Atti terapeutici di idratazione e nutrizione

St. Joseph Hospital, Bochum, Gernamia, 1911 - foto tratta da commons.wikimedia.org

 

Abbiamo visto – nell’articolo sull’Eutanasia della scorsa domenica, https://sites.google.com/site/ilgiornaledirodafa20201/numero-550---29-marzo-2020/eutanasia -  come ogni persona sia libera di consentire o rifiutare un trattamento sanitario, perché l’attività sanitaria si giustifica solo sulla base del consenso informato del paziente (art.1 della legge 22.12.2017, n. 219; per gli incapaci e i minori che non possono decidere in proprio, la decisione viene presa dal legale rappresentante). L’art.1.5 della stessa legge stabilisce che la nutrizione e l’idratazione artificiali sono considerati trattamenti sanitari, in quanto somministrazione, su prescrizione medica, di nutrienti mediante dispositivi medici.

La Chiesa è stata sempre contraria a questo inquadramento, sostenendo invece che è moralmente obbligatorio continuare a fornire cibo e acqua al paziente, anche contro la volontà del diretto interessato e anche quando i medici sono certi che quel soggetto non recupererà mai più la coscienza, sia perché anche lo stato vegetativo permanente è vita, sia perché siamo in presenza di un mezzo di cura ordinario e proporzionato per la conservazione della vita [1].

Dunque, per la Chiesa l’alimentazione artificiale non rientra fra i trattamenti terapeutici [2] o sanitari. L’unico documento ecclesiale che ho trovato, a dire il vero assai laconico, non motiva però adeguatamente nessuna di queste sue affermazioni, il che è già una pessima abitudine, perché dimostra una mentalità del tipo gli ordini del capo si eseguono, non si discutono. Solo in presenza di un’adeguata motivazione si può capire il perché di una determinata scelta. Se, ad esempio, una finalità – come solo accennato – dovesse essere quella di evitare le sofferenze, si può subito obiettare che il risultato si ottiene anche con la sedazione profonda.

Par di capire che, per la Chiesa, non nutrire artificialmente il paziente accelera sicuramente la morte, il che equivale a praticare l’eutanasia, in quanto non vi è differenza fra un atto che affretta la morte (eutanasia attiva) e una omissione che porta alle stesse conseguenze (eutanasia passiva: morte per fame e per sete). Si osserva, cioè, che mentre la sospensione di una chemioterapia non provoca di per sé la morte, la quale sopravverrà a distanza di tempo per l’evoluzione del tumore, quando si sospende l’alimentazione artificiale si causa sempre direttamente la morte, perché è proprio la denutrizione o la disidratazione che conducono necessariamente al decesso [3]: ecco perché si è in presenza di un’eutanasia bella e buona. Trattandosi di eutanasia (leggi: omicidio secondo la Chiesa) viene poi implicitamente escluso che l’alimentazione e l’idratazione forzata possano rientrare nell’accanimento terapeutico [4], trattandosi sempre di un mezzo di cura ordinario e proporzionato [5].

Per prima cosa, vorrei cercare di fare un po’ di chiarezza sui termini, tanto per essere sicuri di intenderci, e cominciamo col definire cosa si deve intendere per trattamento terapeutico o sanitario. La Chiesa, infatti, non chiarisce specificamente perché la nutrizione/idratazione forzata, a suo giudizio, non è un trattamento terapeutico, rientrando invece fra i mezzi naturali di conservazione e supporto della vita da imporre coattivamente a tutti gli uomini [6].

In mancanza di motivazione, si può solo immaginare che la Chiesa intenda per terapia solo l’attività tesa a curare la malattia [7] (cd. terapia eziologica) e la nutrizione di per sé non tende a curare la malattia.

Sennonché il concetto di trattamento terapeutico è ben più ampio. Correttamente, mi sembra, il legislatore ha ritenuto che atto terapeutico non sia solo quello finalizzato alla cura di una malattia, ma anche il trattamento di una situazione comunque dannosa per lo stato di salute di un individuo singolo o di una popolazione [8]. Ad esempio, durante l’imperversare del coronavirus, l’imposizione di restare in casa è un modo di trattare terapeuticamente (in via preventiva) la popolazione perché mira a salvaguardare la salute, anche se non cura di per sé la malattia. Violando l’imposizione si disattende una disposizione sanitaria. È chiaro che anche la disidratazione e la denutrizione, quando una persona non è più in grado di bere o mangiare da sola, comportano una situazione dannosa per lo stato di salute di quell’individuo. Essendo l’inserzione del sondino preordinata all’eliminazione delle conseguenze dannose della mancata assunzione di alimenti, questa inserzione costituisce trattamento terapeutico.

Ora, è pacifico che ogni trattamento terapeutico può essere posto in essere solo dal personale sanitario, mentre costituisce esercizio abusivo della professione sanitaria l’intervento di un soggetto non in possesso dei requisiti professionali di ogni attività riservata in via esclusiva a soggetti abilitati dallo Stato, ai quali la legge ha riconosciuto la possibilità di svolgerla per le particolari competenze professionali possedute [9]. Ci si deve, allora, domandare se una persona qualsiasi, priva di abilitazione sanitaria, possa inserire il sondino che permette la nutrizione a chi si trova, ad es., in stato vegetativo permanente, perché se quell’atto lo può compiere chiunque non siamo in presenza di un atto medico, e quindi di un trattamento terapeutico; se quell’atto lo può compiere solo il personale sanitario autorizzato, siamo ovviamente in presenza di un trattamento terapeutico.

La risposta alla domanda è scontata: l’inserzione del sondino non può essere fatta da chiunque, giacché costituisce espressione di una specifica competenza e rientra nel patrimonio di conoscenze della medicina, potendo provocare altrimenti danni gravi e anche mortali alla salute del paziente se effettuata da una persona priva di ogni competenza specifica (ad es. il sondino potrebbe finire nella trachea, anziché andare nella faringe e nell’esofago). Lo stesso si deve dire se s’inserisce un dispositivo previa incisione nell’addome. Si deve allora concludere che, dare da bere con un bicchiere d’acqua (somministrazione per via naturale, quando il paziente è ancora in grado di deglutire da solo) è atto che qualsiasi persona può compiere e quindi non è atto terapeutico, ma un atto naturale legato alla compassione. Dare da bere in maniera artificiale, attraverso dispositivi medici, è atto riservato al personale sanitario (pena la violazione dell’art. 348 cod. pen.), ed è quindi atto terapeutico, come del resto riconosciuto indirettamente nello stesso documento della Congregazione per la dottrina della Fede sopravvisto (che lo definisce cura ordinaria per via artificiale), nonostante il parere contrario di tanti cattolici integralisti.

Di fronte a queste pregnanti considerazioni, anche i più restii cattolici han dovuto riconoscere che – sotto questo profilo – non si può negare che ci si trovi in presenza di un trattamento terapeutico. Allora hanno corretto il tiro, sostenendo che, anche se inserire il sondino potrebbe essere atto terapeutico, una volta che il sondino è inserito, l’agganciare ogni giorno la sacca contenente il nutrimento farmacologico può essere fatto da chiunque [10]. Pertanto, si sostiene che se il trattamento pur iniziato da un medico è poi gestibile e sorvegliabile anche dai familiari, seppur anche con un monitoraggio saltuario del medico, non siamo più in presenza di un atto di carattere medico, ma di un sostentamento vitale di base [11].

Anche su questo non si può essere d’accordo: il costante monitoraggio e controllo da parte di personale sanitario non è legato solo alla fase iniziale, perché possono sempre sorgere inconvenienti che un qualsiasi familiare, tecnicamente incompetente, non è in grado di affrontare. Se, una volta inserito il sondino da parte di personale sanitario specializzato, chiunque potesse poi nutrire il paziente inserendo semplicemente ogni giorno una sacca, senza più alcun intervento medico, vorrebbe dire che quel sondino potrebbe anche essere lasciato senza controlli nel corpo del dormiente, magari per settimane (come si può fare con un cerotto, che alla fine si stacca da sé) o perfino per anni [12], fino a che non sopraggiunga la morte naturale: il che è impossibile, tanto più che attraverso il sondino non passano necessariamente solo nutrienti, ma anche medicinali e, involontariamente, anche germi. Non solo: il proseguimento della idratazione/nutrizione senza adeguato e costante monitoraggio medico potrebbe in alcuni casi anticipare la morte ed aumentare le sofferenze (proprio ciò che la Chiesa si propone di evitare). È stato ad esempio osservato che, in diversi casi di tumore, quando il cuore inizia a pompare in modo più lento bisogna prontamente interrompere l’idratazione perché il corpo non è più in grado di accettare quei liquidi, e se si continua nell’idratazione, questa finisce nei polmoni, con conseguente edema e morte per annegamento [13]. Quindi, a causare direttamente la morte (la tanto temuta eutanasia) sarebbe proprio l’idratazione artificiale seguita da un familiare che non si avvede del pericolo, e crede che quel trattamento terapeutico sia come dar da bere un bicchier d’acqua. E allora, se occorre un costante controllo medico, siamo sempre nel campo della terapia.

Di più: non è che attraverso il sondino si fa passare la minestrina preparata in casa dalla mamma. Le sacche che servono a idratare e nutrire sono preparate non dalla mamma, ma da industrie farmaceutiche, sì che si tratta di una nutrizione medicalizzata, perché il paziente non viene semplicemente alimentato come quando riesce a deglutire e a digerire da solo, ma nutrito farmacologicamente. Tant’è vero che il trattamento va prescritto dal medico e trascritto nella cartella clinica, mentre non si scrive nella cartella clinica se la mamma ha dato da bere un bicchiere d’acqua o ha imboccato il figlio facendogli trangugiare una minestrina.

Infine, non è fondata nemmeno la sottile distinzione tentata fra terapia generale (con medicinali) e terapia sui generis della nutrizione/idratazione artificiale, che giustificherebbe una diversità di disciplina, perché solo sospendendo la seconda si determinerebbe per forza la morte diretta del paziente, mentre la sospensione della prima causerebbe sempre e solo indirettamente la morte, direttamente dovuta all’evolversi della malattia. Si pensi, ad esempio, a un caso in cui i reni sono irrimediabilmente compromessi: l’ammalato che non vuole sottoporsi a dialisi muore rapidamente perché i suoi reni non funzionano più, e senza reni funzionanti si muore. Qui nessuno dubita che la dialisi costituisca una vera e propria terapia medica appartenente alla prima categoria; ma è altrettanto indubbio che, sospendendo la dialisi, questa sospensione di terapia provoca di per sé direttamente la morte, non costituendo il decesso un’evoluzione ulteriore del malanno, che non deve ulteriormente progredire per causare la morte, visto che i reni sono già irrimediabilmente compromessi. Lo stesso nel caso di un respiratore artificiale che respira al posto del paziente. Togliendolo, il paziente non respira più e la natura fa il suo corso: il paziente muore velocemente, ma naturalmente, perché è la natura a stabilire che se uno non respira muore.

Infine un’ulteriore osservazione. La terapia nutrizionale può avvenire per via enterale, cioè attraverso l’apparato digerente, o per via parenterale cioè attraverso il sistema circolatorio. Entrambe le vie di somministrazione necessitano però di preliminari manovre invasive di esclusiva competenza medica. Ora, tutte queste manovre per essere eseguite sul paziente necessitano – per legge – dell’acquisizione del relativo consenso informato. Pertanto, con la nutrizione obbligatoria, ci troveremmo di fronte all’assurda situazione  per cui la Chiesa pretende di imporre obbligatoriamente un’alimentazione che però già necessita, per essere praticata, di previ trattamenti sanitari invasivi; ma questi sono sempre subordinati al consenso del paziente e pertanto sempre previamente rifiutabili.

Vediamo ora la distinzione fra atto ordinario [14] e atto straordinario. Qui le definizioni possono essere ancora più soggettive, e quindi ancora più opinabili. Ma anche in questo caso la Chiesa non specifica perché la nutrizione artificiale va qualificata senza incertezze fra gli atti ordinari[15] in attesa che la morte sopravvenga naturalmente, e non come atto straordinario [16] visto che non è proprio normale e consueto che una persona adulta non possa alimentarsi da sola, e questo finché la morte non sopravvenga.

Possiamo pensare, innanzitutto, che l’utilizzo del sondino sia considerato oggi ordinario, e non lo fosse nel passato? Come si è detto il mese scorso nell’articolo sul Fine vita, si può pensare che Dio cambi idea in base ai progressi tecnologici dell’uomo? Di più: quello che è oggi ormai normale per un occidentale non lo è per un povero diavolo del terzo mondo. E allora com’è che quello che è normale e naturale per un paziente occidentale che viene ricoverato nel suo ricco Paese, non lo è più neanche se quello stesso paziente venisse ricoverato in un Paese del terzo mondo, privo delle tecnologie occidentali, dove magari si trova in ferie?

È vero che quello che era considerato straordinario nel medioevo non lo è necessariamente oggi. Per fare un esempio, fino alla metà del secolo scorso si moriva facilmente perché non era stata scoperta e/o utilizzata su vasta scala la penicillina: oggi qualsiasi ammalato nel mondo occidentale pretende di poter essere curato con gli antibiotici [17], e tale cura è diventata ordinaria, mentre all’epoca sarebbe stata straordinaria (perché solo un marziano l’avrebbe potuta portare sulla terra) prima del diffondersi dell’uso degli antibiotici. Dovremmo a questo punto domandarci di nuovo: può Dio cambiare idea a seconda dei progressi tecnico-scientifici compiuti dall’uomo, e spostare conseguentemente il confine della conclusione naturale della vita in base agli eventi accidentali della storia [18]? E ancora, facciamo l’ipotesi di un occidentale che si trova nel terzo mondo dove non gli possono prestare questo tipo di assistenza: se ha tanti soldi può, però, farsi trasferire in Italia, pagando un aereo-ambulanza. Se non ha i soldi, muore in quel lontano Paese. Possiamo parlare di trattamento ordinario o straordinario a seconda dello spessore del portafoglio del destinatario delle cure [19]?

In ogni caso, non va qualificato necessariamente come ordinario qualsiasi trattamento che il sistema sanitario è tecnicamente in grado di erogare in Italia a livello di un ospedale medio. Infatti è vero che la nutrizione artificiale può essere comunemente fornita in ogni ospedale, ma va anche ricordato che i posti letto disponibili, ad esempio per trattare artificialmente le persone in stato vegetativo permanente, sono comunque pochi, sì che il relativo trattamento non può definirsi normale e ordinario. Calza a proposito il paragone con le cure a persone ricoverate per coronavirus: se crescono a dismisura i pazienti da ricoverare, sono pochi sia i posti letto, sia gli anestesisti e rianimatori in servizio, sia le apparecchiature che aiutano a respirare, per cui a un certo punto si deve scegliere chi curare e chi no, posto che il trattamento in terapia intensiva non può più essere prestato a tutti. I numeri dei pazienti in necessità sopraffanno la tecnica disponibile. E allora quello che inizialmente poteva essere visto come un trattamento ordinario può diventare improvvisamente straordinario per motivi pratici contingenti?

Mi sembra, quindi, che ordinario possa essere qualificato non il trattamento alla portata di un ospedale italiano medio, ma solo il trattamento terapeutico di routine, il quale deve essere reso al massimo con una breve degenza presso l’ospedale [20], ma poi può essere eventualmente continuato anche a casa, ove al più si dovrà intaccare solo il reddito della famiglia, ma non il suo capitale. Straordinario resta il trattamento che richiede costante assistenza di personale specializzato in ospedale senza poter indicare con certezza un termine finale dello stesso, e/o con un costo talmente elevato da costringere la famiglia a consumare il proprio capitale per assistere il proprio congiunto (ad es. vendere la casa in cui vive): straordinario perché a quel punto, se un secondo membro di quella stessa famiglia dovesse avere l’identica necessità di cure, non ci sarebbero più soldi per assisterlo, e quindi gli sarebbe precluso quel trattamento eccezionalmente goduto dal primo componente. Ritengo perciò che una nutrizione/idratazione forzata senza termine finale, nel senso che occorre aspettare la morte del paziente senza sapere quando la stessa sopraggiungerà, rientri più facilmente nel concetto di straordinarietà, che in quello di ordinarietà.

La Chiesa afferma infine che la nutrizione o idratazione artificiale è un’attività proporzionata [21] alla conservazione della vita, ma di nuovo non chiarisce perché lo sarebbe.

Ci si deve invece domandare se quell’atto terapeutico non è invece sproporzionato quando ha come unico effetto quello di mantenere in vita artificialmente il destinatario dello stesso, senza aggiungergli alcun altro beneficio. Se non fosse per l’intervento esterno artificiale, che quindi è ‘innaturale’ per definizione, la natura farebbe il suo drastico corso e porterebbe alla morte del paziente, come avviene pacificamente in tutta quella gran parte del mondo dove per carenza di strutture ospedaliere e/o tecnologie non c’è possibilità di seguire quotidianamente il paziente, alimentandolo per via artificiale.

In sintesi, mi sembra che il legislatore abbia ben valutato nel definire l’alimentazione artificiale come onerosa, straordinaria e sproporzionata nei casi in cui il paziente si trova in stato vegetativo permanente [22], e non come non penosa, ordinaria e proporzionata.

Vediamo, da ultimo, l’aspetto dell’accanimento terapeutico. Qui possiamo tranquillamente accettare la definizione che ci offre la Chiesa (art. 2278 Catechismo della Chiesa cattolica), secondo cui può essere legittima l’interruzione di procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie e sproporzionate ai risultati attesi. In tal casi si rinuncia ad insistere con accanimento terapeutico. Ma la stessa Chiesa ha aggiunto anche che [23]: “Il diritto alla vita si precisa nel malato terminale come diritto a morire in tutta serenità con dignità cristiana…. Questo diritto è venuto emergendo alla coscienza esplicita dell’uomo d’oggi per proteggerlo, nel momento della morte, da un tecnicismo che rischia di divenire abusivismo”. La medicina odierna dispone infatti di mezzi in grado di ritardare artificialmente la morte, senza che il paziente riceva un reale beneficio: egli è semplicemente mantenuto in vita attraverso la tecnica. “Ma ciò contrasta con la dignità del morente e con il compito morale di accettare la morte e lasciare da ultimo che essa faccia il suo corso. La morte è un inevitabile fatto della vita umana: non la si può ritardare inutilmente, rifuggendola con ogni mezzo.”

Di fronte a queste parole chiare e condivisibili, sfugge come poi si possa giungere ad affermare che l’idratazione e il nutrimento somministrati artificialmente, una volta accertati dal medico come privi di ogni possibile ulteriore reale beneficio per l’ammalato, non possano costituire mai una forma di accanimento terapeutico, ma costituiscano necessariamente un omicidio: insistere artificialmente a prolungare i segni di vita di un corpo i cui unici segnali di vita sono ormai segnali naturali di fuga dalla vita, mi sembra irrispettoso proprio della dignità del singolo che si assume di voler tutelare [25]. Anche idratazione e nutrizione per via artificiale possono cioè essere misure di prolungamento della vita che non portano ad alcun ulteriore beneficio tranne quello di prolungare l’agonia, e quindi ben possono rientrare nell’accanimento terapeutico.

La linea di confine, valicata la quale il medico potrà decidere di cessare “la terapia di sostegno vitale” perché ritenuta, sulla base della sua personale valutazione, non più “ragionevolmente utile,” mi sembra si possa e si debba ricavare dalla definizione che la stessa Chiesa dà di “accanimento terapeutico”.

La posizione della Chiesa è chiaramente supportata da un’ideologia umanista tutta centrata sulla sacralità della vita. Ma attenzione! Teniamo presente che la sacralizzazione la vita degli uomini, nata con l’umanesimo mentre la Chiesa in passato non ha mai proibito in assoluto l’uccisione degli esseri umani (anzi, in nome della vita ‘eterna’ spesso non ha esitato a togliere la vita (e basta) a molta gente), porta pian piano solo a massimizzare la durata della vita media; e da lì, il prossimo passo è tendere all’immortalità [26]. La Chiesa è disposta a pagare questo prezzo? E poi basta frequentare certi ospizi e/o ospedali dove si tengono in vita persone che raggiungono uno stato così pietoso e così poco dignitoso per far sorgere spontanea una domanda: “Cosa c’è qui di così sacro? Solo un insieme di cellule disfunzionali tenute in piedi da un sistema di pompe, tubicini, monitor e computer”.

Gesù ha detto: “Liberatelo e lasciatelo andare” (Gv 11, 44). Cioè va bene accompagnare, ma poi dobbiamo anche saper lasciar andare, tanto più se si ha veramente la speranza che, alla fine dell’ultimo percorso, troveremo ad aspettarci lo stesso Dio. E allora, come ha ben detto don Piero in una sua recente omelia: “Lasciamo andare nell’abbraccio di Dio i nostri morti, affidiamoli alla Vita!” perché Dio è Vita.

Per concludere, mi sembra che – anche da parte della Chiesa Cattolica, - si debba valutare la situazione caso per caso, senza aggrapparsi a principi generali tipici dei discorsi astratti, ma avulsi dal caso concreto. Mi sembra pure che si debba permettere anche a un paziente del ricco mondo occidentale di essere accompagnato nello stesso modo del povero del terzo mondo alla sua morte naturale, nel rispetto del mistero della dignità dell’uomo, e senza che nessuno pretenda di ergersi a depositario del giudizio del mondo [27].

 

Dario Culot

 

 

 

[1] Si riporta qui di seguito il brevissimo documento del 2007 del Vaticano (interpellato dai vescovi americani dopo la morte di Terry Schiavo), reperibile in  http://www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/index_it.htm

RISPOSTE A QUESITI DELLA CONFERENZA EPISCOPALE STATUNITENSE CIRCA L’ALIMENTAZIONE E L’IDRATAZIONE ARTIFICIALI

Primo quesito: È moralmente obbligatoria la somministrazione di cibo e acqua (per vie naturali oppure artificiali) al paziente in “stato vegetativo”, a meno che questi alimenti non possano essere assimilati dal corpo del paziente oppure non gli possano essere somministrati senza causare un rilevante disagio fisico?

Risposta: Sì. La somministrazione di cibo e acqua, anche per vie artificiali, è in linea di principio un mezzo ordinario e proporzionato di conservazione della vita. Essa è quindi obbligatoria, nella misura in cui e fino a quando dimostra di raggiungere la sua finalità propria, che consiste nel procurare l’idratazione e il nutrimento del paziente. In tal modo si evitano le sofferenze e la morte dovute all’inanizione e alla disidratazione.

Secondo quesito: Se il nutrimento e l’idratazione vengono forniti per vie artificiali a un paziente in “stato vegetativo permanente”, possono essere interrotti quando medici competenti giudicano con certezza morale che il paziente non recupererà mai la coscienza?

Risposta: No. Un paziente in “stato vegetativo permanente” è una persona, con la sua dignità umana fondamentale, alla quale sono perciò dovute le cure ordinarie e proporzionate, che comprendono, in linea di principio, la somministrazione di acqua e cibo, anche per vie artificiali.

Il Sommo Pontefice Benedetto XVI, nel corso dell’Udienza concessa al sottoscritto Cardinale Prefetto, ha approvato le presenti Risposte, decise nella Sessione Ordinaria di questa Congregazione, e ne ha ordinato la pubblicazione.

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“In via di principio” dice il documento, per cui esistono evidentemente delle eccezioni. Oltre alle due già indicate nel primo quesito del documento, c’è chi ha aggiunto il caso in cui l’alimentazione o l’idratazione artificiale non siano fisicamente possibili per le condizioni di estrema povertà, come può verificarsi nei Paesi del terzo mondo (Accattoli L., Lo stato vegetativo è vita. Il paziente va alimentato, “Il Corriere della sera” 15.9.2007).                                                                                                                                                                                  

[2] Accattoli L., Lo stato vegetativo è vita. Il paziente va alimentato, “Il corriere della sera” 15.9.2007. Lorenzetti L., Chiediamoci se diamo o accompagniamo la morte, “Famiglia Cristiana” n.47/2008, 49. Rocchi G., Il caso Englaro – Le domande che bruciano, ed. ESD, Bologna, 2009, 85 ss.

[3] Aveva spiegato Eugenia Roccella, quand’era sottosegretaria alla salute (Intervistata in “Avvenire” 1.3.2011, 12.), che quando si sospende una terapia il malato muore a causa della sua patologia, ma quando si sospende la nutrizione si muore di fame e di sete, per cui la nutrizione artificiale non è una terapia e ci vuole una legge che la imponga, anche contro la volontà dell’ammalato, visto che l’eutanasia va contro il disegno di Dio (che la sottosegretaria evidentemente conosceva benissimo).

Quando nel caso di Eluana Englaro i giudici hanno riconosciuto la possibilità di far togliere l’alimentazione forzata, la Chiesa ha tuonato contro i giudici affermando che è stata pronunciata la prima sentenza di condanna a morte nella Repubblica Italiana (vedasi l’editoriale di “Famiglia Cristiana” n. 30/2008, p.3).

[4] Intervista di Orazio la Rocca al cardinale Lozano Barragan, il quale afferma – ovviamente senza spiegare il perché - che l’alimentazione e l’idratazione non costituiscono mai accanimento terapeutico (“La Repubblica” 17.10.2007, p. 3).

Ben più articolata è la posizione che emerge dal documento “Il valore della vita” dd. 21.7.2008, distribuito nei Centri della Fondazione don Gnocchi che sono quotidianamente a contatto con i casi concreti della vita, a firma del suo presidente Mons. A. Bazzolari (reperibile in https://www.dongnocchi.it/) ove, al n .2 della Affermazioni generali, si legge: “Il non rinunciare in alcun caso alla idratazione-nutrizione artificiale può rientrare nell’accanimento terapeutico da abuso di tecnica; la scelta opposta non può nemmeno essere configurata come necessaria e indiscriminata, perché diverrebbe abbandono terapeutico. In questo senso si ritiene che in un primo momento si debba comunque intraprendere l’alimentazione e idratazione, come pure trattare, almeno inizialmente, le complicanze intercorrenti, in prospettiva di un’eventuale ripresa o di un mantenimento del quo ante. In assenza di ogni forma di coscienza-consapevolezza e di relazione visibile, si tratta di custodire ancora la presenza del paziente, ma questa situazione a lungo andare e nel suo procedere si può configurare come un vero e proprio accanimento, quando non si accolga l’ineluttabilità della morte e il tecnicismo sovrasti il valore della dignità della relazione.”

Giustamente si osserva che spesso, la scelta nel caso concreto è difficile giacché non ci si trova in un’area tutta bianca o tutta nera, ma in quella zona grigia di difficile identificazione e dove solo restando nell’astratto si può dire che: “L’accanimento diagnostico-terapeutico nasce nel contesto tecnico-scientifico della medicina attuale e rappresenta la pretesa di controllare la morte, procrastinandola; nell’eutanasia, apparentemente il contrario dell’accanimento, questa pretesa è nella direzione opposta, ovvero dominare la morte anticipandola.”

Il discorso che fa Barragan nell’intervista non è condivisibile non solo in astratto (perché il cardinale vede solo l’area nera dell’eutanasia), ma soprattutto in concreto perché non prende in considerazione il fatto che esiste anche un’ampia zona grigia, in cui l’idratazione e l’alimentazione artificiale prolungate possono assumere caratteristiche tecnologiche terapeutiche di dubbia valenza. La dignità resta più grande della malattia, e si entra nell’accanimento terapeutico ogniqualvolta si effettua un trattamento di documentata inefficacia, senza possibilità di vitale recupero organico-funzionale.

[5] Lorenzetti L., Il confine tra eutanasia e accanimento terapeutico, “Famiglia cristiana”, n.21/2009, 149.

[6] Già, solo agli uomini. Come mai? Forse che la vita umana è più preziosa della vita degli animali, anche quando quell’animale è l’ultimo della sua specie, e morto lui la specie intera si estingue, perché gli uomini sono creature di Dio? Ma anche gli animali lo sono. Forse che la vita umana ha un valore maggiore di quella degli elefanti o delle formiche solo perché siamo più forti? Ma se ci si basa sulla forza, americani e cinesi sono più forti degli italiani, eppure non pensiamo che le loro vite abbiano un valore intrinseco superiore alle nostre. E poi noi stessi, mentre di fronte all’uccisione di un italiano nell’altra sponda del Mediterraneo reagiamo a lungo con sdegno, siamo sostanzialmente indifferenti di fronte alla morte di un africano o di un afgano che cerca di attraversare il Mediterraneo per venire da noi. Eppure riconosciamo che anche l’africano e l’afghano hanno un’anima, come tutti gli uomini. Ci hanno insegnato che l’uomo è superiore all’animale perché solo il primo ha l’anima, ma per altre culture non esiste un’anima che sopravvive a un corpo; esiste solo un’armonia che lega gli uomini fra di loro e alle cose, e quando si rompe quest’armonia arriva la sofferenza, la malattia, la morte.

[7] Secondo il dizionario Devoto-Oli, ed, LeMonier, 1967, terapia è quella branca della medicina che tratta dei mezzi e delle modalità usate per combattere le malattie, e l’insieme dei provvedimenti adottati a tale scopo.

Si legge in Lorenzetti L., Una legge serve ma giusta, “Famiglia Cristiana” n.41/2008, p.41, e in D’Agostino F, Con Ippocrate e con ogni malato senza costruire zone grigie, “Avvenire” 1.10.2009, 1, che nutrire non vuol dire curare, e fin qui siamo tutti d’accordo. Ma quando si aggiunge che il nutrire una persona incapace di farlo da sé non rientra nella terapia e non è propriamente atto medico, ma semplice sostegno vitale, non si può concordare. Perché forse una dialisi per chi è affetto da insufficienza renale non è anch’essa un mezzo di sostegno vitale? O una ventilazione assistita per chi non riesce a respirare da solo non è forse un’altra forma di sostegno vitale? Tutte le tecniche indispensabili con dispositivi medici, per far continuare a vivere una persona che da sola non ce la fa, sono forme di sostegno vitale, eppure la loro attivazione ed il loro mantenimento sono sempre subordinati al consenso del paziente, che può sempre rifiutarle trattandosi pur sempre di trattamento terapeutico.

[8] Dizionario Medico, De Agostini, 2004, Med-Z,1422. Secondo La Grande Enciclopedia medica, De Agostini 2007, vol.15, voce Terapia, p.23, la terapia è quella parte della medicina che tratta della cura, intesa non solo come metodo per guarire le malattie, ma anche per alleviare le sofferenze indotte da una malattia, o ancora più genericamente come mezzo atto a salvaguardare la salute.

[9] Giurisprudenza costante: Cassazione pen. 3.3-16.4.2004, n. 17702; Cass. 9.11.2017-22.1.2018, n. 2691.

[10] Anche se in astratto il sondino potrebbe essere inserito e tolto dopo ogni somministrazione, tutti però riconoscono che è meglio lasciarlo inserito – per lo meno fino a quando non crea altri problemi al paziente – perché metterlo e toglierlo in continuazione costituirebbe un sicuro tormento per il paziente. Notate la parola “tormento”.

[11] Rocchi G., Il caso Englaro – Le domande che bruciano, ed. ESD, Bologna, 2009, p.86 e 89.

[12] Per 17 anni, ad es., come è stato il caso della Englaro.

[13] Osservazioni della dr.ssa Valenti, dirigente hospice, la quale aggiunge che proseguire o sospendere l’idratazione costituisce scelta clinica (in “La Repubblica” 26.3.2009, p.8), per cui sarebbe pericolosissimo vietare sempre e comunque, per legge, l’interruzione dell’idratazione/nutrizione. Vedasi anche precedente nota 1, dove la stessa Chiesa riconosce che l’obbligatorietà non può essere imposta se la nutrizione/idratazione non raggiungono più la finalità propria.

[14] Solo di recente alcuni teologi hanno cominciato ad ammettere che effettivamente mettere un sondino ad una persona è atto curativo, ma insistono ad affermare che mentre le cure straordinarie possono essere interrotte, quelle ordinarie non possono essere interrotte, e tra le cure ordinarie rientrano l’alimentazione e l’idratazione (Muraro G., Distinguiamo tra cure e accanimento, “Famiglia Cristiana” n.8/2009, 31). Ora, a parte il fatto che sarebbe opportuno che i cattolici si mettessero d’accordo fra di loro se il sondino rientra fra gli atti terapeutici o meno, una volta stabilito che si tratta di cura va ricordato che la nostra carta costituzionale non fa alcuna distinzione fra cure ordinarie e straordinarie, ed afferma chiaramente che ogni trattamento sanitario, se non imposto per legge, può essere rifiutato, a prescindere dal fatto che sia una cura ordinaria o straordinaria. Se ho difficoltà respiratorie posso tranquillamente rifiutare di essere intubato. Se ho un dito in cancrena posso tranquillamente rifiutare di farmelo tagliare, anche se si tratta di operazioni di normale amministrazione, semplici, ordinarie.

[15] Lorenzetti L., Il confine tra eutanasia e accanimento terapeutico, “Famiglia cristiana”, n.21/2009, 149. Si legge sempre in Lorenzetti L., Una legge serve ma giusta, “Famiglia Cristiana” n.41/2008, 41, che la nutrizione artificiale è un atto ordinario in quanto è alla portata di mano anche di strutture ospedaliere povere.

[16] Secondo il dizionario Devoto-Oli, ed. Le Monnier, 1967, straordinario significa eccedente i limiti del normale o del comune, eccezionale rispetto alla prassi o all’ordine consueto; mentre ordinario significa comune o consueto.

[17] Anche a torto, quando la cura non serve perché si è in presenza di una malattia virale come il coronavirus.

[18]  Questa domanda se la pone giustamente Augias C., nella rubrica Lettere, “La Repubblica” 25.7.2007. Cioè per un marziano (ammesso che esista) Dio metterebbe una linea; nello stesso giorno, per un umano, Dio sposterebbe quella stessa linea.

[19] Secondo l’anestesista rianimatore Di Mola G., che ha riportato i costi degli anni ’90 negli Stati Uniti per questi  pazienti privi della funzione corticale-cerebrale, si spendono circa 7 miliardi di dollari all’anno (“La Repubblica” 19.10.2007, 32).

[20]  Perché se per eseguire quel trattamento terapeutico occorre occupare un posto letto in ospedale per un numero indeterminato di anni, l’atto diventa straordinario, giacché è impedito che contemporaneamente tutti, o un gran numero di persone, possano godere dello stesso trattamento, essendo i posti letti limitati, rapportati ad un tot per ogni migliaia di persone, ed essendo previsto dal sistema ordinario una rotazione di ammalati negli stessi letti.

[21] Lorenzetti L., Il confine tra eutanasia e accanimento terapeutico, “Famiglia cristiana”, n.21/2009, 149.

[22] “Persistente” è una diagnosi su una condizione passata che si ripete; “permanente” è una prognosi di irreversibilità della situazione, e nel caso di incidente traumatico si ha lo stato vegetativo permanente dopo 12 mesi dall’incidente; attualmente la scienza – che permette di prolungare la vita artificialmente – è anche in grado di stabilire l’irreversibilità della perdita definitiva della coscienza di sé (Veronesi U., La supplenza dei giudici, “La Repubblica” 17.10.2007, 30), anche se, non essendo una scienza esatta, mai si può dire in medicina che quello che finora è avvenuto si verificherà  ancora così in futuro, sempre al 100%.

[23] Pontificio Consiglio per la Pastorale degli Operatori Sanitari – Carta degli operatori sanitari 1995, in Eutanasia e Magistero della Chiesa, 2006, Libreria Editrice Vaticana, 177 s., § 129.

[24] Alle ulteriori funzioni corporali si provvede mediante pannoloni e clismi, e qui finisce la vita di una persona in stato vegetativo permanente, che può dirsi dignitosa solo nei limiti in cui viene trattata umanamente dal personale sanitario.  E se una volta si aveva paura di venir sepolti vivi e di svegliarsi nella bara, oggi la paura principale è quella di restare imprigionati in un corpo che vive solo grazie all’aiuto artificiale dei medici.

[25] Inappropriata, dunque, è anche l’argomentazione secondo cui non si doveva permettere di far morire l’Englaro, quando le suore si erano offerte di lasciarla presso di loro e di accudirla giorno e notte: se siamo di fronte a un accanimento terapeutico, che impedisce alla natura di fare il suo corso, siamo comunque contro la dignità della persona.

[26] Harari Y.N., Homo Deus, Bompiani, Milano, 2017, 421.

[27] Proprio come chiede il papa emerito: Ratzinger J., Dio e il Mondo, ed. San Paolo, Cinisello Balsamo, 2001, 260, sì che meri slogan appaiono le frasi tipo “così si distrugge la vita” oppure “la vita va difesa sempre” (citazione quest’ultima del vescovo Betori, riportata in “L’Osservatore Romano,” 18.10.2007), che non aiutano certamente a capirsi.