Liturgie

Chiesa di San Vito - Ansberg, nei pressi di Ebensfeld, Alta Franconia, Germania

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Secondo papa Clemente I, fu lo stesso Signore a prescriverci di fare offerte e liturgie [1], non a casaccio e senza ordine, ma in circostanze e ore stabilite [2]. Secondo papa Benedetto XVI, il luogo nel quale si fa realmente la maggior esperienza della Chiesa è la liturgia, perché essa costituisce l’atto essenziale col quale entriamo in contatto con Dio attraverso la Sua parola e attraverso l’eucarestia (ambtio, questo, riservato al clero), e nella liturgia non siamo noi a mostrare la nostra creatività, ma si tratta di lasciarsi toccare da Lui [3].

Personalmente concordo con chi rimane impressionato per il fatto che la liturgia è più importante della vita che la stessa liturgia dovrebbe produrre nei fedeli (Cugini P., Visioni postcristiane, EDB, Bologna, 2019, 103), soprattutto se si pensa che Gesù è venuto alla luce nudo in una mangiatoia, e non in un palazzo reale, vestito pomposamente, come si usa nel culto per onorare Dio. In ogni caso, dopo l’ultimo concilio, tutti sono sacerdoti, per cui tutti possono rivolgersi a Dio. Perciò nella Chiesa, popolo di Dio, non può esserci una differenza essenziale tra i membri della stessa. Se – come c’insegna il magistero,-  Colui che era in alto è venuto ad abitare in mezzo a noi, dobbiamo necessariamente concludere che d’ora innanzi nessuno può porsi in alto ritenendosi migliore di altri. Una categoria clericale fornita di diritti e privilegi speciali è perciò estranea al Nuovo Testamento. La stessa parola sacerdote è evitata nel NT. Gesù, che paradossalmente non era proprio sacerdote, è stato qualificato come tale, ma in senso esistenziale, non liturgico. Nel NT non ci sono sacerdoti perché questo termine era legato all’idea di sacrificio. I suoi sono infatti chiamati apostoli, discepoli, profeti, mai sacerdoti.

Ma soprattutto, come si può essere toccati da Dio nel rito liturgico? Si è già visto che, fin dai tempi di Zaccaria [4], la liturgia, intesa come il rito che tutto prevede, non lascia spazio alla nostra creatività, non lascia spazio neanche a Dio che non può più intervenire, perché una ritualità ingessata e prefissata fin nei minimi particolari strozza ogni possibilità di rapportarci col Dio che viene (o meglio, che dovrebbe ancora venire). Nella maggior parte delle nostre comunità difficilmente Dio – che comunque  parla quando e come vuole,– riesce a far sentire la sua voce nella cerimonia liturgica, spesso ridotta a rituale che tutto mummifica. In effetti, come può lo Spirito manifestarsi nella vita delle persone se queste sono anestetizzate perché legate ad immagini e schemi immutabili e rigidi trasmessi dalla tradizione? Se un sacerdote compie gesti rituali, calcolati, e in quel rito non è previsto che Dio si presenti, quando Dio si presenta non ci sarà posto per Lui. Nel sacro libro della liturgia, che prevede tutto, che controlla ogni gesto dall’inizio alla fine, che precisa cosa deve dire il celebrante, cosa devono rispondere i fedeli, quando alzarsi, quando inginocchiarsi, quando sedersi, non è previsto alcun spazio d’intervento per il Signore. Solo in rarissime messe ho visto il sacerdote dare spazio a una preghiera o a un pensiero spontaneo e libero da parte dei fedeli. Di norma, allora, c’è il rischio che anche le liturgie diventino atee, proprio perché non lasciano posto a Dio. Anche se un giorno Dio volesse dire una parolina in questa assemblea che si riunisce per tributargli onore, la risposta sarebbe: “C’è scritto qui? No!non è previsto! E allora stai zitto e sparisci!” Non sarà forse proprio per questo che in tante nostre assemblee liturgiche la voce di Dio non si sente, non ci tocca, nonostante i buoni propositi del papa emerito? Dio c’è, ma non gli si lascia spazio per parlare, poveretto.

“No, da noi non può succedere” replicherà piccato il pio fedele osservante della liturgia. Ma se è già successo proprio questo al giusto e pio Zaccaria, perché non potrebbe succedere di nuovo a un nostro sacerdote? Infatti, già all’inizio vangelo, ci viene spiegato che Dio riesce a farsi sentire e viene accolto in case profane, ma non nel sacro tempio (Lc 1, 26-29; Lc 1, 59-66).

Come dovrebbe allora essere il culto liturgico nel cattolicesimo? Già nel testo antico conosciuto come Lettera a Diogneto [5] si metteva in rilievo il paradosso di una religione che offre a Dio ciò che lui stesso ha procurato all’uomo (LaD III,4): «Chi ha fatto il cielo e la terra e tutto ciò che è in essi, e provvede tutti noi delle cose che occorrono, non ha bisogno di quei beni. Egli stesso li fornisce a coloro che credono di offrirli a lui». Ma alla fin fine, se guardiamo a com’è la Chiesa oggi, il culto è tornato ad essere uno dei modi tipici di servire Dio come ai tempi dell’Antico Testamento: la liturgia, la cerimonia (con le sue genuflessioni, le sue offerte, le sue proclamazioni di sacrificio) sottolinea sempre l’inferiorità e la dipendenza dell’uomo, che resta sempre in debito; il servo che restituisce al padrone ciò che il padrone gli aveva già offerto.

Ora, se con Gesù, Dio non viene più rappresentato come Signore e l’uomo come suo servo, perché è Dio che si mette al servizio degli uomini (Mt 20, 28), se Gesù ha cercato di farci entrare in zucca questo concetto, ad esempio con la lavanda dei piedi a metà cena (Gv 13, 1-20), la vecchia e superata immagine dell’uomo servitore di Dio, dell’uomo sempre in debito con Dio, che deve sempre offrirgli qualcosa, dovrebbe ormai essere lasciata alla religione. Il dio della religione è un dio creato a immagine e somiglianza della casta sacerdotale che occupa la cima della piramide, ma non corrisponde al Dio di Gesù. L’evangelista ha presentato Gesù come il Dio con noi, e questo Dio – anche se non l’abbiamo ancora capito - ha detto che non è venuto per essere servito, ma per servire. Gesù è il Dio con noi, l’Emmanuele dell’inizio del Vangelo di Matteo (Mt 1, 23), sì che semplicemente, come Lui serve gli altri, anche noi dobbiamo andare (con Lui) verso gli altri, perché se si hanno desideri di grandezza, la vera grandezza sta nel servire gli altri. E, in sintonia col passo di Isaia (Is 1,12-16), è evidente che lo Spirito Santo non viene su di noi quando tentiamo la scalata verso Dio con preghiere, genuflessioni, o con sfavillanti cerimonie, perché il dio verso cui bisogna salire non esiste, è frutto della nostra fantasia. Gesù ci ha detto che Dio è sceso fra noi, e se lo cerchiamo lassù in alto, mentre Lui è sceso in basso, non lo incontreremo mai (Maggi A.). Ogni sua manifestazione la possiamo intuire o vedere solo quaggiù, nella storia umana, e Dio lo possiamo incontrare solo quando usiamo le mani per servire gli altri, sempre quaggiù in basso.

Ma da questa novità dovrebbe allora coerentemente dedursi che Gesù ha definitivamente annullato il culto vecchio stile, inteso come offerta di un servizio a Dio, perché Dio non ha bisogno delle nostre offerte. Prestare culto a Dio, seguendo le regole liturgiche, significa sicuramente rendergli onore, ma avendo Gesù cambiato completamente l’idea di Dio, ha cambiato pure il l’idea di culto. Se Dio è Padre, cioè colui che per amore dell’uomo gli comunica la propria vita desiderando elevarlo alla condizione divina, appare chiaro che ritiene un suo onore che l’uomo gli assomigli sempre di più [6]: pertanto, se siamo capaci di fare il bene senza attenderci nulla in cambio, se siamo capaci di amare anche se l’altro non lo merita, se concediamo il nostro perdono prima che venga richiesto, allora siano veramente somiglianti a Dio, e assomigliandogli nell’amore potremo sperimentare che Dio è Padre. Il gesto della lavanda dei piedi dimostra che Gesù sta preparando Pietro al servizio, l’unico titolo che consente di seguire Gesù. Gesù si riconosce dal servizio e l’unico titolo per seguire Gesù è quello del servizio.

Alla samaritana al pozzo Gesù ha chiarito che il vero culto al Padre avrebbe eliminato sia il culto samaritano, sia quello giudaico, dovendosi d’ora in poi rivolgere non più a un Dio lontano, lassù nell’altissimo cielo, irraggiungibile se non attraverso la mediazione dei sacerdoti, nello spazio sacro del Tempio, dove però effettuavano la mediazione solo per i puri. Da quel momento ci si doveva rivolgere al Padre unito all’uomo da una relazione personale, quella annunciata a Cana (dove il vino, segno d’amore e di gioia, sostituirà l’acqua, segno della vuota liturgia)[7]. Gesù torna a chiamare Dio col nome di Padre (Gv 4, 21), sottolineando il vincolo familiare e personale con Lui: quindi anche il culto, che viene ad essere anch’esso personale, va visto nel quadro della relazione figlio-Padre. In base alla Buona Novella liturgia, culto e sacrificio dovrebbero riferirsi allora alla vita stessa di ogni credente: l’uomo offre sé stesso (Rm 12, 1), per collaborare alla venuta del Regno, mentre vanno eliminati il momento del culto rituale liturgico e il luogo sacro [8]. Tant’è vero che alla fine dell’Apocalisse, nella nuova Gerusalemme, quello che non c’è più, che non si vede più, è proprio il Tempio (Ap 21, 22). Il luogo sacro non serve più. Vivere una vita che fa fiorire quella di altri è più importante di tutte le preghiere rituali, delle cerimonie, delle genuflessioni, delle offerte, dei sacrifici rituali, di tutte le liturgie che si praticano nel  Tempio.

Esattamente come al momento della nascita di Gesù, i primi a capire cosa sta succedendo sono gl’impuri pastori e i maghi pagani (cfr. gli articoli ai nn.484 e 434 di questo giornale), anche qui, i primi a capire sono gli emarginati peccatori, non le persone pie e religiose: non a caso, dopo la cacciata dal Tempio, si avvicina a Gesù una moltitudine di impuri, finalmente ammessi al Tempio. Eliminato il Tempio, eliminato il culto liturgico dal quale erano esclusi, gli impuri peccatori possono finalmente avvicinarsi a Dio (Mt 21, 14). Se non c’è più bisogno del culto anche il Tempio, cioè lo spazio sacro dove si può incontrare Dio, diventa inutile. È la fine dei pellegrinaggi, dei santuari, degli spazi che si considerano più sacri degli altri. Infatti Gesù lo afferma categoricamente: «Dove due o più sono riuniti nel mio nome, lì ci sono anch’io in mezzo a loro». ‘Nel mio nome’ significa dove due o più mi rappresentano, perché mi assomigliano. E la somiglianza annulla ogni distanza fra Dio e gli uomini, all’opposto della religione che crea distanza abissale fra Dio e gli uomini [9] ed ha bisogno dell’onorevolezza dell’ufficio. Pensiamo a quanti sono rimasti delusi dalle dimissioni di papa Benedetto XVI solo perché quel gesto minava la santità dell’ufficio, l’onorevolezza dell’ufficio.

Se il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire, questa semplice espressione avrebbe dovuto avere la forza di un terremoto nella nostra religione, visto che in tutte le religioni l’uomo è creato per servire Dio. Gesù ci dice che questa convinzione religiosa è falsa. È una invenzione della casta sacerdotale che per proprio interesse ha presentato un Dio che vuole essere servito, così che anche i suoi rappresentanti, di riflesso, vanno serviti. “Ma quando mai il papa o i vescovi hanno dei servitori” replicherà inorridito il ferreo ortodosso. Beh! Quanti aiutanti di camera aveva Gesù? Papa Benedetto XVI ne aveva almeno uno, visto che è stato arrestato per avergli sottratto documenti riservati [10]. Quante erano le suore addette ad accudire l’appartamento papale, che solo papa Francesco ha abbandonato per vivere in un bilocale? Quante cuoche aveva Gesù? Quanti autisti? Quanti segretari? Ricordate come ha colpito la foto di papa Francesco che portava da sé la sua borsa sgualcita? Se siamo rimasti così colpiti da un gesto così normale, significa che non siamo abituati a un papa che fa quello che fanno tutti i normali impiegati.

Anche la parabola delle dieci vergini, metà stolte, metà sagge (Mt 25, 1-13), va intesa nel senso che non è l’uomo che deve togliersi il pane di bocca per offrirlo alla divinità, ma imitando Dio che si offre agli uomini, tutti devono farsi pane per gli altri uomini. È una parabola a prima vista incongrua per non dire stravagante, perché tutti vi fanno una pessima figura: lo sposo è in grave ritardo, e poi si permette anche di rimproverare le ragazze che non avevano le lampade accese; alcune di queste si dimenticano l’olio e poi a loro volta ritardano perché sono andate a cercar di rifornirsi d’olio; ma le vergini sagge appaiono ancora più antipatiche, non volendo condividere il loro olio con le compagne che ne sono rimaste prive.

Insomma, cosa vuol dirci oggi questa parabola? Forse la spiegazione più congrua è quella data da Alberto Maggi: le cinque ragazze stolte rappresentano coloro che accolgono il messaggio di Gesù ma non pensano di metterlo poi in pratica. Lo stesso termine è stato adoperato dall'evangelista anche per quelli che costruiscono la casa sulla sabbia (Mt 7, 26). Il termine saggio, riservato alle altre cinque ragazze, è invece lo stesso termine adoperato dall'evangelista anche per quelli che costruiscono la casa sulla roccia (Mt 7, 24), nonché per il servo fedele che procura il cibo per gli altri (Mt 24, 45): dunque la saggezza è sempre messa in relazione non tanto con l’ascolto della parola di Gesù, ma con la pratica del dono della propria vita, con cui si procura vita agli altri. L’obbiettivo di ciascuno di noi nella propria vita, l’obbiettivo del credente, è una cosa alla portata di tutti, senza appartenere alla categoria dei santi, perché tutti possiamo concretamente fare del bene agli altri. Tutte e dieci le ragazze si addormentano (Mt 25, 5), il che dimostra che anche i veri credenti sono soggetti a cedimenti, ma poi arriva comunque il momento del “dunque”. In quel momento occorre avere qualcosa in mano: occorre avere l’olio. L’olio viene qui presentato come qualcosa che tutti quanti possono avere, ma che non si può prestare. Ora, dal punto di vista logico, l’olio si può sempre prestare come qualsiasi altro oggetto, e visto che il brano deve poter avere un significato non illogico, la risposta assai poco solidale delle sagge: “non ve ne prestiamo neanche un goccio «perché non venga a mancare a noi e a voi»” significa che quest’olio particolare, che si può avere ma non si può prestare, corrisponde a un tipo di vita che viene donata. Questo olio, essenziale per entrare nella comunione con Dio, sono le opere buone; e nessuno può prestare ad un altro le sue opere buone. Non è che le ragazze sagge non vogliono condividere: è che non possono condividere. Quest’olio è il capitale che ciascuno di noi accumula durante la sua vita, l’unica cosa che permette poi, una volta superata la soglia della morte, di entrare nella vita indistruttibile, quella che chiamiamo vita eterna. Gesù, sempre in precedenza, aveva già detto: «Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini perché vedendo le vostre opere buone diano gloria a Dio» (Mt 5,16). Nel libro dell’Apocalisse, si dice: «beati quelli che muoiono nel Signore, le loro opere li seguono, ed entrano nel riposo del Signore» (Ap 14,13). Ma per poter fare il bene, per accorgersi dell’emarginato, del povero che attraversa la nostra strada, bisogna sempre vegliare e tenersi pronti, come si racconta anche nella parabola dell’imminente diluvio (Mt 24, 37-44: chi non veglia non si accorge che sta per arrivare il diluvio). Da notare che in quest’ultima parabola non c’è uno che fa il male e un altro che fa il bene: chi viene salvato sta facendo in quel momento la stessa cosa di chi viene lasciato. Ma evidentemente solo stando sempre vigile e attento uno è riuscito ad accumulare per tempo il suo olio, mentre l’altro ha perso le occasioni per farlo.

Dunque l’olio sono le azioni positive che l'individuo ha posto in essere nella propria vita, e questo non si può trasmettere dall'uno all'altro. Quando più tardi arrivano anche le altre vergini e cominciano a gridare: «Signore, signore, aprici» risulta allora facile abbinare quest’invocazione al precedente monito: «Non chi dice Signore, Signore entrerà nel regno dei cieli, ma chi compie la volontà del Padre» (Mt 7, 21). Dunque, in questa parabola si ha l’ennesima riconferma che non è sufficiente un’adesione formale a Gesù, non basta seguire religiosamente la liturgia e i riti, andare continuamente in chiesa e inginocchiarsi sui banchi, rispondere a tono alle invocazioni liturgiche del prete, ma è necessario che questa adesione si traduca in sequela, che i propri giorni si traducano in azioni concrete capaci di comunicare vita ad altre persone. Ecco quindi che anche la dura risposta di Gesù è identica a quella riservata a coloro che dicevano “Signore, signore”, ma poi non compivano la volontà di Dio (Mt 7, 23; Mt 25, 12): «non vi conosco, costruttori del niente». Anche qui, non è Gesù ad escludere qualcuno, ma sono le stesse persone che non hanno messo per tempo in pratica il messaggio di Gesù, pur avendolo ascoltato, a non aver costruito niente. Nella parabola, dunque, non si fa che ribadire quanto già detto a proposito della fede: nessuno può donare la propria fede a un altro, e si può dare testimonianza della propria fede solo con la propria vita di adesione a Cristo [11].

Pensate, perciò, a tutte quelle cerimonie, a tutti quegli atteggiamenti che ancora abbiamo in chiesa nei confronti di Gesù, e che ci fanno erroneamente credere di essere salvi solo seguendo quelle belle liturgie e quei bei riti: “Signore, Signore, sono andato a messa tutte le domeniche, mi sono sempre genuflesso davanti al santissimo, ti ho pregato tutti i giorni, e ho tuonato contro l’abominio dell’aborto in tutta la mia vita”. E con ciò? Questi sono atteggiamenti che si hanno nei confronti di una divinità di cui si ha paura e che è meglio tenersela buona. Di nuovo abbiamo dimenticato che Gesù ci ha chiamati amici (Gv 15, 13-15), non servi. Con un amico si collabora; un amico lo si aiuta, concretamente.

Pensate a quel modello di preghiera che si limita a salire, senza mai scendere; pensate a quell’ascensore della preghiera che in tante persone pie finisce per depositarci lassù, in mezzo alle nuvole, però inattivi [12]. Tutto questo culto, anche se segue minuziosissime e preziosissime forme liturgiche, non serve a niente, perché Dio non ha bisogno della nostra preghiera, né ha il suo trono in mezzo alle nuvole: ha bisogno della nostra fattiva collaborazione verso gli altri uomini, quaggiù in basso, su questa terra, perché Lui non ha mani e solo usando le nostre mani possiamo collaborare al suo progetto del Regno. Se non collaboriamo quaggiù e ci proiettiamo lassù, finisce che il Regno veramente può attendere, perché facciamo mancare il nostro contributo alla sua realizzazione.

Dunque, il sistema di relazione uomo-Dio non ha nulla a che fare con l’esecuzione di determinati riti, che sono cerimonie separate dalla persona, ma sta nella donazione della persona stessa. Cristo non ha offerto cose diverse dalla propria persona, ma ha offerto sé stesso, dimostrando di aver abolito la categoria del sacro come realtà separata dall’esistenza quotidiana profana. Rimane dunque annullata definitivamente ogni separazione tra culto ed esistenza, visto che il culto autentico non è altro che l’offerta generosa della propria vita [13]. Il culto cristiano dovrebbe consistere nel vivere occupandoci degli altri, che sono fratelli. Rispetto alla liturgia tutto è molto semplificato; rispetto alla vita tutto è molto più difficile. O, come ha detto con efficacia il teologo Salas, è più comodo praticare la religione che vivere il Vangelo.

Molti fra quelli che si ritengono osservanti cattolici, convinti che avendo seguito il rito sono già salvi, vivono poi concentrati su sé stessi al di fuori del momento del rito, senza però neanche essere capaci di raggiungere le vette dell’ascetismo. A dire il vero, la stessa Chiesa, fin all’inizio, si è trovata a combattere uno spiritualismo di un rapporto con Dio che escludeva il rapporto con gli altri. Mentre il messaggio dei vangeli, quando è accolto, spinge, orienta la propria esistenza verso gli altri, fin dall’inizio, nel cristianesimo entrarono delle correnti dove il rapporto con Dio era basato esclusivamente sulla spiritualità, sulla conoscenza. Nelle Lettere di Giovanni (1Gv 4, 20) già si avvertiva con forza questa polemica: “come puoi dire di amare Dio che non vedi, se non ami il fratello che vedi?” Oggi, forse, comincia finalmente a prevalere l’idea che non c’è rapporto con Dio che non passi attraverso il rapporto con gli altri.

Del resto, ognuno di noi è già in sé una relazione. Senza batteri non potremmo sopravvivere, perché non potremmo digerire o svilupparci: quindi dobbiamo aver cura della relazione con l’ambiente e con gli altri esseri viventi, perché la relazione è ciò che ci definisce [14]. Questo lo dice la scienza, non Gesù, il quale quindi ha detto duemila anni fa quello che oggi dice la scienza. C’è da meditare, non vi sembra?

Dario Culot

[1] Vagaggini C., Il senso teologico della liturgia, ed. Paoline, Roma, 1965, 17 e 33, definisce come liturgia una certa fase e un certo modo in cui si attua tra noi il senso della Rivelazione; poi, più precisamente, la definisce come il complesso dei segni sensibili di cose sacre, spirituali, invisibili istituite da Cristo o dalla Chiesa, efficaci, per i quali Dio, per mezzo di Cristo capo e sacerdote, e nella presenza dello Spirito Santo, santifica la Chiesa e la Chiesa, nella presenza dello Spirito Santo, unendosi a Cristo suo capo e sacerdote, per mezzo di Lui rende come corpo il suo culto a Dio. Un feroce critico ha invece detto che  i chierici chiamano le loro paure dottrina e i loro gusti tradizione.

[2] Clemente, Lettera aii XL, 2, in www.documentacatholicaomnia.eu

[3] Benedetto XVI, Luce del mondo, ed. Libreria editrice Vaticana, Città del Vaticano, 2010, 215s.

[4] Cfr. l’articolo Un sacerdote giusto, religioso, che però è ateo uscito a Natale dell’anno scorso.

[5] Riportata in I padri apostolici, ed. Città Nuova, Roma, 1991, 353 ss.

[6] Mateos J., L’utopia di Gesù, ed. Cittadella, Assisi, 1991, 100.

[7] Mateos J., L’utopia di Gesù, ed. Cittadella, Assisi, 1991, 98.

[8] Mateos J. e Camacho F., L’alternativa Gesù e la sua proposta per l’uomo,ed. Cittadella, Assisi,1989,  96.

[9] Maggi A., La bestemmia del Figlio di Dio, in E se Dio rifiuta la religione?, ed. Cittadella, Assisi, 2005, 225.

[10] “Famiglia Cristiana”, n.26/2012, 35; “La Repubblica” 13.7.2012, 19.

[11] Matino G., Una risposta personale, “Famiglia Cristiana”, n.45,2011, 12.

[12] P. Casaldàliga e José M. Vigil, La spiritualità della liberazione, ed. Cittadella,  Assisi, 1995, 200.

[13] Castillo J.M., Simboli di libertà, ed. Cittadella, Assisi, 1983, 91.

[14] Colloqui con D’Abramo Flavio, ricercatore, “Live” n.12,  19.12.19, 11.