Dio, Patria e Famiglia
La cena, Jean-Baptiste Debret (1768-1848), litografia, 1839
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Al Congresso mondiale delle famiglie di Verona di fine marzo 2019, Giorgia Meloni ha sfoderato uno slogan storicamente noto: “Difenderemo Dio, Patria e Famiglia”.
La citazione, coniata da Mazzini, riesumata dal fascismo, sembra aver trovato oggi nuova linfa vitale tanto da assurgere a motto anche dell’ideologia conservatrice cattolica. Come vedremo, Gesù non è stato favorevole a questi tre valori, che creano una società piramidale.
C’è comunque da dire che questa struttura piramidale (in alto Dio, poi la Patria, più in basso la Famiglia) trova anche una giustificazione religiosa nella Genesi: se al punto più alto c’è Dio e al punto più basso c’è il caos informe della materia che attende le forze divine per raggiungere forma e bellezza, anche noi uomini portiamo in noi questo disordine caotico della creazione non ordinata, e rischiamo continuamente di essere risucchiati in basso, dal vortice del caos venendone deformati [1]. Perciò, se non collaboriamo per ottenere l’armonia ordinata, continueremo a scivolare verso il caos del disordine. Dunque la formula Dio-Patria-Famiglia risponde innanzitutto a un bisogno di ordine, e l’ordine ha bisogno di obbedienza (di cui parleremo meglio la settimana ventura); e l’obbedienza va data al potere che mantiene l’ordine; l’ordine si mantiene con le leggi e chi fa le leggi è anche colui che detiene il potere. Un circolo vizioso.
Va riconosciuto che tutti i racconti iniziali della Bibbia (la caduta di Adamo, il fratricidio di Caino, la torre di Babele) contengono anche delle grandi verità, perché i desideri smisurati dell’uomo portano disordine, portano alla frattura innanzitutto con sé stessi (Adamo), poi alla divisione col proprio fratello (Caino) [2], infine al disordine collettivo o mondiale (Babele). In particolare, nell’episodio della torre di Babele (Gn 11,1-9) improvvisamente non ci sono più nomi propri a differenza delle storie precedenti, ma si parla genericamente di uomini: ciò significa che fin dall’inizio c’è stata questa tentazione del potere di livellare tutto e tutti. L’episodio della torre di Babele che conclude quella che viene definita la preistoria di Israele, ma che è appunto la narrazione di una umanità che (dal paradiso terrestre alla torre di Babele) si ribella al progetto di Dio, nel senso che l’uomo vuole o sostituirsi a Dio, o fare quanto meno di Dio lo strumento di consacrazione dei propri progetti di potere [3], dimostra che l’innalzamento della torre era stato pensato dal potere affinché Dio si sedesse in cima e consacrasse ciò che l’uomo faceva appena sotto, tutto in una rigida gerarchia piramidale. Invece, quel tipo di società gerarchica (Dio-Patria-Famiglia), ce lo dice già la Bibbia, non va bene; la Bibbia ci dice che Dio non volle affatto sedersi lassù in alto, perché da lassù è disceso e li ha dispersi tutti. Dio, cioè, non accetta l’inquadramento, l’omologazione effettuata dal potere, perché rischia di diventare auto-idolatria, idolatria delle proprie sicurezze, conferma del proprio potere, ed è uno dei grandi rischi che anche noi stiamo correndo ancora oggi: pensiamo solo ai grandi problemi che oggi ci pone la globalizzazione economica [4], o il sempre nefasto connubio fra potere temporale e religioso.
Il mito della torre chiarisce come la disumanizzazione degli esseri umani si manifesti, innanzitutto, nell’incapacità di comprendersi reciprocamente. Quando la comunicazione, il capirsi reciprocamente, la comprensione e la tolleranza diventano impossibili, allora è quando la disumanizzazione ha raggiunto il suo livello più alto. Fin dall’inizio, dunque, la Bibbia ci dice che l’uomo è stato risucchiato verso il caos, perché la disumanizzazione è il contrario della perfezione umana. Il chiaro messaggio biblico è che, l’uscire dalla collaborazione/comunione nei confronti di Dio, presumendo di raggiungere un accrescimento divino della propria vita oltre i limiti creaturali, credendo di poter diventare come Dio, porta di fatto l’uomo verso il caos. Lo sappiamo, ma continuiamo imperterriti sulla via della torre di Babele, dell’incomprensione, della disumanizzazione. Dunque, in questi millenni la tecnologia è migliorata tantissimo, ma l’uomo è rimasto sostanzialmente lo stesso, non è migliorato di molto.
Storicamente, ai tempi di Gesù in Palestina, la separazione tra gli ebrei e i pagani era, come tutti i confini tribali, una tecnica di sopravvivenza che gli ebrei avevano fissato, a partire dall’esilio babilonese, come elemento definitorio della loro identità.
È l’uomo che ha la capacità di stabilire, mediante rappresentazioni simboliche, differenze fondamentali tra uno spazio e l’altro, tra un tempo e l’altro, tra una persona e l’altra [5]. Agli uccelli migratori non importa nulla dei sacri confini della Patria. Neanche noi, se fossimo seduti in alto su una nuvola, li vedremmo, perché non sono reali ma immaginari. Però, per sopravvivere come popolo, gli israeliti avevano dovuto tracciare forti linee di demarcazione per differenziarsi dagli altri. La stessa Bibbia ci racconta come si è arrivati perfino ad ammazzare in nome del proprio Dio per mantenere intatta la propria identità tribale (Nm 25, 8): ad esempio, il figlio di Eleazaro e nipote di Aronne uccise in pubblico con la lancia un ebreo e sua moglie, una Medianita, solo perché c’era il rischio che l’uomo seguisse la religione (ovviamente falsa e perniciosa) di quella donna, come avevano già fatto altri ebrei prima di lui, provocando altrettanto ovviamente la giusta ira dell’unico e vero Dio. E dopo aver ammazzato in nome del proprio Dio, questo Dio era talmente contento dell’ortodossia del suo popolo dimostrata da Eleazaro che da quel momento è iniziata un’alleanza di sacerdozio perenne [6]. Ciò conferma che mai si ammazza con tanto gusto come quando si uccide in nome del proprio Dio: che si chiami Javhé, o Allah, o Signore, non fa alcuna differenza [7]. Gesù, invece, non accetterà mai che in nome della religione si facciano discriminazioni [8], né basandosi sulla religione [9], né basandosi sulla laicità.
In effetti si può discriminare o perfino ammazzare l’altro per paura che minacci la nostra identità non solo in base a motivi religiosi [10], ma anche perché ha un colore di pelle diverso, o perché parla una lingua per noi incomprensibile. È tipico della vita umana rispondere al proprio bisogno di sicurezza mostrando paura per la presenza di chiunque sia diverso. Questa paura è provocata dall’incapacità d’interpretare quei comportamenti che non sono ancora approvati dalle norme che governano la vita tribale e nelle quali i membri della tribù sono stati allevati. Per questo motivo appartiene alla natura umana che si reagisca a uno straniero con un intenso sospetto. Gli stranieri parlano una lingua che non capiamo, per cui non sapendo cogliere il significato dei suoni che escono dalle loro bocche temiamo le loro motivazioni. Se capiamo la loro lingua già abbiamo meno paura. Quando non capiamo le loro parole, cresce e si alimenta la nostra paranoia (“quel musulmano che ci sta guardando mentre parla col suo amico, mica gli starà dicendo che sarebbe bello tagliarci la gola?”). Gli stranieri che non appartengono alla nostra tribù hanno anche caratteristiche etniche diverse (“guarda che lineamenti marcati ha quella persona, si vede subito che è straniera; guarda come è vestita quella donna, tutta infagottata e col velo”). Il modo di pensare tribale definisce sempre le caratteristiche della propria etnicità come normale, ma così sottintende che chi è diverso è anormale. Gli stranieri, poi, hanno anche culti diversi, e dato che il significato primario e primitivo del culto è quello di sollecitare la protezione divina nei propri confronti, un culto che esula dalla nostra normalità ci fa correre il rischio di far perdere la protezione della nostra divinità, offesa dal culto - in casa sua, - della divinità di un’altra tribù, sì che quel culto diverso potrebbe risultare malefico per noi [11].
Si muoveva su questa linea, ai tempi dell’apartheid in Sud Africa, anche la Chiesa cristiana che lo supportava, per cui predicava essere fornicazione il matrimonio fra maschio e femmina di razze diverse, e vedeva tutti i quartieri dove bianchi e neri convivevano tranquillamente come luogo di fornicazione [12], e non come luogo di pacifica e positiva unità.
Il vescovo americano Spong John ha magistralmente descritto le ragioni di questa innata preferenza a costruire muri, spiegando anche come la xenofobia sia una tecnica di sopravvivenza umana naturale, presente in tutti gli uomini, in tutte le parti del mondo. Il tribalismo, pertanto, è una caratteristica identificatrice di ogni forma di vita umana, per cui è difficilissimo sbarazzarci della xenofobia perché è profondamente inserita nell’essere umano [13]. Potremmo superarla, ma dovremmo superare i limiti della nostra umanità (meglio sarebbe dire: in-umanità). Superarla, quindi vuol dire avere la forza di cambiare, di superare un confine che ci siamo creati, di entrare in un nuovo livello di coscienza dove si comincia a percepire che la realtà umana è una sola: mentre davanti al colore della pelle posso vedere differenze, davanti a un flacone di sangue non posso dire se proviene da un bianco, un giallo o un nero [14]. L’accettazione di chi ci appare diverso non è però facile, perché la sopravvivenza è il motore della vita che richiede sempre barriere dietro alle quali trovare sicurezza (i suprematisti parlano di identità che non si deve imbastardire).
Mantenere l’identità dava sicurezza e forza anche agli ebrei, che arrivavano a credere che il loro Dio sarebbe sempre intervenuto per salvare la loro piccola Patria, purché essi non si fossero mischiati con gli altri popoli. Infatti, la Samaria, dove si era verificata una mescolanza, era disprezzata dai giudei, che si consideravano privilegiati: quando il re dell’ Assiria, Sennacherib stava per far cadere la pura e santa Gerusalemme dopo un lungo assedio, e gli assediati si credevano ormai perduti, improvvisamente la mattina del giorno che doveva segnare la loro fine, dopo una notte di tremenda paura, gli abitanti di Gerusalemme, scoprirono con sorpresa che gli assedianti avevano tolto le tende e se ne erano andati. Questo venne interpretato (2Re 19, 35) come un’azione dell’angelo del Signore che aveva colpito ben 185.000 dei guerrieri di Sennacherib. Questo fatto aveva dato luogo alla certezza che, nel momento di maggior pericolo per Gerusalemme, Dio sarebbe sempre intervenuto in prima persona per salvare la Patria, e lo stupefacente episodio veniva cantato in un salmo (il n. 46). Perciò, quando Gesù ha cominciato a dire, indicando il Tempio, che «Verranno giorni nei quali di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta» (Lc 21, 6), i discepoli non si sono spaventati per la previsione, anzi si eccitano perché sono anch’essi convinti che all’ultimo momento Dio in persona interverrà per soccorre Israele. Ma Gesù smentisce subito l’idea dei suoi discepoli galvanizzati da questa prospettiva di un intervento salvifico divino: «prima di tutto questo metteranno le mani su di voi». I tre valori sacri - Dio, Patria e Famiglia – sono chiaramente già messi in discussione da Gesù (Maggi A.), che parlando dell’imminente persecuzione pronta a scatenarsi, dimostra che i difensori di questi falsi valori sono in realtà nemici dell’umanità. Infatti Gesù dice: “Prima di questo metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni” (quindi la persecuzione per motivi religiosi), “trascinandovi davanti a re e governatori” (la persecuzione per motivi civili), e tutto questo sarà «a causa del mio nome», cioè a causa dell’adesione a Gesù e al suo messaggio (Maggi A.).
Del resto, già da piccolo, la Patria aveva perseguitato Gesù e non l’aveva affatto difeso. Gli ebrei, che erano schiavi in Egitto, erano fuggiti da lì verso la terra promessa, la loro Patria. Ma non appena Gesù è nato, la terra promessa è diventata una terra infida, una terra di morte dalla quale è dovuto fuggire per andare in Egitto (Mt 2, 13). Migrante anche lui fin da piccolo in uno Stato straniero, più accogliente della sua vera Patria.
La minaccia per Gesù arrivava dal potere vigente in Palestina. In effetti nel Vangelo, il potere, che è sempre diabolico, porta con sé tre valori, tutti negativi. L’istituzione religiosa, che adopera Dio per dominare le persone, la Patria dove il re e i potenti dominano le persone, e la famiglia dove il maschio, capo indiscusso dei suoi familiari, li sottomette tutti. Ognuno di questi tre ambiti si fa scudo e si difende con l’aiuto dell’altro, e tutti e tre si vedono minacciati da quell’amore-servizio e dall’uguaglianza proposti da Gesù.
Nei vangeli non c’è traccia di una gerarchia piramidale. La figura che più si addice al gruppo di Gesù è il cerchio non la piramide (Mc 3, 31-35). Gesù viene sempre individuato nel mezzo, non in cima; anzi (Lc 22, 27) Gesù dice qualcosa di più: «io sono in mezzo a voi come colui che serve».
Ponendo l’attenzione su alcune parti dei vangeli in passato trascurate, oggi ci si rende conto di come non reggano più i tre valori considerati sacri e non negoziabili fino a poco fa.
Rileggendo i vangeli ci si è oggi accorti che Gesù li ha intesi piuttosto come nemici del bene dell’uomo, perché facilmente portano ad abusi. Gesù ha detto che in nome di Dio verrà il giorno in cui molta gente ammazzerà altri credenti pensando di fare cosa gradita a Dio (Gv 16, 2), per cui evita di parlare di Dio. Gesù parla preferibilmente del Padre, perché mentre in nome di Dio è facile togliere la vita agli altri, in nome del Padre si può solo comunicare vita (Maggi A.).
E la patria? La patria significa un recinto, un confine di una nazione, di un popolo. Ebbene Gesù non viene a difendere la patria, perché lui si presenta come distruttore di barriere (Ef 2, 14-15) e costruttore di ponti; anzi dirà che è venuto ad inaugurare non il privilegiato regno di Israele, ma il regno di Dio dove non ci sono confini, perché l’amore di Dio vuole raggiungere ogni uomo. Il messaggio di Gesù non può espandersi nel mondo intero se vi sono confini nazionali. La patria, il sacro suolo della patria che si difende con la propria vita (anche se i capi che detengono il potere stanno, di solito, nelle retrovie per cui non corrono questo rischio), esclude gli altri. L’amore di Dio è quello che accoglie tutti, quindi l’amore di Dio è universale [15].
Gli odierni fautori del sovranismo [16] battono molto sul tasto dell’identità nazionale e, visto che i confini patrii non bastano, invocano filo spinato e porti chiusi. La cultura dell’identità nazionale – essi dicono,- è fondamentale perché esprime il senso stesso del nostro stare al mondo, e gli immigrati che arrivano da noi non hanno la nostra cultura. Se arrivano in tanti prenderanno sopravvento nella nostra stessa Patria. Ma, com’è stato giustamente osservato (Ainis Michele, La via visionaria alla politica, “la Repubblica” 27.12.2019, 34), l’identità vuol dire posizione, e il posto di ciascuno si misura rispetto al posto altrui, e il posto dello straniero appena arrivato deve essere allora inferiore al mio che vivo qui da sempre, e se lo straniero vuol competere per lo stesso posto di lavoro cui aspiro diventa immediatamente un mio nemico. Non solo nell’agire politico, come insegnò Carl Schmitt, ma anche nel campo religioso, specialmente quando la religione è elevata a politica [17], opera perciò la distinzione fra amico e nemico, come nell’etica vale quella fra buono e cattivo, o nell’estetica quella fra bello e brutto. Sicché l’identità religiosa finisce col racchiudersi in un motto: “dimmi chi è il tuo nemico e ti dirò chi sei, ti dirò quale dio adori”. E su questo molti politici ci marciano: “Quel tizio non recita e non bacia il rosario? Vuol dire che non è dei nostri. Io che lo faccio, dimostro di essere dei vostri. Votate per me”.
Un bel problema che si ritrova anche quando si parla di famiglia. Quando Gesù afferma che “i nemici dell'uomo saranno i suoi familiari” (Mt 10,36) parla partendo dalla propria esperienza personale. Non ha avuto alcun appoggio dalla sua famiglia, ma solo difficoltà. I rapporti di Gesù con la propria famiglia infatti sono stati piuttosto difficoltosi: i suoi lo ritenevano un pazzo da togliere dalla circolazione (Mc 3, 20-21); nessuno del suo ambito familiare ha mai creduto in lui (Gv 7,5). Perciò Gesù è molto critico con la famiglia. Non solo con la sua (Mc 3,21; 6,1-6; Mt 12,46-50; Gv 7,1-5) ma con la famiglia in generale (Mt 8,21-22; 10, 34-42; Lc 12,51-53; 14,26-27). Non sono i legami del sangue quelli che uniscono, ma ideali comuni per accogliere i quali si può rompere con la propria famiglia e lasciare persino “moglie o fratelli o genitori o figli...” (Lc 18, 29). Gesù ha trasformato l’idea di famiglia vincolata dagli obblighi familiari, estendendola ad ogni uomo, senza distinzione di popoli e razza. L'unità si realizza dall'accoglienza dello stesso Spirito e non dall'avere lo stesso sangue: “girando lo sguardo su quelli che gli stavano seduti attorno, disse: Ecco mia madre e i miei fratelli! Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello, sorella e madre” (Mc 3, 33-35). Girare lo sguardo significa essere alla stessa altezza; non guardare dall’alto della piramide verso il basso. Per poter seguire Gesù e vivere il suo messaggio, occorre tagliare il cordone ombelicale e allontanarsi dalla famiglia che dà protezione, ma spesso anche soffoca l’individuo incapace di rivendicare il proprio diritto di pensare con la propria testa e camminare con le proprie gambe. Seguire Gesù richiede la piena libertà dell’individuo, che deve rendersi indipendente da tutto quel che gli impedisce piena libertà di movimento, compresi quei rapporti familiari che proprio per la loro costrizione vengono chiamati “vincoli” o “legami”: “Chi vuol bene al padre o la madre più di me non è degno di me; chi vuol bene al figlio o la figlia più di me non è degno di me (Mt 10,37). Piuttosto evidente che se Gesù dice questo non vede alla base della società la famiglia, ma piuttosto il gruppo di coloro che aderivano a quello che egli chiama il regno di Dio (Pixley J., L’opzione per i poveri e il Dio biblico, in Con i poveri della terra, a cura di Vigil J.M., ed. Cittadella, Assisi, 1992, 32). Ciò che tiene unite le persone non è il vincolo di sangue (Mc 3, 33: «chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?»), ma è la comunità di ideali (Maggi A., Non ancora madonna, ed. Cittadella, 2004, 98.).
E quando una donna che incontra Gesù gli grida “Benedetta tua madre che ti ha portato in grembo e ti ha allattato!” (Lc 11, 27-28) Gesù – ancora una volta – scavalca il legame di sangue e dice: «Beati piuttosto quelli che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica». Evidente che la famiglia, come nell’episodio di Gesù adolescente al Tempio (Lc 2, 48: “Tuo padre ed io ti cercavamo”) non è poi così importante per lui, e una relazione (anche adottiva, da parte di Dio) già supera la consanguineità. Quindi oggi si riconosce che il messaggio di Gesù è di una grande apertura: nessuna persona può essere considerata straniera, nessuna persona può essere considerata esclusa, ma tutti quanti dei fratelli da accogliere e con cui vivere in armonia.
Ma pur avendo usato parole dure verso la famiglia, non vuol dire che Gesù intendesse distruggere la famiglia tradizionale: intendeva solo liberarla da quei ricatti affettivi che impediscono ai suoi componenti di crescere, accedendo a quella pienezza di vita alla quale ogni individuo è chiamato. E qui Gesù avverte subito: la famiglia, per come è costituita, si sentirà minacciata dalla sua innovativa proposta, per cui reagirà violentemente: “il fratello consegnerà a morte il fratello...” Il vincolo normale tra i membri della stessa famiglia dovrebbe essere la solidarietà, ma spesso questo si cambia in odio. Basti pensare a come ci si scanna per un bene ereditario. O pensiamo al libro del Deuteronomio (Dt 13, 7-12), dove si legge che, in caso di idolatria, si è autorizzati, anzi benedetti, ad uccidere persino i propri familiari, cosa inconcepibile per Gesù.
Come mai questa differenza? Perché per seguire Gesù bisogna cambiare radicalmente, e cambiare spaventa perché incide sulle nostre consolidate abitudini, sui nostri pregiudizi stereotipati, e questo costringe a cambiare innanzitutto noi stessi, il che è la cosa in assoluto più difficile. Ecco perché il messaggio di Gesù significherà, agli occhi della società di Israele fedele alla Bibbia, un tal sovvertimento dei valori, un crimine così grande da essere paragonato all’idolatria, meritevole perciò della pena di morte.
Venendo all’oggi, il documento finale del Sinodo delle famiglie, del 2015 ha proclamato che la famiglia resta un pilastro ineliminabile della società, però ha sottaciuto il fatto che nella realtà si dovrebbe ormai parlare di modelli plurimi di famiglia, visto che le famiglie stanno diventando sempre più articolate. Non può esistere un “modello cristiano” di famiglia perché la famiglia, prima di essere un “fatto religioso”, è un “fatto culturale” (Castillo J.M.). Invece, secondo i teologi cattolici, il matrimonio eterosessuale e monogamo con l’obbligo di fare figli sarebbe stato istituito addirittura da Gesù Cristo, che l’avrebbe dedotto da una presunta “legge naturale”. Proprio lui che non si è sposato e non ha avuto figli! Nel mondo ci sono stati sempre molteplici modelli di famiglia, così come sono esistiti molti modelli di cultura, e ogni modello di famiglia dipende soprattutto dalla cultura nella sua totalità, non dalla dimensione religiosa della cultura (Castillo J.M.). Il magistero della Chiesa, tutto impegnato a difendere l’esistenza di un unico modello di famiglia, dimentica che Gesù non è nato in una famiglia regolarmente convolata a nozze (cfr. l’articolo su La crisi della famiglia regolare al n. 430 di questo giornale, https://sites.google.com/site/numeriprecedenti/numeri-dal-26-al-68/199997---dicembre-2017/numero-430---10-dicembre-2017/la-crisi-della-famiglia-regolare-perche-preoccuparsi), per cui quella che la religione indica come modello di famiglia santa e perfetta da prendere come esempio, è in realtà una coppia di fatto con un unico figlio illegittimo, o, ben che vada, una coppia con un matrimonio nullo secondo il nostro diritto canonico (perché chiusa alla procreazione, elemento su cui si è stato invece fondato il matrimonio cattolico fino al 1987), e quindi sempre una coppia di fatto.
In realtà, allora, il magistero, difendendo quell’unico modello di famiglia, sta difendendo quella che era l’antica famiglia patriarcale, tant’è che – come si è visto nel primo articolo di gennaio di quest’anno,- l’enciclica papale Casti connubii del 1930 ancora condannava coloro che osavano predicare l’uguaglianza di diritti fra i coniugi. Certo, in questi ultimi decenni anche la Chiesa ha dovuto fare qualche aggiustamento. Sicuramente oggi non sarebbe pensabile un intervento come quello del 1956 del vescovo di Firenze che dichiarò pubblici peccatori – perché pubblici concubini ex can. 855 e 2357 del cod. di diritto canonico,- due persone che si erano sposate solo civilmente (Sandri L., Il papa gaucho e i divorziati, Gioacchino Onorati ed., Canterano (RM), 2018, 46 e 159). Al tempo quel vescovo venne condannato per diffamazione in primo grado e assolto in appello, perché allora non erano ancora arrivati i cd. “pretori d’assalto” che trattavano allo stesso modo cittadini comuni, politici, generali e vescovi, e in allora c’era ancora la tendenza a considerare le persone che stavano più in alto sulla piramide superiori ai normali cittadini, per cui neanche si pensava di poterli processare. Oggi, cambiata la cultura, quel vescovo sarebbe sicuramente condannato.
Ma per Gesù, già duemila anni fa, le relazioni comunitarie basate sulla fede, venivano prima delle relazioni familiari basate sui legami di sangue. Le relazioni di parentela sono obbligatorie. Le relazioni di fede sono libere e fonte di libertà. Dovremmo quindi imparare individualmente da Gesù a coniugare tre verbi decisivi del Vangelo: accogliere, ascoltare e accompagnare, molto distanti dalla piramide. Si capisce così perché la visione ‘Dio, patria, famiglia’ è lontana da Gesù e anche dalla visione di papa Francesco (Politi, La solitudine di Francesco, Laterza, 2019, 68). Più volte questo papa - che vive e segue il Vangelo - ha lamentato che, ai ponti che aumentano la nostra qualità umana, preferiamo i muri difensivi, dietro ai quali ci nascondiamo, e ci sentiamo sicuri. Ed è proprio al riparo delle nostre recinzioni tribali che noi, esseri umani, sviluppiamo i nostri pregiudizi che soffocano la vita. Non si può essere interamente umani se si continua a violare l’umanità dell’altro, che è ciò che tutti i pregiudizi c’incoraggiano a fare.
Anche la religione, per come è stata intesa finora da molti (un insieme di credenze, regole, riti che se seguiti tranquillizzano la coscienza e ci fanno sentire a posto con Dio e con il mondo) finisce invece per rendere impossibile il capirsi e l’avere una buona relazione fra le persone. Vediamo tutti come, al giorno d’oggi, il mondo è ancora simile alla torre di Babele. L’opposto della torre di Babele avviene, nei vangeli, con la Pentecoste, quando tutti sentono parlare nella propria lingua (At 2, 8ss.), cioè tutti finalmente si capiscono.
Nella costruzione piramidale gerarchica ideata dagli uomini, e ancora oggi seguita dalla Chiesa cattolica, il più vicino a Dio è ovviamente chi sta in alto: il potente, il sommo sacerdote, il papa. Gesù non condivide quest’impostazione e si è messo a servizio dei più poveri, alla base della piramide occupata dagli emarginati, da quelli che nel mondo non contano niente. Se questo è vero, se accettiamo l’immagine di Dio trasmessaci da Gesù, gli impuri e gli emarginati sono i più vicini a Dio. Ma ne consegue che, rovesciando la piramide che noi abbiamo eretto, chi sta in alto diventa, immediatamente, il più lontano da Dio. Siamo davanti a un messaggio strabiliante: Gesù cambia radicalmente il concetto di Dio. Nell’opinione comune dove sta Dio? Visto che la società, dai tempi della torre di Babele, è sempre stata piramidale, Dio sta in cima alla piramide. Invece Gesù, che è Dio secondo il magistero, mostrando di cambiare la propria posizione cambia anche la posizione di Dio. Gesù non si fa lavare i piedi dai suoi discepoli, come sarebbe stato loro sacrosanto compito in ogni società piramidale, ma è lui che lava i piedi ai suoi discepoli, compiendo un lavoro di servo. Evidente allora che, nella visuale di Gesù, Dio abbandona la cima della piramide, e sta dalla parte degli ultimi. Altrettanto evidente che il Dio di Gesù è un Dio di parte, perché se sta dalla parte degli ultimi non sta dalla parte di chi ha il potere. Quello che il Vangelo offre è dunque una maniera di vivere che non è determinata e condizionata dal denaro, dal benessere, dal potere, ma dal progetto di alleviare la sofferenza, dalla lotta contro coloro che fanno violenza, dal rispetto per la dignità ed i diritti di tutti, dall’impegno di rendere felici coloro che ci circondano (Mc 6, 7-13) (Castillo J.M.).
Insomma, Gesù dimostra che i difensori dei tre valori sacri Dio-Patria-Famiglia sono, in realtà, assai spesso i nemici degli uomini. Infatti proporrà di sostituire a Dio, nome comune di tutte le religioni, il Padre. Mentre in nome di Dio si può togliere la vita alle persone, in nome del Padre si può soltanto dare la propria. Alla patria Gesù sostituirà il regno di Dio, non limiti e confini, ma un amore universale, dove chi potrebbe ambire ad essere capo – perché ha più talenti, o più ricchezze,- si spende per i meno fortunati; Gesù non vuole muri che dividono, ma ponti per incontrare l’altro. E la famiglia di Gesù non sarà quella contraddistinta dai vincoli del sangue, legata dai vincoli di sangue, ma dalla condivisione di un ideale: l’amore (Maggi A.).
In conclusione, può certamente sostenersi che il motto Dio-Patria-Famiglia ha radici in un’antichissima tradizione, che a sua volta è giunta fino a noi. Ma, dobbiamo renderci conto che i valori della tradizione che ci vengono proposti non rispecchiano sempre esattamente l’insegnamento di Gesù.
Dario Culot
[1] Vannucci G., Esercizi spirituali, ed. Comunità di Romena, Pratovecchio (AR), 2005, 114 s.
[2] Dall’omelia di Papa Francesco a Lampedusa l’8.7.2013: «… “Adamo, dove sei?” è la prima domanda che Dio rivolge all’uomo dopo il peccato. “Dove sei?”. È un uomo disorientato che ha perso il suo posto nella creazione perché credeva di poter dominare tutto, di essere Dio. L’armonia si rompe, e peggiora quando l’uomo sbaglia anche nella relazione con l’altro che non è più il fratello da amare, ma semplicemente l’altro che disturba la sua vita, il suo benessere. E Dio pone la seconda domanda: “Caino, dov’è tuo fratello?” … Questa non è una domanda rivolta ad altri, è una domanda rivolta a me, a te, a ciascuno di noi…» (“La Repubblica”, 9.7.2013, 3).
[3] Mentre l’uomo desidera usare i Nomi di Dio (Altissimo, Santissimo) per farsi grande, Dio ama tanto gli uomini da chiamarsi con il nome di quelli che si è scelti come suoi, i nomi cioè dei patriarchi (Es 3, 15) (Marchetti R., Lo strano nome di Dio nell’Esodo, conferenza tenuta a Trieste l’11.3.2014, presso il Gruppo Ecumenico di Trieste).
[4] La globalizzazione ha messo in evidenza che uno dei problemi più seri che sono venuti fuori nel nuovo ≪villaggio globale≫ è il problema dell’esclusione. La globalizzazione ci ha obbligato tutti a convivere ogni giorno più interconnessi, più mescolati e perfino più uniti. Per questo stiamo toccando con mano non solo le difficoltà che la convivenza di genti così diverse e di origini cosi differenti comporta, ma soprattutto fino a che punto ci escludiamo e perfino ci rifiutiamo reciprocamente (Castillo J.M., L’umanizzazione di Dio, EDB, Bologna, 2019, 62). Le difficoltà o l’esclusione non tocca chi manovra le leve del potere economico.
In ogni caso, a differenza che nel passato, oggi si sa che ogni cultura è in grado di trasformarsi in risposta a cambiamenti dell’ambiente o attraverso l’interazione con culture limitrofe (Harari Yuval Noah, Sapiens, Da animali a dèi, Bompiani, Milano 2018, 208). Pertanto possiamo prevedere che la globalizzazione influirà su quasi tutte le culture.
[5] Castillo J.M., Simboli di libertà, ed. Cittadella, Assisi, 1983, 34.
[6] Va però anche fatto notare che non esiste al mondo un altro popolo che abbia potuto mantenere la sua identità nazionale dopo aver perso il proprio territorio, ed essere stato costretto alla diaspora: infatti non esistono più i filistei, gli moabiti, e tante altre tribù (o popoli), tutti scomparsi una volta che loro terre sono state conquistate, cioè una volta persa la Patria.
[7] Maggi A., Religione del libro o fede nell’uomo, relazione tenuta in Ancona, 2010, in www.studibiblici.it/scritti/conferenze.
[8] Rius-Camps J., Diario di Teofilo, ed. Gabrielli editori, San Pietro in Cariano (VR), 2016, 68. Invece non esiste alcuna società concepita dall’uomo che sia stata capace di fare a meno di una discriminazione di qualche tipo.
[9] Gesù non chiede a nessuno di cambiare religione: cfr. l’articolo Gesù ha fondato una religione? al n. 474 di questo giornale (https://sites.google.com/site/ultimotrimestre2018rodafa/numero-474---14-ottobre-2018/gesu-ha-fondato-una-religione).
[10] Oggi temiamo molto l’islamizzazione dell’Europa. In realtà forse temiamo che i musulmani vengano a conquistarci religiosamente perché loro credono in Dio, mentre noi non ci crediamo più. Ma perché ci preoccupiamo dell’Islam, quando dovremmo preoccuparci di noi? Il problema vero siamo noi, non l’Islam. Il problema vero è la vita di noi cristiani che a parole diciamo di credere in Gesù, ma in pratica il nostro modo di vivere (come media, ed escluse le dovute eccezioni) dimostra esattamente il contrario.
[11] A parole diciamo che Dio è unico per tutti, ma quando sentiamo invocare Allah già pensiamo che si parli di un altro Dio. Eppure i cristiani del medio-oriente chiamano il nostro stesso Dio proprio col nome di Allah.
[12] Lapierre D., Un arcobaleno nella notte, ed. Il Saggiatore, Milano, 2009, 93.
[13] L’Homo sapiens, al pari degli animali sociali, è una creatura xenofoba. I Sapiens dividono istintivamente l’umanità in due parti, “noi” e “loro”, e noi non ci sentiamo responsabili di quanto accade a “loro”; a “loro” non dobbiamo niente, non vogliamo vederli nel nostro territorio e non c’interessa cosa accade nel loro territorio (Harari Yuval Noah, Sapiens, Da animali a dèi, Bompiani, Milano 2018, 246).
[14] Anche il DNA si presenta identico in tutti gli esseri umani nel 99,9 % dei casi. L’Homo sapiens - cui noi europei bianchi ci onoriamo di appartenere - si sarebbe evoluto in Africa circa 200.000 anni fa (Harari Y.N., Sapiens, da animali a dèi, Bompiani, Milano, 2018, 14ss.): quindi anche noi abbiamo origini africane. E a proposito del DNA, quello dello scimpanzè è al 99% uguale a quello umano.
[15] Diceva James Joyce, lo scrittore irlandese vissuto a Trieste per oltre dieci anni, e colpito dall’atmosfera di questa città mitteleuropea, diceva che qui tutti amavano la patria, “posto che sapessero qual era la loro patria”.
[16] È interessante leggere l’ultimo libro di Sergio Romano, L’epidemia sovranista, Longanesi, 2019.
[17] Calza a pennello, per gente come Salvini o il cardinal Ruini, la frase di Miguel de Unamuno (in L’agonia del cristianesimo): “Vedo la politica elevata a religione, e la religione elevata a politica”.