ancorata ai nostri corpi.

Sul tema complessivo sono intervenuti, in particolare, due contributi di grande spessore, a firma di Andrea Grillo, cui rinviamo: il primo intitolato La Chiesa tra comunità e immunità. Foreste di comunione e deserti da contagio, di cui al link https://www.cittadellaeditrice.com/munera/la-chiesa-tra-comunita-e-immunita-foreste-di-comunione-e-deserti-da-contagio/, ed un secondo che raccoglie le riflessioni di Mauro Festi, di cui al link https://www.cittadellaeditrice.com/munera/schermi-che-schermano-immaginari-liturgici-e-bizzarrie-quaresimali-di-mauro-festi/.

Le drastiche misure d’urgenza non sono dunque il campo in cui contendere affermazione o misconoscimento di presunti “diritti del sacro”, quasi nel timore che senza sacro pubblico e visibile defunga la fede personale, bensì occasione propizia per condividere la storia di un intero popolo, che è Popolo di Dio in quanto Chiesa e Popolo di Dio in quanto Regno, vale a dire ben al fuori dai confini della Chiesa visibile.

Sarebbe tragico doversi ridurre a valutare ora se siano i Vescovi a portare la responsabilità di aver assunto autonomamente le disposizioni restrittive o se invece tali responsabilità siano da attribuirsi alla pubblica autorità in violazione di obblighi pattizi, senza invece rovesciare completamente la prospettiva e riconoscere, alla luce del Vangelo e dell’insegnamento chiarissimo del Vaticano II, che Dio ha gli stessi diritti degli uomini e delle donne e, laddove c’è pericolo di vita per la creatura, il Creatore diventa presenza sacerdotale nel medico che assiste e non nel chierichetto che agita il turibolo o sostituisce le candele. Il chierichetto sarà il primo a gioirne, imparando a discernere e a ristabilire i primati necessari alla luce della stessa fede.

La dissociazione “sacro/profano” è il dramma di una intera cultura e sono questi i giorni in cui la laicità del Vangelo, ma anzi la stessa Incarnazione di Dio in un corpo umano debole e fragile, rischiano di essere accantonate invece di costituire il centro della predicazione della notizia che è buona proprio per questo. Che novità ci sarebbe nell’annunciare un Dio che vive nei cieli senza sporcarsi con la nostra povera condizione soggetta a malattia, incertezza, con i nostri dubbi, le nostre paure? Non sarebbe il Dio di Gesù di Nazaret.

Quel Dio che, invece, si fa carne di cui cibarsi per amore del mondo e che domani, come sempre, ci attende anche fuori di chiesa.

Buona domenica.

 

Stefano Sodaro