Il prete non è un giudice

Mons. Angelo Roncalli con i preti di rito cattolico orientale, Sofia, 13-18 agosto 1934 

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Il concilio di Trento, Sessione XIV, sulla Dottrina dei santissimi sacramenti della penitenza e dell’estrema unzione, [1] Capitolo 5 (siamo nell’anno 1551), ha affermato che la completa confessione dei peccati è stata istituita dallo stesso Signore poco prima di salire al cielo, quando lasciò i sacerdoti, suoi vicari, come capi e giudici. Come ciliegina sulla torta, il concilio di Trento (canone n.9 sulla penitenza) prevede, come sempre, la scomunica per chi afferma che l’assoluzione sacramentale del sacerdote non è un atto di giudizio.

In effetti, ancora oggi, il n.1465 del Catechismo afferma che il sacerdote confessore “compie il ministero del Buon Samaritano che medica le ferite…e del giusto Giudice”. Personalmente, già qui mi sembra ci si trovi davanti a una palese contraddizione: il buon samaritano, infatti, quando soccorre il ferito, non solo non pensa a Dio, ma nemmeno indaga se il ferito merita la sua assistenza, se è andato a cercare “grane” con altri viandanti, se è caduto accidentalmente, colposamente o a causa degli aggressori. Non giudica minimamente la condotta precedente del ferito, e si ferma solo con l’intenzione di aiutarlo perché la sua coscienza gli dice di agire così davanti a una persona in difficoltà. Il buon samaritano non si erge a giudice.

Invece, stando all’insegnamento magisteriale, di fronte a chi confessa i suoi peccati e quindi si trova in difficoltà, il confessore è un giudice tenuto a dire quello che, secondo la dottrina, è bene o male: in base alle dichiarazioni del confessante, il confessore deve cioè esprimere un giudizio, e il parametro di riferimento è la legge astratta, non il caso concreto. Perciò, all’esisto, potrà assolvere o negare l’assoluzione in base a quello che afferma la legge. Infatti si è visto negli articoli Legare e sciogliere e Le chiavi del Regno, ai nn. 523-524 di questo giornale (https://sites.google.com/site/archivionumeri500rodafa/numero-523---22-settembre-2019/legare-e-sciogliere; https://sites.google.com/site/archivionumeri500rodafa/numero-524---29-settembre-2019/le-chiavi-del-regno), come il magistero, convinto di aver perfettamente interpretato il vero pensiero di Gesù, affermi (art. 1441 Catechismo) che in virtù della sua autorità divina Gesù ha dato solo agli apostoli il potere di perdonare o rifiutare il perdono dei peccati; dagli apostoli questo potere è passato solo al magistero, per cui solo la Chiesa può far risorgere la relazione con Dio, ogni qualvolta l’uomo l’ha troncata peccando (e, sfortuna vuole, che l’abbia troncata già per il solo fatto di nascere, stante il peccato originale). In quegli articoli si è già avuto occasione di dubitare della fondatezza di quest’idea.

È comunque un dato di fatto che l’istituzione religiosa ha monopolizzato per sé il potere di perdonare i peccati. Avete violato la legge? Per salvarsi basta aderire alla fabbrica dell’obbedienza, il grande stabilimento sociale creato dalla Chiesa, dove ogni illecito è peccato, e dove imputato e giudice gestiscono il tutto attraverso l’arma segreta della confessione [2]: basta pensare ai preti pedofili che si sono smacchiati l’anima con la confessione, ed il confessore tenuto al segreto non li ha neanche potuti denunciare (ma forse avrebbe potuto negare l’assoluzione se non si autodenunciavano: quanti l’avranno fatto?)

Faccio poi notare che questa impostazione entra in contrasto col fatto che siamo un popolo di sacerdoti (Costituzione dogmatica sulla Chiesa - Lumen Gentium § 10 - del 21.11.1964), sì che tutti possono rivolgersi a Dio senza la mediazione della persona consacrata (il prete mediatore). Popolo sacerdotale significa infatti popolo che può comunicare direttamente con Dio. Non c’è più sacerdozio perché siamo tutti partecipi del sacerdozio comune (n. 1268 Catechismo). Se ai tempi di Gesù sacerdoti erano solo coloro che potevano rivolgersi a Dio, questa possibilità è stata estesa da Gesù a tutti. Quindi se siamo tutti sacerdoti non esiste più una casta particolare di persone, più vicine a Dio (come sosteneva invece Pio XII [3]), che possono fare da intermediari fra la gente e Dio, e decidere in tale veste sui nostri peccati.

In effetti Gesù non ha mai affidato ai preti la funzione di giudice, anche perché Dio stesso non è giudice, pur essendo giusto (Da Spinetoli O., La Giustizia nella Bibbia, “Bibbia e Oriente”, XIII, 1971, 249), perché giusto – come si è detto altre volte,- significa solo che Dio resta sempre fedele e non ci abbandona. Questo è il Dio misericordioso che ci mostra Gesù, e si è detto più volte che tutte le altre immagini che non corrispondono a ciò che Gesù ci illustra, devono essere abbandonate, perché tutto quello che crediamo di Dio, ma che non lo vediamo in quello che Gesù ha detto o fatto, non è Dio (Castillo J.M.), e va allora eliminato.

Quando Giovanni Battista, che si aspettava un Messia giudice, manda i suoi a chiedere se Gesù è lui l’atteso, o bisogna attendere un altro, Gesù risponde di guardare a quello che fa: tutti i tratti con cui Gesù descrive la propria azione sono di liberazione e guarigione, nessuno è di giudizio (Mt 11, 2ss.), Nessun accenno a rivincite o vendette, previo severo giudizio. Davanti al Gesù terreno, nessuno si sentiva giudicato o condannato (cfr. la donna adultera – Gv 8, 1-11), e per questo lo seguivano gli emarginati che non venivano accettati dalla società. Di più: lo stesso Gesù ha detto espressamente: “Non giudicate!” (Mt 7, 1).

E allora, come possiamo pretendere di descrivere la giustizia divina, per di più in quei termini tremendi che non si riscontrano mai in Gesù? Gesù è venuto per salvare (Gv 3, 17; 8, 15); ha detto di perdonare sempre (Mt 18, 21-22); ha proibito la vendetta (Mt 5, 38-48; 6, 12-15; 18, 23-35). Come si può pensare che, a un certo punto, Dio non perdoni più? Come è stato possibile pensare e sostenere che un prete potesse negarmi l’assoluzione se non mi presentavo in confessionale pentito per aver mangiato di venerdì un panino col prosciutto, e negandomi l’assoluzione mi apriva la strada per l’inferno eterno? (nn.494 e 472 Catechismo maggiore di Pio X).

La realtà è che la religione ha sacralizzato il castigo, anziché divinizzare la misericordia e il perdono (Da Spinetoli O., La Giustizia nella Bibbia, “Bibbia e Oriente”, XIII, 1971, 253 s.). Perciò, anche ammettendo che il prete sia collegato a Cristo attraverso la successione apostolica, quando amministra il sacramento della penitenza potrebbe essere al più un rappresentante del Padre di Gesù: la confessione non può allora essere un giudizio, ma deve essere un atto di accoglienza e di misericordia. Mi sta bene il richiamo del Catechismo al buon samaritano, ma non alla figura del giudice. La Chiesa si è presto messa in cattedra (si autodefinisce “Maestra”), e dall’alto della sua cattedra giudica. Gesù si era abbassato a livello degli emarginati, senza giudicarli, ma anzi per incoraggiarli a risollevarsi.

Nel mondo laico le persone non sono tradotte davanti al giudice per ottenere misericordia, ma per essere assolte o condannate. Invece qui, uno che va a confessarsi va davanti al rappresentante di quel Padre celeste che sempre comprende, che sempre perdona, come insegna anche il padre della parabola del figliol prodigo. Quindi, a differenza di quanto solennemente affermato dal concilio di Trento, il prete non è un giudice. Se non è giudice non ha il potere di condannare o assolvere. Il prete non può rifiutare l’assoluzione, anche perché non è neanche stato delegato da Dio ad ascoltare il pentimento dei peccatori e a dare l’assoluzione in suo nome. Se così fosse stato, come mai l’apostolo Giacomo (Gc 5, 16) raccomandava una confessione mutua per il perdono dei peccati? Allora già Giacomo smentisce che Gesù abbia dato solo agli apostoli il potere di perdonare i peccati, perché non avrebbe invitato a una confessione mutua fra fratelli, ma avrebbe imposto di rivolgersi agli apostoli o ai loro delegati.

In effetti, se guardiamo ai vangeli, la nuova strada che si deve intraprendere per ottenere da Dio il perdono delle proprie colpe (dei peccati) è perdonare le colpe altrui (Mc 11, 25; Lc 6, 37).

Se guardiamo all’episodio del paralitico, il clero è convinto che perdonando i peccati, senza neanche nominare il nome di Dio, Gesù stia bestemmiando. Solo la folla presente all'episodio, non fatta di integralisti come i sacerdoti di allora, comprende invece benissimo che questa capacità non è una facoltà esclusiva di Gesù, ma è estendibile a tutti gli uomini, sì che «rende gloria a Dio che aveva dato un tale potere agli uomini» (Mt 9, 8). Con queste parole viene sottolineata dall’evangelista la corresponsabilità di tutti i seguaci di Gesù nell’opera di salvezza. Questa non è compito esclusivo di Gesù e degli apostoli, ma anche di tutti coloro che lo vogliono seguire [4]. È prova, inoltre, che la cancellazione dei peccati non è riservata ai ministri di Dio [5].

Spieghiamoci ancora meglio: come si è già detto in un’altra occasione, dai vangeli emerge che chi nega il proprio perdono all’altro, rende inefficace il perdono di Dio a sé stesso. Non è che Dio non voglia perdonare, ma ha le mani legate lassù perché io, quaggiù, ho negato il mio perdono all’altro. In questi termini, si è detto nell’articolo al n.523 di questo giornale, va interpretata la frase «Qualunque cosa legherete sulla terra sarà legata anche nei cieli; quello che scioglierete sulla terra, sarà sciolto anche nei cieli», e la frase non viene rivolta solo a Pietro o ai dodici, ma a tutti i discepoli (Mt 18, 18), per cui diventa un messaggio che riguarda tutti gli uomini, sì che non si tratta di un potere enorme trasmesso ai soli apostoli, e da essi ai loro successori (il clero di oggi).

Dunque, per veder perdonati i nostri peccati, tutti dobbiamo perdonarli agli altri: è un compito per tutti, non un potere in mano a pochi. È compito di tutti portare nel mondo la misericordia di Dio, e non sostituirsi a Dio nel giudizio: se non lo si fa, il mondo non conoscerà nella pienezza quella liberazione che deve conoscere [6]. Gesù l’ha detto anche in maniera ancora più diretta, e le sue parole non possono essere annullate: «perdonate e sarete perdonati» (Lc 6, 37). Tutti. Automaticamente. Non ha mai detto: “Pentitevi, confessatevi davanti ai sacerdoti e poi sarete perdonati”. E con queste parole Gesù (Mt 18, 18) sta dicendo che chi non perdona lega anche il perdono di Dio [7], come viene riconfermato anche alla fine dello stesso capitolo (Mt 18, 35: «Così il Padre mio celeste tratterà voi, se non perdonerete di cuore il vostro fratello»).

Quando Gesù va a pranzo con tutti i peccatori (Lc 15,1-2), non li giudica non li condanna, non li castiga; al contrario, con la parabola del figliol prodigo, spiega come si comporta Dio (Lc 15, 11-31): questo padre misericordioso non chiede pentimenti o penitenze perché a lui non interessa giudicare, ma aprire un futuro di vita. Sono sempre le persone pie e religiose di ieri e di oggi che non accettano una simile immagine di Dio. Loro vogliono il Dio giudice terribile della religione.

Per tre volte nel solo Vangelo di Luca (Lc 5, 30; 15, 2; 19, 7) i pii osservanti criticano le frequentazioni “immorali” di Gesù. Va notato che queste brave e pie persone non criticano i peccatori, ma stanno criticando Gesù che, come c’insegna la dottrina cattolica, è Dio: cioè vogliono insegnare a Dio come deve comportarsi. Già in allora, è stata proprio l’accettazione dei peccatori, dei miscredenti e della gente di cattiva reputazione da parte di Gesù a provocare scandalo nella società perbene (Mc 2, 15-18; Lc 15, 2; 19, 1-7); e la sua risposta è che il suo modo di procedere traduceva il modo di essere di Dio [8]. Certo che le persone pie e religiose di oggi non si scandalizzerebbero per una cena con peccatori, purché questi si fossero prima pentiti e confessati! Però con quelli che ancora non sono stati assolti, che sono rimasti pur sempre impuri peccatori, neanche oggi va bene come si comportava Cristo. Invece, stando ai vangeli, Gesù ha sempre rifiutato l’idea che vede nel peccatore una persona impura da evitare, tanto che mette subito in pratica questo suo proclamato amore universale: nel pubblicano Gesù non vede un ladro (non utilizza le categorie morali), non vede un peccatore (non utilizza le categorie religiose), ma vede una persona: Levi (Mc 2, 14), e va subito a festeggiare a pranzo con lui (Mc 2, 15), senza neanche chiedergli di pentirsi e senza vedere prima se è possibile accordarsi per qualche obiettivo giusto e onesto. Anche nella casa del fariseo, dove la prostituta si presenta senza essere invitata, si scontrano due modi di vedere la realtà: secondo la religione questa è una peccatrice che deve essere cacciata via in malo modo; la religione insegna che neanche per strada ci si può avvicinare alla porta della casa di una prostituta (Pr 5, 8); immaginarsi qui, che è stata lei ad entrare. Per Gesù, invece, non ci sono peccatori o peccatrici, ma solo uomini e donne, che possono aver anche mantenuto condotte di vita sbagliate, visto che il peccato è qualcosa che diminuisce la persona. Gesù non parla mai di peccatori, di peccatrici, parla di uomini e donne. Gesù chiede al fariseo: «vedi questa donna?» (Lc 7, 44). Non dice: “vedi questa peccatrice?” Il devoto fariseo non vede una donna, ma vede un’impura peccatrice, e quello che agli occhi del fariseo religiosissimo appare una patente e inescusabile trasgressione della legge divina e quindi della volontà di Dio, per Gesù è una riconoscente manifestazione di fede: la donna ha espresso la sua riconoscenza a Gesù nell’unica maniera di cui è capace, usando tutto l’armamentario [9] di cui dispone: capelli, bocca, profumo e mani esperte nel palpare [10]. Quale prete assolverebbe oggi una prostituta che continua a fare la prostituta? [11] Invece, incredibilmente, Gesù neanche la invita a non peccare più, non le chiede di pentirsi, non le chiede di cambiar mestiere, per il semplice fatto che per una donna del genere sarebbe stato impossibile:[12] che altro poteva fare? Nessuno l’avrebbe presa con sé; per mangiare e sopravvivere necessariamente doveva continuare a fare la prostituta.

Quando Gesù incontra i cattivi peccatori li invita a pranzo, non li processa, non li costringe ad un’umiliante confessione, non evita di avvicinarsi a loro come ogni buon religioso sa che si deve fare, sicuro così di fare quello che fa Dio. Ancora oggi, come dice papa Francesco, noi non ci comportiamo come facilitatori della grazia, ma come dogana, quando la carità è sempre immeritata, incondizionata e gratuita (§296-310 Esortazione pastorale Amoris Laetitia).

Anche in Matteo (Mt 11, 6: “Beato chi non si candalizza di me”) Gesù, che non parla di conti da regolare, di cattivi da punire, è ben consapevole di scandalizzare tanti ben pensanti, che non accettano il suo modo di relazionarsi con gli impuri peccatori.

Perdonare è sul piano della somiglianza (perdonando assomigliamo a Dio), chiedere perdono è sul piano del ritualismo sacrale. Nessuna richiesta di perdono, anche se accompagnata dall’assoluzione sacramentale, può essere efficace se manca il proprio atteggiamento di perdono agli altri. Nessun sacramento può sostituirsi alla misericordia (Maggi A. e Thellung A., La conversione dei buoni, ed. Cittadella, Assisi, 2005, 35).

E visto che ci siamo, cosa vuol dire perdono? Certamente non è prendere la spugna e cancellare tutto come se nulla fosse successo. Non è possibile sopprimere le emozioni; le emozioni ci sono e basta (Chiesa S., Genitori per tempi difficili, ed. Lampi di stampa, Milano, 2008, 29s.), e non dipendono dalla propria volontà. Se le emozioni sorgono a prescindere dalla nostra volontà, il problema è eventualmente controllarle; ma se le emozioni non dipendono dalla nostra volontà è anche assurdo andare dal prete a confessarle, perché evidentemente non sono peccati, visto che ogni il peccato richiede piena avvertenza e deliberato consenso (n.1857 Catechismo). Inoltre non è neanche possibile dimenticare. Pensate che Gesù appena issato in croce, quando dice di perdonare i propri carnefici, avesse già dimenticato i chiodi che gli avevano appena conficcato nella carne? Allora perdonare vuol dire semplicemente essere decisi fortemente a non desiderare e a non fare il male alla persona che ci ha offeso. Perdonare vuol dire non vendicarsi. Perdonare l’altro significa rinunciare alla tentazione impulsiva di rispondere al male con il male, interrompendo la spirale distruttiva dell’odio e della vendetta. Non si tratta di dimenticare il male subito, che non si può dimenticare, ma cercar di ricreare le condizioni per un nuovo inizio di relazione con l’altro. L’altro non è il male, non è l’incarnazione del male, ma è un uomo che ha commesso un’azione che è male. Solo così diventiamo imitatori di Dio (Bianchi E., Imitatori di Dio, “Famiglia Cristiana”, n.33/2013, 118), solo così somigliamo a Dio.

In sintesi: la misericordia di Dio non pretende una previa formale richiesta di perdono e un effettivo pentimento per vedersi perdonare i propri peccati. Se uno perdona gli altri, il Padreterno si accontenta. Del resto, se uno perdona gli altri riesce anche più facilmente a pentirsi, e chi si pente non ha più bisogno di perdono. È stato già salvato dal suo male (Molari C., Un passo al giorno, ed, Cittadella, Assisi, 2006, 35.). Per questo non ha senso, invece, offrire la propria sofferenza, come se la sofferenza soddisfacesse Dio (così invece Cenci A.M., La confessione, ed. Gribaudi, Milano, 1995, 39); anzi, la propria sofferenza offerta, di per sé sola, non cancella le proprie colpe, perché uno potrebbe anche voler ancora il male dell’altro, che gli ha causato le sofferenze.

Perché questa idea (che poi si ricava dai vangeli) che basta perdonare gli altri per essere perdonati ha sempre avuto difficoltà a trovare spazio nella Chiesa? Mentre la religione esige la confessione e l’assoluzione del prete per ottenere il perdono dei peccati (nn.1424 ss. del Catechismo), Gesù perdona i peccati per ottenere la conversione. Forse è che, prendendo sul serio l'insegnamento di Gesù secondo cui per ottenere il perdono dei peccati basta perdonare le colpe altrui (Mc 11, 25), perché “dove c'è il perdono non c'è più bisogno di offerta per il peccato” (Eb 10,18), il popolo non andrebbe più al Tempio per ottenere l'assoluzione; e se non c’è più bisogno di andare dal prete per essere giudicati si verifica la bancarotta della Chiesa, la disoccupazione per i sacerdoti. Non avrà paura di questo la nostra Chiesa?

 

Dario Culot

[1] Concilio di Trento, sessione XIV del 25.11.1551, capo V la confessione -  Canoni sul santissimo sacramento della penitenza – sessioni XII-XVI (1551-1552), in www.documentacatholicaomnia.eu.

[2] Cappuccio R., Benvenuti nel Paese che perdona ogni peccato, “Il venerdì di Repubblica, n. 1197/11, 23.

[3] Con l’Enciclica Mediator Dei del 20.11.47 di Papa Pio XII (in http://www.vatican.va/content/pius-xii/it/encyclicals/documents/hf_p-xii_enc_20111947_mediator-dei.html) venne stabilito che: “Ricordiamo solamente che il sacerdote fa le veci del popolo perché rappresenta la persona di Nostro Signore Gesù Cristo in quanto Egli è Capo di tutte le membra ed offrì se stesso per esse: perciò va all'altare come ministro di Cristo, a Lui inferiore, ma superiore al popolo. Il popolo invece, non rappresentando per nessun motivo la persona del Divin Redentore, né essendo mediatore tra sé e Dio, non può in nessun modo godere di poteri sacerdotali”. Da ciò si dedusse che l’individuo deve inserirsi nella comunità-Chiesa solo sotto la gerarchia, non potendo altrimenti partecipare alla vita divina (Vagaggini C., Il senso teologico della liturgia, ed. Paoline, Roma, 1965, 268s.). Pio XII è stato però smentito dal concilio Vaticano II il quale ha dichiarato che siamo tutti sacerdoti.

[4] Mateos J. e Camacho F., IL figlio dell’uomo, ed, Cittadella, Assisi, 2003, 54 s. 

[5] Contra Ravasi G., Il paralitico, il perdono, gli uomini, “Famiglia Cristiana” n.11/2012, 115, secondo il quale il termine uomini, pur essendo ampio, va ristretto agli apostoli e quindi ai ministri della comunità cristiana, senza però darne una spiegazione razionale di questa sua interpretazione riduttiva.

[6] Sebastiani L., I mali della Chiesa: quali le nuove piaghe da sanare?, in “Strappare un abbraccio difficile,” ed. Cittadella, Assisi, 2006 92.

[7] “Il perdono di Dio precede il nostro perdono reciproco, ma è proprio il perdono dato all’altro che ci apre al perdono di Dio” (Bianchi E., Perdonare sempre, “Famiglia Cristiana”, n.32/2013, 118.

[8] Mateos J. e Camacho F., L’alternativa Gesù e la sua proposta per l’uomo,ed. Cittadella, Assisi, 1989, 89.

[9] Maggi A., Versetti pericolosi, ed. Fazi, Roma, 2011, 85.

[10] Il verbo è lo stesso usato da Paolo in 1Cor 7, 1, tradotto comunemente con l’invito all’uomo di “non toccare la donna”; ovviamente l’uomo non la tocca con la punta del mignolo.

[11] Mi sovviene quanto ha scritto un missionario quando si è visto chiedere la comunione da una prostituta notoria; in poche righe quel missionario riassume magistralmente questo toccante episodio. La donna gli si rivolge con queste parole: “So che il Vaticano ti dice che non puoi assolvere una donna come me. Ma ho bisogno di sentire che il Signore mi ama, mi perdona, mi accoglie”. Io non capivo più nulla, ma una cosa mi sembrava evidente: come potevo io rifiutare il perdono del Signore a chi me lo supplicava? (Zanotelli A., Korogocho, Feltrinelli, Milano, 2003, 136).

[12] Maggi A., Come leggere il Vangelo e non perdere la fede, ed. Cittadella, Assisi,2009, 60.