Penitenza

San Domenico in penitenza

Filippo Sarchiani, 1605 ca., Metropolitan Museum of Art, New York, USA 

- foto tratta da commons.wikimedia.org

Non solo in passato [1], ma ancora oggi [2], fior di cattolici sono certissimi che la penitenza (intesa come rinunce tipiche di una vita ascetica, e sacrifici in genere, che diventano sinonimi di penitenza) è sostanzialmente indispensabile al vero cattolico e induce il peccatore a sopportare di buon animo ogni sofferenza (n. 1450 Catechismo). Perciò il credente deve applicarsi incessantemente alla penitenza (n. 853 Catechismo): più penitenze si fanno, più bollini si guadagnano per l’aldilà. Quante vite di santi ci sono state presentate come esemplari per la loro vita caratterizzata dalla penitenza!

Ora, è vero che quasi tutte le religioni hanno sempre imposto al peccatore riti penitenziali, cioè dei cammini più o meno faticosi per avvicinarsi a Dio. Il cattolicesimo non è da meno: “se non fate penitenza non entrate nel regno di Dio” ci è stato insegnato, e allora chissà come sarà contento il Padreterno se prego in ginocchio sui vetri, anziché comodamente seduto in poltrona.

Guardando però l’inizio del Vangelo di Marco (Mc 1, 15), Gesù invita solo a credere nel suo messaggio e a convertirsi, cioè a cambiare il nostro comportamento verso gli altri (metanoia in greco). Eppure questo termine ‘conversione’, è stato a lungo erroneamente tradotto proprio con fare penitenza: “se non fate penitenza, non entrate nel regno di Dio”. Se le persone volevano entrare nel regno di Dio lo potevano fare solo a suon di sacrifici e sofferenze.

Questa idea di penitenza, di sofferenze da offrire al Signore, di privazioni, quanto meno di piccole offerte devote - a cominciare dai fioretti [4], cioè dalle piccole rinunce che i bambini devono offrire a Gesù, perché solo con la penitenza la nostra spiritualità si eleva e il Signore è più contento -  ha pervaso tutta la crescita della mia generazione, ed ha tuttora fedeltà solidissime. È proprio della nostra religione sostenere che l’uomo attraverso stili di vita che costano volontariamente fatica, sacrifici, atteggiamenti di penitenza, riesce a innalzarsi e avvicinarsi a un Dio puro che è lontano e distaccato, e a meritare la sua benevolenza. Il paradiso è un premio da raggiungere con fatica, perché è lassù in alto ed il cielo deve essere scalato. Il Catechismo di S. Pio X (art. 964) poneva fra i grandi peccati contro lo Spirito Santo la “presunzione di salvarsi senza merito” [5]. Occorrevano perciò atti di penitenza e mortificazione per farci acquisire tanti meriti [6]. Senza un carnet pieno di bollini di sofferenza non ci si salvava. Ma non tutti iniziano dalla stessa linea di partenza. Sicuramente è meglio nascere ricchi e sani che poveri e ammalati: questi ultimi cominciano a soffrire da subito, ma non per scelta propria. E allora meriteranno i bollini, visto che non s’infliggono da sé la sofferenza e non hanno alcun merito per quello che patiscono? Qui, per difendere la meritocrazia della sofferenza, quella che ci dà i bollini per accedere al paradiso, si dimentica che non partendo tutti dalla stessa posizione, alcuni partono con in mano meno bollini degli altri, pur soffrendo magari più degli altri. Mi spiego meglio: se rinuncio a un caffè, per fare un fioretto, guadagno un bollino. Ma quello che non può semplicemente comprarselo non merita alcun bollino perché non sacrifica niente di suo. Il sacrificio gli è imposto dall’esterno, per cui non è merito suo.

Va poi osservato che, mentre la Buona Novella è che Dio è amore offerto gratuitamente a tutti, la novella che la Chiesa ha diffuso in tutto il mondo appare assai meno buona, legata com’è ai meriti e alla sofferenza, inconciliabili, a dire il vero, con l’amore gratuito di Dio. Se la Buona Novella è che Dio vuole la nostra felicità (Mt 5, 12; Gv 15, 11), la novella che la Chiesa ha diffuso in tutto il mondo resta inconciliabile con questa idea di felicità. Possiamo amare Dio perché conoscendo il suo amore manifestato in Cristo ne restiamo incantati, affascinati, contagiati a tal punto da fare nostro il suo amore [7]. Nessuno di noi può amare Dio perché è costretto a farlo. Se poi la nostra esperienza dell’amore di Dio è legata alla sofferenza, alla penitenza, alla mortificazione, solo un masochista potrà amare con tutto il cuore un simile Dio. Ragioniamo un attimo: se Dio è amore, l’amore non dovrebbe preferire uomini felici e floridi piuttosto che uomini sofferenti ed emaciati per le penitenze? Dio non dovrebbe essere contento della felicità dell’uomo? Da quando in qua un genitore che ama il proprio figlio e non è un sadico, vuole per lui la sofferenza, l’umiliazione e non la sua felicità? Da quando in qua vuole per lui una vita di mortificazioni e di privazioni?

È inevitabile allora che sorga almeno qualche piccolo dubbio su quanto ci è stato insegnato. Ma poi, da dove il magistero ha ricavato questa necessità assoluta della penitenza che ci è stata inculcata fin da piccoli? Dai vangeli? Dovrebbe essere così, perché l’insegnamento delle religione deve fondarsi sulle Scritture: come si è già detto, il concilio Vaticano II ha affermato che tutta la teologia, tutta la spiritualità, tutto l’insegnamento deve radicarsi nel messaggio di Gesù. E allora andiamo a leggere questi vangeli.

Lasciamo pur perdere il filone biblico profetico in cui, in netta contrapposizione ad Amos, il profeta Geremia aveva messo in bocca al Signore queste parole: “non mi piacciono i vostri sacrifici” (Ger 6, 20); o anche: “Eppure io non parlai né diedi comandi … sul sacrificio ai vostri padri, quando li feci uscire dalla terra d’Egitto” (Ger 7, 22). Fermiamoci solo sui quattro Vangeli, e forse scopriremo che mai Gesù si è sognato di chiedere agli uomini di fare penitenza, di sacrificarsi per Dio

-     In Mt 12, 1-8, Gesù afferma che Dio vuole che noi esseri umani abbiamo manifestazioni di bontà e di misericordia verso gli altri, anche se sono persone cattive e persino quando la pratica della bontà comporta la violazione di una legge religiosa. Questo – benché risulti scandaloso per i più osservanti - è quello che dice chiaramente il Vangelo di Matteo. Ma non si tratta solo di questo. Quello che dice Gesù è molto più forte, perché stabilisce una netta opposizione tra la “misericordia” ed il “sacrificio”. Ossia, quello che Gesù dice è che, se bisogna scegliere tra l’“etica” ed il “culto” (Mt 5, 23-24), tra la “misericordia” e la “religione”, la prima cosa è l’etica, l’onestà, la difesa della giustizia ed i diritti delle persone. Se questo non si antepone a tutto il resto, Dio non vuole che tranquillizziamo le nostre coscienze con messe, preghiere, sacrifici e cose simili [8]

-      Mt 9, 13: Andate e imparate che cosa significa quel che Dio dice nella Bibbia: Misericordia io voglio, non sacrifici

-      Mt 12, 7: Se voi capiste veramente il significato di queste parole della Bibbia: Misericordia io voglio, non sacrifici. E qui Gesù si richiama al profeta Osea, il primo a parlare concretamente dell’amore di Dio, dove Dio in persona afferma categoricamente: “Voglio amore costante, non sacrifici. Preferisco che il mio popolo mi conosca, piuttosto che mi offra sacrifici” (Osea 6, 6).

Ora, se scorriamo una edizione pre-concilio, troviamo effettivamente frasi come:

-      Marco 9, 28; Matteo 17, 20: Gesù rispose: questo genere di spiriti non si può scacciare in nessun modo se non con la preghiera “e il digiuno”, e questo digiuno è sicuramente una forma di penitenza.

-      Mt 3,2; Marco 1, 4; Luca 3, 3: San Giovanni Battista predica un battesimo di penitenza;

-           Mt 18, 3; Mc 1,15; Lc 13, 5: Gesù dice: “se voi non farete penitenza, non entrerete nel regno dei cieli.

Su queste traduzioni si sono costruite le dottrine che conosciamo tutti.

Bene! Però guardiamo ora all’edizione della CEI (che è la versione ufficiale della Chiesa) del 2008, o qualsiasi altra recente traduzione: quatti quatti, in Mc 9, 29 e in Mt 17, 20, i traduttori hanno completamente eliminato l’inciso digiuno e anche il termine penitenza. Quatti quatti, i traduttori hanno sostituito le parole “e non farete penitenza” con le parole «se non vi convertite», cioè se non cambiate registro, se non orientate la vostra vita in modo diverso. Come mai? Perché il magistero si è accorto di aver tradotto per secoli e secoli in maniera errata la parola greca metanoia con la parola latina poenitentiam, che veniva intesa come qualcosa che si deve offrire o sacrificare per elevarsi, e non come volontà di un continuo rinnovarsi.

“Meglio tardi che mai” dirà qualcuno, ma nel frattempo, quanti ferventi cristiani, quanti santi del passato hanno addirittura ricercato una vita di masochistica sofferenza, di dura penitenza, perché nel vangelo in loro possesso Gesù diceva: “Se non si fa penitenza, non si entra nel regno di Dio”? E quanti confessori hanno trasformato in penitenza perfino la preghiera, che sarebbe dovuta essere un momento di intimità con Dio? “Per penitenza dirai 10 Ave Maria e 10 Pater noster.” Mai che per penitenza (meglio: per cominciare il cambiamento) un prete vi abbia suggerito di andare a trovare un ammalato o un carcerato, o di condividere il tanto che la vita vi ha offerto.

Inoltre ci sono continui episodi nei vangeli che fanno ben comprendere come Gesù non si sia mai sognato di prendere in considerazione la penitenza: basta pensare al perdono dei peccati al paralitico, all’episodio in cui Gesù chiama con sé il pubblicano peccatore, all’episodio della prostituta (a lungo scambiata per Maria Maddalena: cfr. l’articolo Extra Ecclesiam nulla salus. O anche no, al n. 475 di questo giornale, https://sites.google.com/site/ultimotrimestre2018rodafa/numero-475---21-ottobre-2018/extra-ecclesiam-nulla-salus-o-anche-no), tutti episodi su cui ci siamo soffermati in passato.

E se la maggior parte dei cattolici ancora crede che Maria Maddalena sia la prostituta pentita, è dovuto al fatto che in passato è stata costruita tutta una teologia fondata sulla penitenza, che Gesù mai si è sognato di caldeggiare, solo perché si è partiti da una traduzione errata. Questo è accaduto perché la Chiesa aveva dichiarato la Vulgata latina unico testo vero e affidabile su cui basarsi, sdegnosamente rifiutando il più antico testo greco che i protestanti avevano ripreso ad esaminare fin dai tempi di Erasmo da Rotterdam, nel 1516, per cui i protestanti hanno accumulato circa 450 anni di vantaggio nello studio sui cattolici, che si sono mossi solo dopo il concilio Vaticano II. Peggio ancora: mentre il magistero pontificio negava che la lettura dei libri sacri fosse per tutti, e di pari passo escludeva che la proibizione della lettura dei vangeli comprimesse il reale messaggio di Gesù, scomunicando come sempre chi osava sostenere il contrario [9], i protestanti si rendevano conto che bisognava partire dai testi originali perché non sempre le traduzioni riportavano fedelmente il messaggio evangelico. Poiché, invece, per i cattolici solo il magistero cattolico poteva decretare quando il vero era falso, e quando il falso era vero, nessun fedele osservante cattolico, a differenza dei protestanti più dubbiosi, si era sognato di andar a guardare di persona cos’era scritto nel più antico testo greco, per poi far magari presente all’infallibile magistero che, ad esempio, il digiuno era stato falsamente aggiunto e nei vangeli originali in greco la parola digiuno non esisteva, oppure che metanoia significa conversione e non penitenza.

Oggi (o meglio dal 1975), tutti i cristiani – compresi finalmente anche i cattolici – riconoscono come vero il testo standard greco, e le vecchie traduzioni devono essere messe in soffitta. Ma a questo punto, cosa facciamo della pretesa autorità del magistero certo di non sbagliare mai, e che invece qualche erroruccio l’ha commesso se ha permesso erroneamente di costruire perfino tutta una teologia e conseguentemente una pratica di vita sul digiuno e sulla penitenza?

Vi ricordate la quaresima? Per quelli della mia età era un periodo lungo e triste: lungo come la quaresima si diceva. Perché? Perché s’identificava con un periodo di mortificazioni, di penitenze, di sacrifici, tutti fatti per Dio. L’anteprima era l’imposizione delle ceneri, accompagnata dalle parole “Ricordati che sei polvere e in polvere ritornerai” (Gn 3,19). E con questo lugubre monito iniziava un periodo caratterizzato dalle penitenze, dai sacrifici e dalle mortificazioni. Tutto questo si doveva sempre all’errata traduzione sopravvista dell’invito di Gesù. Invece abbiamo visto che Gesù invita alla conversione, e conversione significa “Cambia orientamento della tua vita: se fino adesso hai vissuto per te, da adesso in poi vivi per gli altri. Se vivi solo per te, ti rovini, ti autodistruggi (vedi Giuda); chi vive per gli altri si realizza”. Chi vive centrato su se stesso non vive, ma atrofizza le sue potenzialità di vita; chi allarga l’orizzonte si realizza ed ottiene piena realizzazione con questo cambiamento. Questa è la conversione. Questo è oggi la quaresima, e la stessa imposizione delle ceneri è oggi accompagnata dall’invito evangelico “Convertiti e credi al vangelo”, secondo le prime parole pronunciate da Gesù nel Vangelo di Marco (Mc 1,15). Finalmente ci si sta muovendo verso un’impostazione teologica più consona ai tempi: un invito al cambiamento di vita, orientando la propria esistenza al bene dell’altro e a dare adesione alla buona notizia di Gesù. L’uomo non è polvere e non tornerà polvere, perché dedicandosi agli altri può diventare figlio di Dio, e se lo diventa avrà una vita di una qualità tale che è indistruttibile (eterna), come tale capace di superare la morte fisica. Questa è una Buona Novella, non il fatto di sparire nel nulla.

Stando così le cose, non mi sembra corretto sostenere neanche che la conversione richiede innanzitutto la convinzione del peccato (n. 1848 Catechismo). La conversione richiede l’impegno per il futuro a cominciare da oggi. Come si è visto la settimana scorsa, Gesù non guarda al passato, ma al presente e al futuro. Il passato è passato, e va dimenticato. Mi piace ricordare qui il pensiero della suora Odette Prévost, uccisa nel 1995 in Algeria: “Vivi l’oggi: Dio te lo offre, è tuo, vivilo in Lui. Il domani è di Dio, non ti appartiene. Non trasferire sul domani le preoccupazioni di oggi: se il domani è di Dio, rimettilo a Lui. Il momento presente è un fragile ponte: se lo appesantisci con i dispiaceri di ieri e con l’inquietudine di domani, il ponte cede e tu non puoi passare. Il passato? Dio lo perdona. Il futuro? Dio lo dona. Vivi l’oggi in comunione con lui.”

Nella spiritualità cristiana, come si è visto per l’imposizione delle ceneri, ha messo profonde radici anche il termine mortificazione: bisogna mortificarsi! E ci sono persone che si sono rovinate la propria esistenza mortificando e reprimendo i propri impulsi naturali perché credevano che fossero cose da dover soffocare. Non appena il sesso fra marito e moglie diventava ardente, se i due erano stati indottrinati a puntino si bloccavano, ricordando di dover essere casti sposi e non amanti, che c’è il sacro vincolo del matrimonio, il quale giustifica l’atto sessuale fra gli sposi solo in funzione della procreazione. La passione è una minaccia per l’equilibrio della ragione e fa nascere desideri impuri. Contra sextum non datur parvitas materiae” (= tutti i peccati sessuali sono mortali). In tal modo hanno censurato il loro stesso Dio, perché nel Cantico dei cantici la sposa invita il suo uomo ad entrare nel suo giardino e a mangiarne i frutti squisiti, e lo sposo scende euforico ed eccitato in quel giardino. Con Gesù, Dio lascia definitivamente quell’alto cielo dove la religione lo aveva collocato, scende in terra al livello degli uomini e si fa carne (incarnazione). Il divino si manifesta nella carne, non nello spirito, per cui anche la sacralità del matrimonio fa parte della carne, e quando due sposi si amano la loro unione sessuale sfiora la perfezione delle cose create; altro che concupiscenza della carne: anche il sesso profano può essere divinizzato! Anche qui è recentissima l’affermazione papale che il sesso è un dono di Dio (cfr. la fine dell’articolo La donna, il sesso e il diavolo al n. 512 di questo giornale, https://sites.google.com/site/archivionumeri500rodafa/numero-512---7-luglio-2019/la-donna-il-sesso-e-il-diavolo).

Com’è che lo zoccolo duro dei credenti ritiene, invece, che se non ci si rotola nella sofferenza la vita non vale? Com’è che concetti come il piacere, la felicità, sono guardati immediatamente con estremo sospetto, come fossero di per sé già le porte che danno sul peccato? Quello che conta è la penitenza costante, è il mortificarsi. Ma se andiamo a leggere i vangeli anche l’invito a mortificarsi è assente. Il termine si trova una sola volta nella lettera ai Colossesi (Col 3,5): Paolo dice “mortificate” (nekròsate) - mortificare significa fare morte, uccidete - e non parla di cose belle, ma “mortificate l’avarizia, la maldicenza, la cattiveria” cioè uccidete tutte quello che fa male agli altri. Invece molti, convinti di raccogliere tanti bollini da usare per l’aldilà, hanno mortificato la propria esuberanza, la propria sessualità, la propria affettività, che invece andavano potenziate e, eventualmente, solo incanalate [10].

Sorge allora spontanea un’ulteriore domanda: e se questi cristiani ossequienti al magistero e perciò sicuri di aver appreso dal magistero la verità salvifica priva di errore (più penitenza faccio, più sono sicuro di arrivare nel regno dei cieli) hanno finito per impostare la loro vita sulla penitenza in base a un vangelo mal tradotto (cioè errato), non l’avrebbero forse impostata in modo diverso se avessero avuto a disposizione un vangelo ben tradotto, cioè senza quegli svarioni di traduzione? [11] Se i cultori della penitenza avessero scoperto che in nessun vangelo Gesù ha mai chiesto di fare penitenza, né ha mai chiesto di mortificarsi, né di cercare la sofferenza; se avessero scoperto che l’offerta e l’invito di Gesù sono sempre e solo per una pienezza di vita, per la gioia su questa terra, mentre tutto quello che è contrario alla vita non viene da Gesù, non avrebbero forse creduto in un cristianesimo diverso? Dobbiamo renderci conto che se sbagliamo il pensiero su Gesù sbagliamo anche l'orientamento, e quindi sbagliamo a vivere. Ma ci rendiamo conto di quanto sia pericoloso, se non perfino devastante, impostare la propria vita su un testo, e poi scoprire che abbiamo interpretato questo testo in maniera diversa da ciò che effettivamente diceva? Appare scontato che se la vita del credente si basa su dei vangeli tradotti male, tutta la sua vita spirituale ne subirà le conseguenze, come lo spirito impuro nella sinagoga che, quando esce, necessariamente strazia colui che pensava di vivere nella fede viva, ma viveva non era.

Il bello è che anche il papa emerito ha detto – adeguandosi a Lutero [12] - che la fede non è un’accettazione di teorie concernenti cose di cui non si conosce nulla, di dottrine elaborate da sapienti che, come ricorda Gesù, non sanno nulla: (Mt 11, 25; Lc 10, 21: “ti ringrazio, Padre, per aver nascosto queste cose ai sapienti…”), ma comporta una “svolta” di tutto l’uomo che da quel momento in poi struttura stabilmente la sua esistenza; deve cioè esservi anche una “conversione”, un cambiamento dell’essere [13]. Lo stesso papa, dunque, si è perfettamente adeguato alla nuova traduzione; ma, allora, perché ha poi omesso di far presente che la vecchia traduzione era errata, che per secoli e secoli i suoi predecessori si erano sbagliati, che ogni qualvolta si trova la parola “penitenza” occorre sostituirla con la parola “conversione,” sì che ogni idea di ottenere meriti attraverso la penitenza, il sacrificio, è teologicamente sbagliata e non è autenticamente cristiana?

Invece, nel silenzio del magistero, il vecchio scenario errato della penitenza resta plausibile agli orecchi di chi l’ha sentito predicare in passato, anche con entusiasmo masochistico, e non ha invece mai sentito parlare della novità di questi ultimi 50 anni.

Dario Culot

[1] San Tommaso d’Aquino: Summa Teologica, questione 147, art. 1. Vedi anche Concilio di Trento, Sessione XIV, sulla Dottrina dei santissimi sacramenti della penitenza e dell’estrema unzione, del 1551, Capitolo 1, ove si afferma che la penitenza è stata sempre necessaria per conseguire la grazia.

[2] Nn. 1434 ss., nonché nn. 827 e 853 del Catechismo della Chiesa cattolica: «solo applicandosi incessantemente alla penitenza si può estendere il Regno di Dio». Si pensi anche al più recente “È l’ora della penitenza” di papa Benedetto XVI (“La Repubblica” 16.4.2010, 1 e 16). Ancora nella messa pasquale di quest’anno Pasqua si è letto nella Sequenza: “Alla vittima pasquale. S’innalzi oggi il sacrificio di lode. L’Agnello ha redento il suo gregge, l’innocente ha riconciliato noi peccatori col Padre”.  E nel messaggio quaresimale del vescovo di Trieste (Crepaldi G., Riconciliati in Cristo, 2019, p.12) si è letto: “Per collaborare come riconciliati in Cristo all’opera divina della riconciliazione ci restano due passi decisivi: la preghiera e il sacrificio”.

[3] McInerny R., Vaticano II: che cosa è andato storto? ed. Fede&Cultura, Verona, 2009, 18, 34, 89. Cavalcoli G., L’inferno esiste, ed. Fede&Cultura, Verona, 2010, 10.

[4] Il termine «fioretto» va inteso come offerta devota attraverso una volontaria, ma sofferta, rinuncia. Ho già ricordato nel n. 531 di questo giornale (https://sites.google.com/site/ilgiornaledirodafa500/numero-531---17-novembre-2019/la-dottrina-del-sacrificio) il caso di quella responsabile di un oratorio, la quale ha fatto sedere i bambini sotto il sole impedendo loro di andare a bere perché devono soffrire, visto che “la sofferenza avvicina a Dio” (“Famiglia Cristiana”, n.33/2012).

[5] Cavalcoli G., L’inferno esiste, ed. Fede&Cultura, Verona, 2010, 12 s.

[6] Gli artt.486 e 786 del Catechismo di Pio X facevano qui rientrare anche il digiuno, obbligatorio per tutti i cristiani in base all’art.487. Del digiuno si è già parlato al n. 525 di questo giornale, https://sites.google.com/site/archivionumeri500rodafa/numero-525---6-ottobre-2019/fra-i-pilastri-comuni-delle-tre-religioni-abramitiche.

[7] Trentacoste N., Introduzione, in AA.VV., Paura di amare, ed. Cittadella, Assisi, 2002, 24 s.

[8] Castillo J.M., Misericordia voglio, non sacrifici, in http://www.ildialogo.org 10.12.2015.

[9] In Mancuso V., Io e Dio, ed. Garzanti, Milano, 2011,  234 ss., già si trova un cospicuo elenco dei documenti vaticani in tal senso. L’autore rinvia anche al più ampio studio di Fragnito G., La Bibbia al rogo, ed. Il Mulino, Bologna, 1997. 

[10] Maggi A., Vino nuovo in otri nuovi, relazione tenuta a Pesaro nel 2002, 16 s.

[11] Se non farete penitenza (Lc 13, 5) viene ripreso, ad es., da alcuni autori per dedurre che per Gesù tutti sono peccatori (Schmid J., L’Evangelo secondo Luca, III, ed. Morcelliana, Brescia, 1965, 291).

[12] Già 500 anni fa Lutero aveva sostenuto che la fede non è ritenere vere certe affermazioni, ma aver fiducia che Cristo è morto e risorto per me (Kampen D., Introduzione alla teologia luterana, ed. Claudiana, Torino, 2011, 22).

[13] Ratzinger J., Introduzione al Cristianesimo, ed. Queriniana, Brescia, 2000, 80.