Grazie, Santità, per i viri probati. In Oriente.

Diacona e prete sposato - disegno di Rodafà Sosteno

Don Donato Forasse è un personaggio di pura invenzione, qualunque riferimento a fatti o persone reali è del tutto causale. Romanziamo un pochino.

Immaginiamo che il reverendo si trovi in questi giorni a San Pietro per accompagnare il proprio vescovo statunitense, ma non latino, ad un importante incontro con il Papa.

Per capirci qualcosa, e per capire subito dove vorremmo andare a parare, rinviamo a due articoli che colpiscono molto, almeno crediamo, per la singolare coincidenza con quanto proprio attorno all’attualità vaticana  - ovvero la pubblicazione di Querida Amazonía -, s’è detto e ridetto in questi giorni.

Il primo articolo è sulla versione online di Crux, https://cruxnow.com/vatican/2020/02/u-s-eastern-catholic-bishops-thank-pope-for-lifting-ban-on-married-priests/.

Il secondo sulla versione online del Washington Post,  https://www.washingtonpost.com/world/europe/pope-francis-wont-allow-married-priests-in-the-amazon-but-in-this-part-of-the-world-married-priests-are-the-norm/2020/02/13/693d30be-4dc2-11ea-967b-e074d302c7d4_story.html.

Don Forasse è italo-americano, cattolico, anzi cattolicissimo, però di rito orientale e non preciseremo a quale Chiesa Orientale appartenga delle oltre 20 presenti nella stessa Chiesa Cattolica.

È a Roma perché, nello stesso momento in cui l’Esortazione Apostolica post-Sinodale sull’Amazzonia non fa menzione degli ormai celebri “viri probati” (a scanso di equivoci, i probiviri sono tutt’altro…), i Vescovi statunitensi cattolici d’Oriente vogliono ringraziare il Papa per aver tolto le norme limitative alla presenza dei presbiteri coniugati in Occidente, cioè al di fuori degli storici territori orientali, che risalivano alla fine dell’Ottocento ed ai primi del Novecento.

Effettivamente il puro dato di cronaca può colpire, quasi una contraddizione ben palpabile, eppure così è. Don Donato sa che così è.

Mentre il matrimonio costituisce impedimento alla ricezione del presbiterato nella Chiesa Latina, esso non è affatto tale nella disciplina canonica delle Chiese Cattoliche Orientali. Dunque Chiese diverse? Ancora: niente affatto.

Siamo portati a ritenere che esista un’unica forma possibile di Chiesa, quella che conosciamo per frequentazione, ad esempio, domenicale, quella cioè che ha una rilevanza sociologica, diciamo così, nella nostra vita. Ed invece la Chiesa Cattolica esiste, vive, con volti pluriformi ed articolazioni spirituali, giuridiche, liturgiche, persino teologiche, che hanno tratti di grande, profonda, diversità. La diversità non intacca la comunione, bensì la impreziosisce.

Don Donato ha moglie e tre figli. È stato ordinato tre anni fa, appunto dopo la revoca, nel 2014, delle norme canoniche che altrimenti non avrebbero consentito la sua ordinazione negli USA.

E proprio ieri, mentre passeggiava in Via della Conciliazione assieme al suo vescovo, ha appreso delle notizie su Jean Vanier, fondatore della Comunità de L’Arche (https://www.vaticannews.va/it/chiesa/news/2020-02/arche-indagine-abusi-vanier.html) ed autore molto noto, oltre che punto di riferimento spirituale di grande importanza per uomini e donne che hanno amato la sua storia e la sua esperienza.

Provenendo dagli USA, duramente provati dallo strazio degli abusi ecclesiastici, don Forasse conosce assai bene la portata di una vera e propria tragedia non solo ecclesiale, ma di fede, che in Europa ancora si stenta a configurare come tale.

Il nostro personaggio è sia prete che padre di famiglia e varie volte s’è dovuto rivolgere ad esperti e consulenti, medici e psicologi, per consentire una crescita di pieno benessere, fisiopsichico, ai propri figli. E pensa che, sempre, davanti a tutti i casi di abuso, si impongano due atteggiamenti: il massimo rigore nella repressione dei reati, dunque il ricorso alla forza della legge, e la domanda sui motivi, sul perché. E spesso, questa seconda, abbisogna di spazi di silenzio molto prolungati e molto difficili da vivere. Il perché dei nostri gesti, delle nostre attitudini, anche delle nostre passioni, del nostro modo di relazionarci, di parlare, di comportarci non ha sempre decodificazioni chiare ed univoche, la contraddizione ci abita. E padre Forasse sa che prima di tutto, prima ancora della via giudiziaria e della via investigativa sulle cause, è la voce delle vittime che va ascoltata, sempre e comunque, anche – per dire – a costo di doverla poi smentire in presenza di evidenze diverse da quelle denunciate. Ma dall’ascolto bisogna partire. E non tanto, o solo, per un motivo di benevola carità cristiana o di sincera empatia. Bensì proprio per formulare il primo “perché”. La prima interrogazione. Perché tu mi, ci, vuoi parlare? Perché tu stai male? Chi ti ha fatto del male? Che cosa è accaduto?

Nel mondo cattolico, senza con ciò voler generalizzare, di frequente le risposte sono pronte senza neppure accompagnarsi a preventive domande. In qualche modo persino superando gli schemi, consunti, del catechismo che pure è tutto domande e risposte. Tutte le risposte, invece, sono spesso bell’e fatte, preconfezionate, evitando vagli teologici ritenuti fastidiosi. Anche quella ad esempio – da orientale don Donato lo sa bene – per cui il Papa avrebbe sempre ragione, senza considerare invece cosa significhi “magistero ordinario”, “magistero straordinario”, “magistero infallibile”.

Le notizie su Jean Vanier non possono più avere riscontri giudiziali, perché il fondatore de L’Arche è morto. Per questo l’indagine è stata affidata a chi ha ritenuto di avere un dovere etico imprescindibile, un obbligo morale, di accertare. E potrebbe proseguire in altre sedi, diverse, venuta meno, appunto, la sede pubblica, statale. È un aspetto molto serio da considerare; anche a Trieste, nel 2014, la morte di un parroco che fu indicato come responsabile di delicta graviora impedì l’accertamento giudiziale dei fatti.

Se pur è vero che non esiste solo la verità giudiziale, tuttavia la verità non giudiziale è depotenziata dell’obbligo giuridico risarcitorio che può essere invece compimento di un obbligo morale, come si rifletteva. Ma può, non deve, e da qui la tragedia di un’autocoscienza ecclesiale formatasi troppo a ridosso degli eventi.

In termini generali, prescindendo dalla notizia specifica, don Forasse, da prete e padre di famiglia, si domanda: ma chi è l’abusatore? Perché lo fa? Perché, anche se non si tratta di preti, il mondo religioso, “spirituale”, sembra favorire fenomeni criminali? Non sarà che l’idea di Assoluto debba essere completamente ripensata? È necessario, proprio, uno scavo in profondità, un dissodamento del terreno psichico, sociale, personale, interiore. Ed una profonda onestà verso se stessi, prima ancora che verso gli altri.

Ma non è finita.

Il nostro immaginario protagonista sente e legge dappertutto dell’emergenza sanitaria in queste ore in Italia. Il pericolo di “contagio”, di “contaminazione”. La necessità di preservare da virus – quasi esattamente come accade con il computer, ormai specchio dell’intera nostra esistenza e suo surrogato tecnico-funzionale –, un’esigenza primaria di salvezza.

Il taglio netto tra salute e malattia, tuttavia – legge don Donato sui giornali e apprende alla radio ed alla televisione -, non è così semplice: ci sono i portatori sani, c’è chi dal virus è uscito negativizzato, c’è chi il virus ha contratto senza neppure essersene accorto.

Lui, da prete sposato, ha avuto spesso la sensazione d’essere considerato un contagiato dalla spessa concretezza materiale, carnale, concretissima della vita, ed un veicolo di contagio nella Chiesa di pericolose vie disciplinari che non escludessero unione di sacro e profano, come invece molti auspicavano ed auspicano.

Da papà don Donato ha vegliato molte notti vicino al letto dei suoi bambini con la febbre e ha portato diverse volte in ospedale sua moglie per le emergenze più diverse ed ha atteso con lei, mano nella mano, consulti e terapie.

In molte chiese parrocchiali italiane oggi non si potrà celebrare l’Eucarestia domenicale assieme. Neppure don Donato potrà farlo, nella chiesa lombarda che gli era stata assegnata per l’occasione, ma decide che neppure lo farà da solo, in una stanza. Non sarebbe pasto comunitario. Potrebbe, di per sé, celebrare senza nessuno, tutto valido senza dubbio, ma non lo farà. Aspetterà di rivedere il Cristo nel volto dei suoi fratelli e delle sue sorelle in quel paese del Nord Italia che conosce bene. È la vita che dev’essere celebrata, non la vita da sacrificarsi alla celebrazione, meno che mai a quella liturgica, in nome di Dio.

Don Forasse rivede ancora l’espressione del viso del suo vescovo incantato davanti a Francesco. Quel Papa che non ha detto di sì a uomini sposati preti in Amazzonia ed invece ha detto di sì a preti coniugati d’Oriente negli Stati Uniti.

Il nostro prete con moglie e figli non è più tanto giovane, ma neppure anziano. Le contraddizioni, se sono tali, lo inteneriscono e non lo fanno più arrabbiare.

Con un forte desiderio di raccoglimento e di preghiera, entra, mentre si trova ancora a Roma, in una chiesa della capitale, e gli si avvicina una donna per chiedergli di confessarla. Non vuole la grata, non vuole il confessionale, vuole guardarlo negli occhi.

Dapprima il nostro reverendo ha imbarazzo, ma poi accetta di incrociare gli occhi della penitente. Vorrebbe dirle lui tante cose, affidarle tanti pesi, confessarle tanti peccati.

Confuso, sente improvvisamente chiarissime, dalla bocca di lei, seduta vicino a lui, parole di insostenibile dolcezza: “E io ti assolvo, Donato, dai tuoi peccati, nel nome del Padre, e del Figlio e dello Spirito Santo”.

Gli vengono le lacrime – come fa a sapere il suo nome, poi? -, si porta le mani sugli occhi, piange a dirotto. Ma quando poi rialza il viso, lei non c’è più.

Sa che non ha senso cercarla.

Perché Sofia sarà con lui da adesso per sempre.

Buona domenica.

 

Stefano Sodaro