Confessione

Confessionale, Bamberga, Germania, Kirche St.Martin - foto trattsa da commons.wikimedia.org

La Bibbia stabiliva l’obbligo di confessare i propri peccati e di provvedere alla riparazione normalmente attraverso un sacrificio (Nm 5, 6-7 e Lv 5, 5-6); ovviamente occorreva comprare l’animale offerto in sacrificio, e normalmente erano gli stessi sacerdoti a vendere l’animale da sacrificare. La Bibbia inoltre stabiliva che il giorno dello Yom Kippur fosse un giorno totalmente dedicato alla preghiera e alla penitenza, e ogni ebreo consapevole dei propri peccati doveva chiedere perdono al Signore; inoltre veniva sacrificato il capro espiatorio (Lv 16, 21ss.) sul quale venivano per così dire trasferiti tutti i peccati del popolo.

Ai tempi di Gesù, tra Giovanni Battista che parlava nel deserto in nome di Dio e le istituzioni che parlavano nel Tempio in nome di Dio si era creato un solco e un netto contrasto. Secondo la dottrina ufficiale, infatti, la gente doveva recarsi al Tempio, la casa sacra di Dio, per ottenere il perdono. Giovanni, prescindendo dal Tempio e dalle istituzioni, prometteva il perdono nel deserto terreno e profano, se solo si cambiava vita (Mateos J. e Camacho F.). In questo Gesù ha seguito il Battista.

Ciononostante la confessione è entrata anche nel cristianesimo, ma non dalla porta principale, perché Gesù non ne ha mai parlato espressamente. Nei vangeli non c’è neanche un accenno al fatto che Gesù, o i suoi apostoli, abbiano confessato qualcuno. Eppure tutti quanti, essendo ebrei, ben sapevano cosa diceva la Bibbia al riguardo. Dunque, già con questa mancanza può sostenersi che Gesù non ha imposto la confessione nella sua comunità.

Ma c’è molto di più: l’obbligo di confessarsi sarebbe in aperto contrasto col comportamento normalmente tenuto da Gesù. Si pensi all’esattore d’imposte Levi, un peccatore ufficiale, un ladro di professione che incamerando le tasse chiedeva sempre più del dovuto, e tartassava la gente, e per di più collaborava con gli odiati invasori romani (Mc 2, 13 e Lc 5, 27). Bene! Questo peccatore viene invitato da Gesù ad unirsi a lui senza alcuna pregiudiziale: a lui dice solo «Seguimi!», esattamente come aveva detto ai primi discepoli (Mc 1, 17), e Levi lo segue. Non che i primi discepoli fossero tutti perfetti e non avessero bisogno di confessarsi: Pietro, dopo la pesca miracolosa, cerca di staccarsi da Gesù perché si sente un misero peccatore (Lc 5, 8), Gesù non lo allontana, e soprattutto non gli chiede di pentirsi per i suoi peccati, né di fare penitenza. L’essere peccatore è una preoccupazione di Pietro, ma non interessa particolarmente Gesù, che neanche sfiora l’argomento ‘peccato’.

Osserva giustamente Alberto Maggi che, se Gesù fosse stato una persona veramente religiosa, rispettoso del magistero, osservante della Bibbia e della dottrina, a questo Levi, peccatore incallito che ha passato tutta la vita nel peccato, per prima cosa avrebbe detto: “Adesso che hai deciso di seguirmi ti fai qualche settimana di penitenza, ti purifichi, ti penti, digiuni per un po’ (magari nel deserto), preghi, restituisci il maltolto; alla fine di tutto questo ti concedo il perdono del Signore, e finalmente meriterai di entrare a far parte del mio gruppo”. Invece Gesù non indaga se questo pubblicano si è pentito dei suoi peccati, non lo invita a ritirarsi neanche per un attimo in un monastero o a purificarsi nel deserto, non lo sollecita a fare penitenza per il suo passato sopportando di buon animo ogni sofferenza (n. 1450 Catechismo), non lo sollecita a proporsi di non peccare più (n. 1451 Catechismo), a confessare fedelmente i suoi peccati (nn. 1456 ss. Catechismo), a fare il possibile per risarcire i danni (n. 1459 Catechismo) che ha causato con le sue inique gabelle.

E Gesù si comporta così con tutti, non solo con Levi o con Pietro. Guardiamo ad esempio Mc 1, 40-45. Si è già detto varie volte che ai tempi di Gesù la lebbra non era considerata una malattia infettiva, ma una punizione di Dio per i peccati dell’uomo. Nell’Antico Testamento, quando Maria, l’ambiziosa sorella di Mosè, pretende il posto di Mosè, Dio la castiga con la lebbra (Nm 12,9-10). Ne consegue chiaramente che la lebbra è una punizione per chi pecca. Si entra così in un circolo vizioso. L'unico che poteva aiutare il lebbroso era Dio, ma il lebbroso non gli si poteva rivolgere perché Dio, il puro per eccellenza, non ascolta gli impuri. E cosa fa Gesù di fronte al lebbroso? “Commossosi...”. Ma come commossosi? Se sappiamo benissimo che Dio odia i peccatori (Sir 12, 6), che Dio detesta chi vive nel male: e quest'uomo è un peccatore che è vissuto nel male! E invece Gesù, che è Dio per la Chiesa, quando vede un lebbroso, anziché fuggire inorridito dal peccatore, si commuove. Ma ancor peggio: questo lebbroso peccatore trasgredisce di nuovo la legge, perché in quelle condizioni gli si avvicina; e come evidenzia di nuovo Alberto Maggi, di fronte alla patente trasgressione della legge divina, del principio non negoziabile per cui l’impuro non può neanche sfiorare il puro, se Gesù fosse stato veramente una persona religiosa, un vero maestro come si propone oggi di essere il nostro magistero, avrebbe dovuto gridare: “Allontanati da me brutto zozzone, con quella schifosa malattia! Come osi toccare il santo di Dio? Ma non ti basta il castigo che il Signore ti ha dato per i tuoi peccati, per le tue colpe e continui ancora a trasgredire la legge?”[1] Invece Gesù, quando un peccatore trasgredisce la legge, che la gente crede divina, si commuove. Poi, peggio ancora, lo tocca. Ma non sa che così si contamina a sua volta? Se proprio voleva guarirlo con un miracolo, che bisogno aveva di toccarlo?

Gesù invece non guarda al passato ma invita a guardare avanti, e di solito va col peccatore a celebrare festosamente con un bel pranzo la scelta di aver deciso di cambiar vita (come del resto fa il padre del figliol prodigo che organizza subito un bel banchetto). Un bel pranzo al posto di una bella confessione è cosa inaudita per i pii vigilanti dell’ortodossia di allora e di oggi, perché le persone veramente religiose, che sanno cosa Dio vuole, insistono nel dirci anche oggi che per evitare il rischio di impurità/contaminazione possiamo avvicinare i peccatori solo a patto che non rechino danno alla nostra anima, e soprattutto che si mostrino pentiti dei loro peccati: solo a quel punto possiamo accordarci con essi nel conseguimento di qualche obiettivo giusto e onesto [2]. Insomma, ancora oggi per la religione, i peccatori vanno allontanati se non obbediscono al magistero, e vanno comunque evitati perché sono un costante pericolo di contaminazione. A quanto pare il peccato e l’impurità sono diventati più un’ossessione della Chiesa che di Gesù, e quindi di Dio [3].

Infatti Gesù non solo non minaccia mai i peccatori, ma neanche li giudica, né li condanna, né li caccia fuori del suo gruppo a causa dei loro peccati: è lui ad avvicinarsi per primo o a lasciarsi avvicinare (come nel caso dell'emorroissa: Mc 5, 25 ss.). Stando alla religione, mangiare insieme con un peccatore come Levi avrebbe dovuto rendere automaticamente impuro anche Gesù: le persone pie sanno queste cose. Invece il gesto di Gesù sta a significare esattamente il contrario, che per essere perdonati basta avvicinarsi a Dio: è l’accoglienza del Signore che ci purifica (Maggi A.). È questo il messaggio vivificante, la Buona Novella, perché il Vangelo è tutto una Buona Novella. E anche noi non dovremmo aver remore nell’avvicinare un impuro peccatore, per lo meno per fargli capire che Dio lo ama comunque, per quello che è.

È stata la Chiesa a istituire il sacramento della confessione, interpretando alcuni passi del Vangelo come se Gesù le avesse affidato l’altissimo compito di esigere la confessione dagli uomini peccatori, di giudicarli, di condannarli. Cosa che lui non ha mai fatto. Strano allora che alla fine abbia lasciato questo nuovo compito in eredità al magistero.

La Chiesa dice che la confessione è stata da subito praticata nella comunità. Ad esempio in At 19, 18 la confessione avviene in pubblico. Può obiettarsi che quelle persone si erano semplicemente impaurite e avevano voluto dimostrare in pubblico che si erano convertite.

Comunque, nel corso dei secoli, la Chiesa ha ripetutamente modificato il modo di confessarsi. Nella prima lettera di Giovanni, o chiunque si nasconda dietro quel nome (1Gv 1, 9) non si dice davanti a chi ci si doveva confessare: in pubblico o in privato? La frase resta ambigua, ma sicuramente se un omicida riconosceva in un’assemblea pubblica il suo peccato, si riteneva che lo avesse confessato, e Dio perdonava chi riconosceva i propri peccati, anche senza l’intermediazione del prete. Un altro apostolo (Gc 5, 16) raccomandava una confessione mutua fra fratelli per il perdono dei peccati. E ancora nel 1500 Ignazio di Loyola, il fondatore dei Gesuiti, prima della battaglia di Pamplona si confessò con un altro commilitone [4] non con un prete. Evidente, allora, che la confessione non è passata sempre attraverso le chiavi della Chiesa, e viene perciò smentito il concilio di Trento (canone 6 sulla penitenza) il quale aveva previsto la scomunica per chi osava negare che il modo di confessarsi in segreto al sacerdote fosse stato in uso fin dall’inizio nella Chiesa cattolica. Per sbugiardare quel concilio e convincersi che la confessione non è stata sempre fatta così come noi l’abbiamo conosciuta, cioè in segreto davanti a un prete; bastava leggere la sopravvista lettera di Giacomo: ma la Chiesa ha sempre invitato a credere piuttosto che a pensare, sì che pochi osavano leggere le Sacre Scritture in proprio per poi confutare l’insegnamento del magistero.

Che sia stata la Chiesa, e non Gesù, a imporre la confessione trova conferma in altri episodi. Vediamone qualcuno:

(a) Giovanni Battista praticava il battesimo per il perdono dei peccati (Mc Lc 3, 3). Ma sappiamo che Giovanni Battista attendeva un Messia terribile, giustiziere e castigatore di tutti i peccatori. Queste immagini di Dio, in effetti, venivano somministrate da Giovanni alla gente nei suoi focosi sermoni vicino al fiume Giordano (Mt 3, 7ss.). Ma all’opposto di quel Messia previsto da Giovanni, Gesù si è dedicato a curare ammalati, ad accogliere pubblicani e peccatori, a mangiare con i poveri, ad alleviare pene e sofferenze, ecc. Giovanni, che non si aspettava un Messia del genere, immaginava un Messia che lottava contro il peccato. Invece Gesù ha lottato contro la sofferenza e l’esclusione, e così ha modificato anche la religione, offrendo un’immagine imprevista e diversa di Dio. Infatti ha annunciato una Signoria di Dio rivolta più sull’umano che al religioso. Gesù, non ha portato un atteggiamento di carattere sacro, soprannaturale, religioso. La sua condotta è stata qualcosa di umano, di molto umano: alleviare pene, dare vita, felicità e buone notizie (Castillo J.M.). Non avendo combattuto il peccato, non aveva neanche bisogno di regolamentare la confessione dei peccati.

(b) Poi c’è la storia notoria della prostituta che entra in casa del fariseo Simone, senza essere invitata. Ci vien detto che entra perché vuole ottenere da Gesù il perdono dei peccati (Lc 7, 36-50). E dove sa scritto? Non certamente nel Vangelo (cfr. l’articolo Extra Ecclesiam nulla salus. O anche no, al n. 475 di questo giornale, https://sites.google.com/site/ultimotrimestre2018rodafa/numero-475---21-ottobre-2018/extra-ecclesiam-nulla-salus-o-anche-no). Se Gesù avesse imposto la confessione, e la confessione presuppone la volontà di non peccare più, avrebbe dovuto dirle: “Ti perdono perché ti sei pentita, ma da adesso in poi, mi raccomando, non fare più la prostituta che è un mestiere assolutamente immorale e peccaminoso, che offende Dio”. Sono stati i ben pensanti, sconvolti dal fatto che Gesù potesse perdonare una prostituta senza neanche chiederle di cambiare vita, a convincersi dell’implicita redenzione, creandosi a loro uso e consumo la storiella del pentimento e del conseguente perdono, che ovviamente si attagliava molto meglio alle loro granitiche convinzioni morali, sentendosi in tal modo finalmente rinfrancati (Maggi A.). Gesù pensa come pensiamo noi!

Invece quando si legge questo episodio si vede subito che manca – come in tanti altri – l’esame di coscienza, la confessione, il pentimento, il proposito di non peccare più e la penitenza, cioè tutti gli elementi costitutivi e indispensabili per la confessione, almeno per come ci è stata insegnata.

(c) “Ah!”, dirà però qualcuno, “si dimentica la confessione del figliol prodigo” (Lc 15, 18). Invece mi sembra che anche questa parabola mostri esattamente il contrario di quello che ci vogliono insegnare. Quando Gesù accoglie e va a pranzo con tutti i peccatori (Lc 15,1-2), anziché giudicare, condannare, castigare, spiega con la parabola del figliol prodigo che proprio così si comporta Dio (Lc 15, 11-31), senza chiedere pentimenti o penitenze, perché a Lui non interessa giudicare il passato, ma aprire un futuro di vita. Sono di nuovo le persone pie e religiose che non accettano una simile immagine di Dio, mostrata dal padre del figliol prodigo. Se solo si legge il racconto, colpisce proprio il fatto che al padre del figlio scapestrato non importa il motivo per cui il figlio ritorna; non mette sulla bilancia il dare-avere, ma gli corre incontro, gli offre l’abbraccio e organizza subito una bella festa, perché egli ama i suoi figli anche se essi non lo amano (neanche il figlio maggiore lo ama, gli obbedisce per paura o senso di gerarchia). L’amore di questo padre (e quindi di Dio) è completamente gratuito – come insegna Gesù,- e il figlio viene riaccolto anche se non se lo merita, senza che si penta e senza che chieda perdono.

Dopo che questo figlio ha sperperato la sua vita, è la fame che lo fa ragionare: non gli manca il padre, gli manca il pane. Sa che anche i servi sono ben trattati e ben nutriti dal padre a casa sua; sa anche che avendo avuto la sua parte di eredità considerando il padre come morto, non può tornare ad essere suo figlio; ma come suo servo avrà almeno da mangiare a sufficienza. Quindi torna per interesse e, sapendo di averla fatta grossa, per addolcire il padre si prepara l’atto di dolore (Lc 15, 18: «padre, ho peccato contro il cielo e contro la terra e non sono più degno di essere chiamato tuo figlio, trattami come uno dei tuoi salariati). Non si può far a meno di rimarcare come, stando alla lettera del racconto, non c’è alcun pentimento, non c’è alcuna conversione [5], ma solo uno scaltro e freddo calcolo utilitaristico [6]: la priorità è mangiare. Il padre lo vede da lontano: significa che era in attesa e, al contrario del figlio, non aveva mai dato il figlio per morto. Il padre gli corre incontro, lo abbraccia e lo bacia: nella mentalità orientale è disdicevole che un superiore si metta a correre verso l’inferiore. Il bacio, poi, è biblicamente il simbolo del perdono (Gn 33, 4). Inoltre, stando alla religione, l’impurità del figlio avrebbe dovuto trasmettersi al padre. Con queste poche parole Gesù ci fa invece capire ancora una volta che non occorre essersi purificati per avvicinarsi al padre, e che il perdono viene dato prima che il figlio cominci l’atto di dolore. Il figlio, dopo il bacio, comincia a snocciolare – senza essersi pentito – l’atto di dolore, ma il padre lo blocca, non lo lascia finire [7], non vuole che si autoaccusi, che si umili con una confessione [8]. Questo significa chiaramente che Dio non chiede la confessione prima di dare il suo perdono.

(d) Poi c’è la famosa frase di Giovanni (Gv 20, 21-23) come se Gesù avesse affidato alla Chiesa questo compito. La frase “come il padre ha mandato me, anche io mando voi” ha portato la Chiesa a pensare alla catena Gesù-apostoli-successori degli apostoli (cioè il clero). Dicendo poi “a coloro a cui perdonerete i peccati saranno perdonati, a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati” Gesù – secondo il magistero,- avrebbe dato alla Chiesa e ai suoi sacerdoti il monopolio di perdonare i peccati. Ma anche qui abbiamo visto nell’articolo Legare e sciogliere (n. 523 di questo giornale, https://sites.google.com/site/archivionumeri500rodafa/numero-523---22-settembre-2019/legare-e-sciogliere) come il passo evangelico non riservi agli apostoli – e quindi dopo di loro al nostro clero,- il potere di perdonare i peccati. Perdonare è un compito di tutti, e chi non perdona gli altri lega il perdono di Dio per sé stesso, mentre chi perdona scioglie il perdono del Padre.

Nei vangeli non c’è un solo passo in cui Gesù sollecita gli uomini a chiedere perdono a Dio, né direttamente, né indirettamente tramite i presbiteri, per i propri peccati. Invece, più volte Gesù ha sollecitato gli uomini a concedere il perdono agli altri: «quando vi mettete a pregare, se avete qualcosa contro qualcuno perdonatelo» (Mc 11, 25). Perché? «Perché anche il Padre vostro che è nei cieli perdoni a voi le vostre colpe» (Mc 11, 25).

Se le cose stanno così, quando gli scribi accusano Gesù di essere un bestemmiatore, sorge il dubbio che la questione, per loro, non sia stata tanto un problema teologico, quanto un problema economico, perché se Gesù perdona le persone senza esigere che vadano al Tempio per portare un sacrificio di penitenza, è la fine dei privilegi economici della casta sacerdotale. Se nessuno compra più gli animali per il sacrificio, nessuno paga più i sacerdoti per fare i sacrifici, immaginate che danno (economico). In effetti Gesù è nemico di mammona, ma è amico dei “perduti”: la sua tavola è aperta a tutti, anche a coloro che vivono al di fuori dell’Alleanza e senza dar segni di pentimento. I farisei ritengono offensivo che Gesù li ammetta amichevolmente, in nome di Dio, senza esigere da loro la penitenza e i sacrifici prescritti per ogni peccatore che si è allontanato dalla legge. Invece, quando Gesù guarisce, incorpora l’ex ammalato nuovamente nel popolo di Dio, e lo fa senza l’intermediazione dei sacerdoti.

“Ma come? Se l’infallibile magistero aveva sempre insegnato che si doveva andare al tempio dal sacerdote a dirgli qual è il peccato, così lui poteva dire quale penitenza fare”.

Sembra che per Gesù questo faccia parte della religione che sfrutta gli uomini, dominandoli con la paura.  Gesù ha insegnato invece: “perdonate e sarete perdonati”. Non ha parlato di andare a confessarsi come insegnava (e insegna) il magistero. Perdona e sarai perdonato. Tutto qui. Una bella differenza, non vi pare? Anzi, Gesù fa presente ai sacerdoti che, stante il loro comportamento, la vigna sarà affidata ad altri (Mt 21, 43), e sarà tolta a loro che si atteggiano rappresentanti di Dio in terra, perché essi non agiscono come Dio si aspetta.

È la Chiesa ad aver anche deciso che chi non ottiene il perdono per i peccati mortali da un suo prete non può accostarsi all’eucarestia [9]. E non è allora strano come, per molti prelati, per accedere ai sacramenti occorra un previo loro permesso? In altre parole, visto che i sacramenti servono a comunicare la grazia divina (come si è visto nell’articolo di dicembre sui sacramenti), il clero si sente autorizzato a sostituirsi a Dio, decidendo al suo posto. Questi prelati non sembrano neanche sfiorati dall’idea che questa loro dottrina non deriva direttamente da Dio, ma sia magari solo una elaborazione ecclesiastica, da essi presentata come voluta da Dio mentre, forse, è solo figlia di una determinata cultura, e perciò assai ‘relativa’ e non così indiscutibile come si vorrebbe far credere.

Voglio però concludere dicendo che non sto affermando che bisogna abolire la confessione, o come oggi più modernamente si dice, il sacramento della riconciliazione: esso potrebbe ancora egregiamente servire affinché, dopo aver sbandato, uno possa rimettersi in sintonia col progetto di Dio ricorrendo all’aiuto di un valido prete (non di un confessore che si comporta da freddo giudice: cfr. l’articolo al n. 541 di questo giornale, https://sites.google.com/site/ilgiornaledirodafa20201/numero-541---26-gennaio-2020/il-prete-non-e-un-giudice). Uno sente che la sua vita non è in sintonia col messaggio di Gesù, col Vangelo; allora aprirsi schiettamente con una persona giusta può aiutarlo a rimettersi in sintonia, perché Dio ci vuole veder crescere e sempre più capaci di amare. La riconciliazione dovrebbe essere allora un sacramento di misericordia, di crescita, non un segno esterno del pentimento per ottenere il perdono dei peccati. Con il sacramento della riconciliazione un buon prete dovrebbe cercare di rimettere sul giusto sentiero chi ha deviato, poi dovrebbe però aiutarlo a camminare da solo, lasciandolo alla fine di libero di andare: lo scopo del riconciliatore dovrebbe essere quello di diventare superfluo.

E qual è il giusto sentiero? Non si può dimenticare che il culto a Dio lo si deve fare nel rapporto con gli altri, non andando in chiesa a confessarsi e a pregare, né obbedendo formalmente alle norme divine, per cui la riconciliazione non avviene in chiesa, ma per strada, con quelli che ogni giorno attraversano la nostra strada. Ed è come se Dio ce li avesse messi là, dicendoci: “Ti aspettavo! E adesso come ti comporti?” Gesù ce lo dice indirettamente, con la parabola del buon samaritano [10], e direttamente quando ci ricorda: “Se stai per offrire la tua offerta sull’altare (cioè se stai andando a messa) e ti ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro di te (non solo se tu hai qualcosa contro tuo fratello), vai a riconciliarti con lui e poi va a messa”. Questo è un vangelo terribilmente duro, perché se è facile abbracciare e andare a prende un caffè con l’amico che incrocio per strada, quanto più difficile è rapportarsi con l’immigrato che mi vuol vendere paccottiglia, col vicino di casa che mi sta antipatico, o col poveraccio che insistentemente mi chiede l’elemosina. Ma forse proprio questi hanno motivo di avere qualcosa contro di noi (perché non li degniamo di uno sguardo, quando è proprio lo sguardo dell’altro che conferisce identità; perché siamo benestanti per non dire ricchi rispetto a loro), e proprio in questi emarginati stiamo incontrando Dio, sì che Gesù ci fa brutalmente capire che non basta la confessione e un paio di ‘Ave Marie’ per essere a posto con Dio e con la nostra coscienza.

 

Dario Culot

[1] Non si comportano ancora così i puri cristiani davanti al coronavirus? “Ecco la punizione divina per i peccati dell’umanità. Pentitevi e correte a confessarvi!”

[2] Cfr. il domenicano Cavalcoli G., L’inferno esiste, ed. Fede&Cultura, Verona, 2010, 35.

[3] Salonia G., Attenzione ai principi – attenzione all’uomo, in A partire dai cocci rotti, ed. Cittadella, Assisi, 2001, 245.

[4] Brodick J., Le origini dei Gesuiti, in www.documentacatholicaomnia.eu

[5] Così, invece, Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, ed. Rizzoli, Milano, 2008, 242 ss. Così anche Cenci A.M. La confessione, ed. Gribaudi, Milano, 1996, 28.

[6] Maggi A., Parabole come pietre, ed. Cittadella, Assisi, 2007, 65. Tettamanzi D., Il Vangelo cambia la vita, “Famiglia Cristiana”, n.10/2013, 13.

[7] Maggi A., Parabole come pietre, ed. Cittadella, Assisi, 2007, 70. Castillo J.M., Dio e la nostra felicità, ed. Cittadella, Assisi, 2011, 179.

[8] Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, ed. Rizzoli, Milano, 2008, 243, afferma invece che il padre ascolta la confessione del figlio. Ma se leggete Lc 15, 18-19 e poi 15, 21-22: la confessione viene troncata; il padre non la vuol sentire, tant’è che il figlio non riesce a dire di voler essere trattato come uno dei servi.

[9] Così ancora il messaggio quaresimale del vescovo di Trieste Crepaldi G., Riconciliati in Cristo, 2019, 16. È sacrilegio quando volontariamente si nasconde un peccato mortale e quando involontariamente si tralascia simile peccato perché non si sono voluti usare i mezzi appropriati per ricordarsene.

In un sermone del predicatore Lejeune la fidanzata che ha commesso atti impuri col fidanzato e non si confessa prima di contrarre matrimonio fa una confessione sacrilega; quindi riceve una comunione indegna e (terzo sacrilegio) non può avere una benedizione di Dio durante il sacramento del matrimonio, ricevuto in stato funesto. Ulteriori confessioni, senza confessare quei primi sacrilegi, costituiscono a loro volta sacrilegio.

Dunque la causa più comune della dannazione dei cattolici - lo si affermò espressamente - erano le confessioni sacrileghe (Deluemau J., Il peccato e la paura, ed. Il Mulino, Bologna, 1987, 845, ss.-852ss. con biografia).

[10] Vedi nel n. 444 di questo giornale, l’articolo Molto religiosi, praticamente atei (https://sites.google.com/site/numeriarchiviati2/numeri-dal-26-al-68/1999991---marzo-2018/numero-444---18-marzo-2018/molto-religiosi-praticamente-atei). Coloro che osservano strettamente le norme divine passano oltre senza fermarsi. Viene con ciò evidenziato che alla religione e ai suoi capi interessa più la religione che la vita, giacché interessa di più l’osservanza delle norme religiose che la salute, o perfino la vita degli esseri umani.