I giorni di Rodafà

Il monaco e le donne, illustrazione tratta dal libro umoristico Всеобщая исторiя, обработанная‚ Сатирикономъ, 

(The General History Edited by Satyricon,

opera di Arkadij Timofeevič Averčenko, edita per la prima volta a San Pietroburgo nel 1911), 

con la seguente didascalia:

Gregorio VII proibì categoricamente al clero qualsiasi matrimonio. Da allora il clero cattolico evita del tutto le donne e quindi tutte quelle storie piccanti scritte e raccontate sui sacerdoti devono essere considerate assurdità assolute.

- fonte: commons.wikimedia.org

L’immagine di primi Novecento (Il monaco e le donne) che compare sotto il titolo di questo articolo ha tratti di giovialità, giocondità, giocosità, gioiosità, che sono stati spesso repressi non solo dalle rigidità degli ammaestramenti morali, o meglio moralistici, di derivazione strettamente religiosa, ma anche, e forse soprattutto, dalla vera e propria congiura del silenzio con cui un’intera cultura, di per sé fieramente laica – o forse laicista – e fieramente borghese, ha voluto avvolgere tutto ciò che avesse a che fare con il sesso amoroso e con la gioia di vivere.

Bisogna riconoscerlo: l’ingiunzione etica alla responsabilità, alla compostezza (da qualche ecclesiastico a volte aggettivata come “cristiana”), viene pressoché sempre opposta all’ingiunzione, altrettanto perentoria, ad essere felici, che è in sospetto di pericolosa capacità eversiva.

La cultura del “no” non è applicazione, epifenomeno o risvolto pratico, immediatamente operativo, di quella consapevolezza dei famosi “no che aiutano a crescere”, tutt’altro: è bastione fiorito di riproposizione di un “sì” che corrisponde al proprio io. Io sì, tu no. Ci sono molti “no” che non aiutano per niente a crescere: no all’amore, no a saper perdere, no ad includere, no agli altri. Insomma un enorme “no” alla gioia corrisponde, molto spesso, ad un gigantesco “sì” alla propria, individuale, felicità. Ed inizia lo spezzettamento, il ritaglio, abbastanza ansioso e spesso a rischio di fedifraga clandestinità, di porzioni di felicità da godere in geloso appagamento solitario.

Questo, però, non è il piacere di vivere. È il suo contrario.

Simenon (di cui anche L’Osservatore Romano s’è occupato - con sorpresa di alcuni vista la dichiarata propensione muliebre “poliamorosa”, diciamo così, dello scrittore - lo scorso 2 settembre, in http://www.osservatoreromano.va/it/news/quellinfaticabile-labor-limae) compose un gustosissimo racconto, Gli sposi del 1° dicembre, in cui l’intreccio narrativo conduce esattamente alla scoperta di dinamiche di separazione, avverse alle sintonie unitive, perché ritenute escludenti, ripiegate su di sé. Il violento corrisponde a chi violenta la poesia, l’incanto, la leggerezza, quella “cortesia” che i Medievali sapevano ben valorizzare e che i Moderni, invece, han ben saputo deridere. Nel Settecento, per quanto possa sembrare paradossale e forse assurdo, furono i Gesuiti ad essere accusati di “libertinismo” in ragione della loro devozione al Sacro Cuore di Gesù, che, per i loro nemici, troppo s’apparentava sostanzialmente alla dedizione appassionata dei trovatori cortesi.

La vicenda spirituale di Louis Massignon (di cui L’Osservatore Romano ha voluto far menzione a 70 anni dall’ordinazione presbiterale dell’illustre islamologo, con un articolo dal titolo Tenera ed intensa spiritualità, cui ci permettiamo di rinviare, rinvenibile al link http://www.osservatoreromano.va/it/news/tenera-e-intensa-spiritualita) fornisce, se lo si vuole utilizzare, il pertugio per guardare oltre le mura del perbenismo borghese, allargando lo sguardo ad una veduta che abbraccia opposti non più da tener distanti.

Affermò Pio XII nel celebre discorso alle rappresentanti delle Associazioni femminili cattoliche ricevute in udienza il 21 ottobre 1945: «Ogni donna, dunque, senza eccezione, ha, intendete bene, il dovere, lo stretto dovere di coscienza, di non rimanere assente, di entrare in azione per contenere le correnti che minacciano il focolare, per combattere le dottrine che ne scalzano le fondamenta, per preparare, organizzare e compiere la sua restaurazione». L’affermazione pontificia seguiva di quasi 10 mesi all’approvazione da parte del Consiglio dei Ministri presieduto da Ivanoe Bonomi il 30 gennaio 1945, settantacinque anni fa dunque (http://www.osservatoreromano.va/it/news/la-vita-pubblica-ne-ha-bisogno), del decreto legislativo luogotenenziale – emanato il successivo 1 febbraio – che estendeva l’elettorato attivo a tutte le donne (con la sola eccezione di coloro che esercitavano “la professione” al di fuori delle case di tolleranza e che perciò venivano schedate). Il pronunciamento del Papa, benché veicolasse un’immagine di donna del tutto tradizionale e culturalmente debitrice di un rigoroso assetto patriarcale considerato immutabile, trovava un precedente “simbolico”, epperò molto più ardito, proprio nella solitaria figura di Mary Kahil, amica di Massignon. E questi rapporti, in cui una presenza “terza” sembra alterare logiche binarie, anche affettive, piuttosto scontate – è in effetti la classica fotografia della coppia, contestata visivamente, per appunto, dall’immagine sotto il titolo del presente articolo (che comunque non è scevra da pesanti tratti maschilisti, il monaco è da solo, le donne sono molte) -, questi rapporti, osservava, si sono riproposti, con la loro valenza conturbante, anche ad Ovest, se pensiamo a Karl Barth e Charlotte von Kirschbaum o a Lou von Salomé e Friedrich Nietzche e Paul Reé. Scorciatoie interpretative al riguardo finiscono dritte solo nel cestino della volgarità. È il “sì” alla complessità della vita che va invece interrogato.

Ad esempio: perché Francesco non ha intitolato la sua Esortazione Apostolica post-Sinodale Amoris Sacrificium invece che Amoris Laetitia? E perché Veritatis Gaudium invece che Veritatis Imperium?

Rodafà pensa che la retorica dolorista e la cupezza spirituale, accompagnate sovente da una concezione del peccato come male morale e non come mancanza di fede, abbiano troppo a lungo segnato la storia della comunità cristiana.

Se il n. 5 del 2019 della Rivista Internazionale di Teologia Concilium risulta interamente dedicato alle teologie queer (Teologie queer: diventare il corpo queer di Cristo, https://www.queriniana.it/rivista/concilium-5-2019-2206), prima di stracciarsi le vesti, forse sarebbe il caso di indagarne le ragioni profonde e constatare che la teologia si muove secondo una sequela evangelica che scardina necessariamente luoghi comuni confortanti ed acquietanti ma incapaci di generare gioia.

Sarà a Trieste, da mercoledì prossimo, il Card. Walter Kasper, che ha avuto un ruolo fondamentale nell’elaborazione teologico-pastorale sfociata nei due Sinodi sulla famiglia e quindi nella citata Esortazione Apostolica. Da qualche giorno, poi, un altro cardinale tedesco, Reinhard Marx, Arcivescovo di Monaco (di cui fu titolare a suo tempo pure Joseph Ratzinger), guida, quale Presidente della Conferenza Episcopale di Germania, “Der Synodale Weg” (https://www.synodalerweg.de/, ove è presente anche la versione in italiano), il “Cammino Sinodale” della Chiesa Tedesca che non avrà paura di interrogarsi sui temi di più acuta urgenza – anzi emergenza – comunitaria, dal celibato come requisito indispensabile per l’ordinazione presbiterale alle parole nuove sulla sessualità umana che finora mai sono state pronunciate.

Va da sé che montino le preoccupazioni, già manifestatesi con Amoris Laetitia, di un tradimento della tradizione, ma si tratta, da un lato, di prendere coscienza che la Tradizione viene fedelmente seguita solo se capace di ridiscutere e rinnovare i suoi precipitati storicamente condizionati e, dall’altro, di rendersi conto che non si tratta di istanze portate avanti da qualche gruppo di esagitati in cerca di protagonismo polemico, ma di un’intera Chiesa, coinvolta anche nelle sue articolazioni istituzionali. Quei “processi” da innescare cari a Francesco che una volta innescati, tuttavia, non possono certo ritornare ad una inerzia improduttiva.

Sono, questi, giorni di grazia. Grazia che traspare dalle parole di Liliana Segre al Parlamento Europeo (https://www.youtube.com/watch?v=sknTCJRQgPw), la cui testimonianza non può essere ritenuta semplicemente “compatibile” con la storia di chi militò a favore del nazifascismo nel nostro Paese. La grazia crea uno spartiacque, non è una melassa.

La grazia è gusto, sapore della vita, su cui pronunciare per sempre una benedizione, anche del tutto laica, e non una maledizione.

La grazia è policroma e politica, perché si svela nella ferialità dei giorni, laddove le scelte sono necessarie e le passioni anche.

A Trieste abbiamo immaginato un luogo, un giornale, un’associazione in cui mettere a tema la politica della vita, quella nostra, sfaccettata, contraddittoria, cercando le strade per una liturgia del quotidiano che rianimi la dimensione celebrativa del nostro esserci. Vedremo se ce la faremo.

Nessuna pandemia deve riuscire a contaminare la grazia.

Buona domenica,

 

Stefano Sodaro