Il treno per Trieste, che è una donna, amazzonica

Foto di donna al centro con prete ed altri uomini attorno ad un tavolo, 1917 

- tratta da commons.wikimedia.org

 

La notizia è giunta da poche ore. Mercoledì prossimo, 12 febbraio, alle ore 13 nell’Aula Giovanni Paolo II della Sala Stampa della Santa Sede, in Vaticano, verrà presentata l’Esortazione Apostolica Post-Sinodale intitolata Querida Amazonía (si veda https://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino/pubblico/2020/02/07/0082/00175.html).

La domanda più acuta, che avvolge ed infiamma l’attesa, è nota: il Papa consentirà l’ordinazione presbiterale, per la regione amazzonica, di diaconi permanenti sposati, così come il Sinodo ha richiesto a maggioranza dei suoi componenti?

Sappiamo bene che non è affatto questo l’aspetto che ha assorbito ogni attenzione dei Padri Sinodali, ma è anche vero che intorno a questa questione si gioca la possibilità, per quanto piccola e geograficamente limitata, di una effettiva svolta riformatrice all’interno della Chiesa Cattolica così come uscita dal Concilio Vaticano II.

Sarebbe forse opportuno sgombrare il campo visivo da due accanimenti alquanto rabbiosi, seppur contrapposti, intorno a tale prospettiva di riforma: da un lato la reazione sconvolta, inorridita, scomposta, molto più che scandalizzata, per un’apertura considerata inaudita e che è, invece, pacifica tradizione bimillenaria dell’Oriente Cristiano e dall’altro, non meno furente, il contorcimento massimalista – diciamo, di colore latamente “progressista” - secondo cui la Chiesa dovrebbe accantonare ogni tradizione, buona o cattiva che sia, con la T maiuscola od invece a lettera iniziale minuscola, cancellando, anzi ripudiando, l’intera complessità storica e tutta quanta la densità teologica che ha condotto alle acquisizioni del già menzionato Vaticano II, assise ecclesiale che non viene, peraltro, quasi mai citata con precisione e dettaglio di approfondimenti.

In uno studio comparso proprio in questi giorni, l’insigne medievalista, monaco camaldolese, Claudio Ubaldo Cortoni, docente al Pontificio Ateneo Sant’Anselmo, così scrive (https://www.cittadellaeditrice.com/munera/clero-uxorato-e-clero-concubinario-due-realta-un-solo-destino-di-claudio-u-cortoni/):

«Un primo passo nella comprensione dell’ampio fenomeno che fu la presenza del clero uxorato nella tradizione latina, è quello di distinguerlo storicamente dal clero concubinario, con il quale invece finì per essere identificato durante la lotta all’eresia nicolaita. Un secondo passo è quello di non considerarlo come un’anomalia rispetto alla lex celibataria, alla quale non si oppone né si vuole sostituire. Infatti il matrimonio era concesso prima dell’ordinazione e vietato dopo, come dopo l’ordinazione agli uomini già sposati venne vietato di avere qualsiasi rapporto coniugale con la sposa e di procreare prole propria. Un terzo passo dovrebbe essere quello che prende in esame la comparsa e il perdurare nella chiesa di questa particolare vocazione al ministero ordinato: in un primo momento, e cioè dalla fine del Tardo Antico all’Alto Medioevo, sono uomini già sposati, probabilmente giunti alla fede in tarda età, ammessi agli ordini sacri a beneficio di una particolare comunità in una fase ancora di evangelizzazione (va dunque meglio conosciuta la storia che riguarda l’evangelizzazione dell’Europa); e in un secondo momento i contatti tra la chiesa latina, e la sua disciplina canonica, con la tradizione greca. In particolare se consideriamo in quest’ottica il Lateranense IV del 1215, capiamo che la chiesa universale ha saputo far propria la ricchezza che gli veniva offerta dalla tradizione orientale quando si stabilì in quelle terre. Dunque va adottato un doppio sguardo, quello locale (usi propri di una regione) e di opportunità (l’evangelizzazione). Un quarto ed ultimo gradino è quello di inserire la crisi del clero uxorato nel più vasto, e meno studiato, problema della teologia che si costruì intorno al matrimonio, specialmente tra XII e XIII sec., quando alcune correnti eterodosse, per il rapporto carnale che l’unione tra un uomo e una donna comportava, condannarono come illecito contrarre matrimonio.»

Risulta dunque, con molta chiarezza, dalle considerazioni di Cortoni che neppure in Occidente una contrapposizione ministeriale tra chierici avvenne in forza dello stato di vita dei presbiteri, bensì in opposizione ad un amore passionale che poteva minare indifferentemente sia il celibato che il matrimonio dei ministri sacri e che era piuttosto propria dei preti concubini. È l’unione nella carne che fa problema, l’eccedenza della sua realtà che sfugge da ogni lato a qualunque incasellamento, che sia tutto materiale o tutto spirituale.

Ed è esattamente questo – così come avvenne per il tema dell’ammissione alla comunione eucaristica dei divorziati risposati affrontato nell’Esortazione apostolica post-sinodale Amoris Laetitia – il cardine attorno cui ruota, oppure si blocca, una nuova concezione dell’essere Chiesa. Questo, cioè il “troppo” dell’amore.

La sessuofobia, quasi sempre consolidatasi a difesa delle istituzioni capaci di controllare e contenere un’affettività altrimenti tracimante e perciò assai pericolosa, è per appunto un dato di tradizione, con la “t” minuscola, che non può essere in alcun modo valorizzata, nemmeno per trarne una specie di lezione di silenzioso rispetto verso temi “pudici” o “pudibondi”. E tuttavia tagliare il nodo gordiano dell’avversione al sesso è operazione tutt’altro che semplice di fronte ad una specie di negazionismo della stessa esistenza del problema.

Gustavo Gutiérrez in Teologia de la Liberación. Perspectivas (Ediciones Sigueme, Salamanca, 1985) richiama alla nota 18 di p. 145 una lettera aperta del Segretariato permanente del movimento “Sacerdoti per il terzo mondo” che, rivolgendosi ai preti di Olanda, testualmente afferma – in nostra personale traduzione -: «Da celibi, voi non avete saputo o non avete potuto essere la voce dei Paesi sfruttati che soffrono le conseguenze della politica economica ingiusta dei dirigenti dei vostri Paesi. Ci aspettiamo che una volta sposati lo sappiate fare meglio. In realtà, se la vita matrimoniale non vi aiuta ad aprirvi di più alle dimensioni del mondo e soprattutto del mondo di coloro che sono depredati dalle “leggi” del commercio internazionale, voi non avrete fatto altro che fare un passo ulteriore verso l’imborghesimento. Non dimenticate che, mentre voi chiedete il diritto di costruire una casa, molti poveri del Terzo Mondo rinunciano alla propria per dedicarsi integralmente alla liberazione dei fratelli.»

La prospettiva dev’essere dunque rovesciata: non i diritti individuali, ma il diritto della comunità alla celebrazione dell’Eucarestia. Diritto per il riconoscimento del quale poco importa che il presidente della celebrazione sia sposato, celibe o fidanzato o in ricerca di un amore. La fissazione sugli individui ed i correlati loro diritti non condivisibili – nulla c’è di meno condivisibile del sesso – porta, tanto per esemplificare in maniera auspicabilmente lieve, alle reazioni che hanno accompagnato la performance di Roberto Benigni sul Cantico dei Cantici al Festival di Sanremo giovedì sera.

Eros viene accantonato facendo spallucce come fosse questione da archiviare ecclesialmente prima ancora di averla dipanata teologicamente, oppure, molto più laicamente, non viene neppure tollerato, concepito, pensato, nel contesto del canone biblico, al suo interno: è impossibile insomma che la Bibbia parli bene del sesso. E anche se ne parla, non ne parla.

Il Sinodo Amazzonico ha posto una questione molto diversa: ha messo al centro la dimensione politica dell’amore che ha colori di un prisma e che non sopporta – come ha affermato il Card. Kasper in questi giorni a Trieste – codificazioni: «Perché l’amore è più di un vago sentimento, è il compimento della persona umana e la carità è l’adempimento della Legge e di tutti i comandamenti (Rom 13,8-10). È il superamento del nostro individualismo ed egoismo occidentale attraverso la solidarietà; è la risposta alla miseria del e nel nostro mondo attuale. Non si possono, tuttavia, codificare giuridicamente, in maniera positiva, l’amore e la misericordia.» (https://sites.google.com/site/ilgiornaledirodafa20201/numero-543---9-febbraio-2020/kasper-a-trieste/l-impegno-del-cristiano-nel-mondo)

Quando né il celibato né il matrimonio costituiscono (più) presenza eversiva dentro l’assetto comunitario cristiano, significa che la profezia è progressivamente scemata fino a sparire, s’è impoverita fino a diventare afasica.

Abbiamo trascorso a Trieste momenti che, da qualche anno, definiamo, senza alcun formalismo, come “i giorni di Rodafà”, tra febbraio e marzo. Occasioni per trovarsi senza impegni particolari, solo per il piacere di conoscersi e dialogare e volersi bene e parlare di ciò che sta a cuore.

La città dove ha sede anche l’associazione culturale “Casa Alta” ha dimensioni multiple, sovrapposte, ma sotterranee e nascoste, segnate da una follia che non è stigma di malattia bensì inesauribilità dell’esperienza di ogni vita.

Chi prende il treno per andare, venire, a Trieste, sa che si tratta di destinazione in certo senso “ultima”, al confine dei mondi. Dove tutto può accadere e tutto non si sa come, e quando, possa accadere. Una città perfettamente mercantile, perfettamente laica, perfettamente borghese, dove non conta la foggia del vestito – neppure liturgico - ed il linguaggio degli incontri, perché spesso l’incontro più profondo avviene al di là delle parole, dove può parlare piuttosto il corpo nella sua inscindibilità psicofisica, nelle sue emozioni, nei suoi appelli, nelle sue brame e nei suo igesti.

C’è l’Amazzonia a Trieste. Nel senso che a nessuno da noi farebbe meraviglia vedere un prete con moglie e figli dacché la presenza ortodossa, pure in talare nera ma con compagna di vita accanto, è abituale quando si va a fare la spesa o si attende il ricevimento degli insegnanti dei figli a scuola.

Si riflette pochissimo, anzi pressoché nulla, sulle spose dei preti, sulle loro mogli - lo ricordò anni fa padre Salmann proprio a Trieste - ed invece dovrebbe essere don Tale ad essere definito marito di.

Aspettiamo mercoledì 12 febbraio, ore 13, per sapere se il treno dall’Amazzonia porta ancora ritardo o sta arrivando.

Buona domenica.

 

Stefano Sodaro