Anni Venti, due papi, due mondi, anzi tre

Two Popes, Anonimo, 1750, Slovak National Gallery 

- immagine tratta da commons.wikimedia.org

Inizia l’anno nuovo con il pericolo di vedere praticata – e addirittura dichiarata - una guerra non più a pezzi ma globale. I fatti di Baghdad sono noti.

Se la pace è un bene, non per i potenti ma per i più poveri – altro è il benessere, altra la pace -, ai poveri dovrebbe essere data voce, ascoltando che cosa pensino sia necessario in questa direzione, come la pace (che non è neppure “progresso” secondo i nostri schemi “progressisti”) possa essere assicurata a partire dai loro bisogni e diritti.

Se invece la decisione su di essa è affidata ad una elite, le sorti dei più poveri diventano sempre e solo “effetti collaterali”, “danni purtroppo necessari”, “conseguenze inevitabili”. E ciò proprio a partire dalla nostra logica aristotelica – che ordina e seziona, chiarisce e ripartisce - di cui è impregnata la cultura occidentale. E se poi l’elite, forgiata senza scale cromatiche di approccio, bensì con il ricorso a categorie del “Bene” e del “Male”, del bianco e del nero, non brilla per approfondimento geopolitico, o addirittura deve assecondare esigenze particolari di propria stabilità interna, allora il disastro è davvero in agguato.

I gruppi di potere sono supremamente rappresentati dalle teocrazie, anzi, meglio, dai fondamentalismi, che sono religiosi e non soltanto: sono anche politici, ideologici, filosofici. E fondamentalismo vuol dire, ovviamente, cinismo, rivestito talora di panni dialettici accattivanti, applauditi, in effetti puramente polemici.

La polemica antagonista dei poteri forti dove e come si scardina per ridare voce a chi potente non è?

Esiste un centro di potere assoluto, secondo alcuni per appunto “teocratico”, riconosciuto a livello mondiale come presidio etico, quanto meno presunto anche secondo un’accezione del tutto laica, la cui forza sta nella parola e nell’influenza che questa parola ha o può avere (gli eserciti di cui chiedeva Stalin). Si tratta di un soggetto di diritto internazionale, con legazione attiva e passiva, a prescindere dal territorio su cui la sua sovranità si esercita, il quale ha infatti un altro nome.

Il riferimento è, ovviamente, alla Santa Sede, come definita al canone 361 del vigente codice di diritto canonico: “Col nome di Sede Apostolica o Santa Sede si intendono nel codice non solo il Romano Pontefice, ma anche, se non risulta diversamente dalla natura della questione o dal contesto, la Segreteria di Stato, il Consiglio per gli affari pubblici della Chiesa e gli altri Organismi della Curia Romana.”

Da alcune settimane è presente sul circuito Netflix il film I due papi, del regista brasiliano Fernando Meirelles, con Anthony Hopkins nei panni di Benedetto XVI e Jonathan Pryce in quelli di Francesco.

Un film di grande, intensa bellezza e di sorprendente capacità d’analisi ecclesiologica, non foss’altro che per la sensibilità, ma si potrebbe dire il coraggio, di non celare, anzi di mostrare con un forte impatto d’immagine – com’è proprio di un film con tutte le sue finzioni -, il problema costituito da una doppia presenza biancovestita esattamente presso quella Santa Sede cui guarda il mondo, certamente dei potenti ma certamente anche dei poveri, e che siamo da secoli abituati a vedere simbolizzata in un unico suo titolare, considerato un monarca esclusivo ed assoluto e senza dubbio mai duplicabile.

Se nella prima parte del film la contrapposizione tra Ratzinger e Bergoglio è quasi prossima a spezzare il cerchio della comunione, nella seconda Papa Benedetto conclude di doversi dimettere dopo aver ascoltato, forse solo appena udito, la voce di Dio non più assente e nondimeno presente secondo un linguaggio per lui ancora pressoché incomprensibile sotto quasi ogni aspetto, quello del Card. Bergoglio.

Il “totalmente Altro” di Kierkegaard, Otto, Barth, ben noto allo studioso Ratzinger, appare nelle parole, nei tratti, nel tentativo di farlo persino ballare il tango che contraddistinguono il suo – diciamo così – “antagonista”. 

Ratzinger si dimette, secondo la tesi del film, perché trova in qualcuno del tutto diverso da sé l’alterità finalmente rivelativa - “apocalittica” in senso letterale -, alla quale poter addirittura chiedere d’essere confessato nel sacramento della riconciliazione (i papi infatti si confessano, a scanso d’equivoci, qualora qualche devoto in caduta libera verso l’eresia papolatrica dovesse ritenerli esenti).

Ma cambiamo riferimento, guardiamo altrove.

Venerdì della prossima settimana, il 10 gennaio 2020, verranno festeggiati a Roma i cent’anni del Pontificio Collegio Etiopico presso il Pontificio Istituto Orientale ed il giorno successivo i partecipanti alla celebrazione dell’anniversario saranno ricevuti in udienza dal Papa (https://www.agensir.it/quotidiano/2020/1/2/chiese-orientali-roma-il-10-gennaio-centenario-del-pontificio-collegio-etiopico/).

A Roma esiste un Pontificio Collegio Etiopico? No, non esattamente a Roma, facciamo i precisi: esiste un Pontificio Collegio Etiopico proprio all’interno dello Stato della Città del Vaticano, dietro le Mura Leonine, al di là di quelle barriere poderose che avrebbero dovuto fermare i Saraceni se fossero tornati nella Città Eterna dopo il saccheggio dell’846.

Che ci fa un’istituzione simile addossata ai palazzi della Santa Sede ed anzi addirittura presente nel territorio di sua sovranità?

Ecco, ritorna il tema dell’alterità irriducibile.

Chi partecipi ad una liturgia secondo il rito gh’ez, antico rito di Eritrea ed Etiopia, e sia abituato alla liturgia romana, ma anche ambrosiana, può restare semplicemente stupefatto, sbalordito dalla apparente totale diversità celebrativa di quella Chiesa Eritrea ed Etiopica, che è non solo cristiana ma addirittura cattolica (sono due in realtà ormai, Chiesa Cattolica Eritrea e Chiesa Cattolica Etiopica).

La domanda tuttavia è ben un’altra: a chi mai può interessare una simile annotazione? Che ha a che vedere il Corno d’Africa con la nostra vita, ecclesiale, civile, politica, con la situazione internazionale, con le prese di posizioni preoccupatissime di schierarsi da una parte o dall’altra?

Forse vengono in mente, come un baluginio, i patti speziati ed i sapori forti dei numerosi ristoranti etnici eritrei ed etiopi di Roma o di Milano, ma chi mai potrebbe ritenere che – sia permessa l’espressione – “un’alternativa ecclesiale e culturale” inizi da lì, da quei mondi totalmente estranei alle nostre logiche duali in bianco e nero?

Proviamo a fare un esempio forse dirompente: si può essere favorevoli all’ordinazione presbiterale delle donne e, nello stesso tempo, convintamente anti-islamici? Sembra di sì, da un certo punto di vista sembra addirittura logico, conseguente, congruente.

Si può essere innamorati dell’ebraismo, non solo storico ma contemporaneo, e tuttavia pure soggiogati dall’immenso patrimonio spirituale dell’Islam? Sembra di no e anche questa sembra conclusione culturalmente, religiosamente, necessitata.

Il Corno d’Africa habesha, abissino, disarticola invece simili necessità di schieramento, queste presunte coerenze – o incoerenze – tutte marcatamente occidentali.

Gesù di Nazaret non è vissuto in Occidente, ma in Oriente. Non era cristiano, era ebreo. Non parlava italiano o inglese, ma aramaico. Nelle chiese maronite, melkite, sire, caldee si prega ed officia in arabo, rivolgendosi a Dio con l’invocazione di “Allah”, così come fanno i musulmani e con buona pace di molti ignoranti.

Ma gli esempi potrebbero proseguire: noi desideriamo, anzi esigiamo, che i segni delle appartenenze e delle identità religiose (il velo, tanto per citarne uno) scompaiano negli spazi pubblici, convinti che in tal modo possa essere assicurata – imposta suvvia, diciamolo - una visione salutarmente laica dei rapporti tra cittadini e tra sfere personali diverse, perché noi distinguiamo perfettamente tra pubblico e privato. Una distinzione cui teniamo fino alla spasimo.

Niente per noi è, continuando con un esempio ancora, più sacro, intimo, inviolabile e privato del momento del lutto che ci colpisca in uno degli affetti più cari, ed invece in Oriente – di certo in Eritrea ed in Etiopia – nessun momento è avvertito come maggiormente impegnativo per la comunità intera del lutto personale, che non può schiacciare la persona che, da solo, da sola, viva il distacco della morte.

Da noi si muore di solitudine, in Eritrea – che meglio conosco – è semplicemente inconcepibile. I figli dei miei vicini sono miei figli. I bisogni di chi mi vive alla porta accanto sono mia preoccupazione.

L’arcaico di una liturgia così distante dalla nostra sensibilità non ha niente a che vedere con il tradizionalismo secondo la nostra accezione, anzi vi si oppone frontalmente: nell’arcaico c’è, appunto, “l’arché”, il principio, ed in ottica orientale i principi non sono esclusivi ed escludenti, non negoziabili, bensì costantemente giustapposti e “negoziati”.

Insomma, dentro il Vaticano abita, staziona, in permanenza, il “totalmente altro”, lo stesso “totalmente altro” che consente vivano assieme – non si capisce quanto legittimamente – , nel medesimo spazio territoriale, due Papi. Uno non è papa, si obietterà e l’obiezione va accolta senza dubbio alcuno, però sta lì, e non sta lì assente.

il Totalmente Altro, non metafisico, reale, in carne ed ossa, in questo momento viene negato sulla scacchiera internazionale, dove i singoli Paesi sembrano teatri di guerre di interessi specifici, giovino o non giovino alle immense masse che da lì non vogliamo che scappino, ma che restino e subiscano le decisioni di chi comanda.

Nella nostra cultura, occidentale, europea, manca il terzo, manca la possibilità di uscire dagli schieramenti preconfezionati e precostituiti ed iniziamo gli Anni Venti del Duemila, tuttavia, con una pressione esogena di queste presenze terze fortissima, incontenibile, addirittura da paura. E siccome non conosciamo il terzo, lo temiamo.

Potrebbero essere allora, questi anni Venti, gli anni del necessario e definitivo abbandono di ogni logica binaria, di ogni aut aut, per salvarci soltanto con l’et et.

Ad una condizione tuttavia: che il potere si capovolga, si “sdoppi”, che i poveri parlino e ci insegnino. Ci insegneranno lingue difficili e sconosciute ma terapeutiche per le nostre vite.

Capiremo che gli amori esclusivi e gelosi fanno molto male, perché chiudono invece di aprire, mentre per respirare le finestre vanno spalancate. Ci accorgeremo che imparare dagli altri è unica strada per insegnare a se stessi. Il terzo ci aspetta, conoscendolo non farà più paura.

Buona domenica,

 

Stefano Sodaro