È possibile discutere di un dogma?

Concilio di Trento, opera di maestro olandese del XVII secolo (forse della scuola di Gerard Terborch), 

New York, Collezione privata 

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Cominciamo l’anno nuovo con una questione piuttosto interessante. Qualcuno mi ha fatto osservare che ogni definizione dogmatica obbliga a un’adesione incondizionata, per cui non è possibile discutere sui dogmi visto che obbligano il popolo cristiano ad un’irrevocabile adesione di fede (n. 88 Catechismo).

Il can. 751 di Diritto canonico precisa che è considerata eresia non solo la negazione di una qualche verità che si deve credere per fede divina, ma anche il dubbio ostinato su di essa. Pertanto ogni dubbio, - ad esempio, quelli da me espressi negli articoli dell’anno scorso sui dogmi riguardanti la Madonna,-  già fanno di me un eretico.

Qualcun altro mi ha ricordato che il cardinal Ratzinger, quando nel 1994 era prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, aveva ufficialmente scritto che “spetta solo al magistero universale della Chiesa, in fedeltà alla Sacra Scrittura e Tradizione, insegnare ed interpretare autenticamente il depositum fidei”.  Sostanzialmente mi s’invita a non divulgare più eresie.

Rispondo: non ho la pretesa di insegnare niente a nessuno, ma solo di far riflettere chi legge. Faccio solo notare che la filosofia, e quindi necessariamente anche la teologia che è sua stretta parente, invita tutti a pensare perché sa che nessuna risposta è l’ultima, e sa che la critica è sempre essenziale.

La prima cosa che mi chiedo, è allora questa: se Gesù ha cercato di costruire la sua comunità su un principio di uguaglianza (cfr. Lumen gentium § 32: “nessuna ineguaglianza quindi in Cristo e nella Chiesa”), com’è che i prelati della Chiesa continuano a giudicare il gregge inferiore ad essi, com’è che gl’impediscono di esprimere la propria opinione e non intendono neanche ascoltarlo? Io penso che ogni buon prete insegna alla comunità, ma al tempo stesso anche impara da essa.

Il magistero ci ha invece insegnato che Dio si rivela nei suoi rappresentanti gerarchici, per cui poi solo loro possono trasmettere al popolo ciò che deve credere, cioè il deposito della fede (così annota, ad es., Salas L., Una fede incredibile nel secolo XXI, Massari, Bolsena (VT) 2008, 150). Peccato che Gesù abbia detto: “Dio non si rivela all’elite religiosa, e neanche ai teologi esperti, ma solo a coloro che non sanno nulla e non hanno nulla da dire in questo mondo” (Mt 11, 25; Lc 10, 21: “ti ringrazio, Padre, per aver nascosto queste cose ai sapienti…”).

Non mi scandalizzo di chi segue l’insegnamento del magistero ed è convinto che la Chiesa non sbagli mai. Ma per farmi aderire a questa sua convinzione dovrebbe prima spiegarmi un paio di cosette: ad es., non più tardi del 20.6.1866, la Chiesa cattolica riconosceva ancora la piena legittimità della schiavitù. Merita riportare in proposito la traduzione di un documento del Sant’Uffizio [1] (ora Congregazione per la dottrina della fede) che oggi leggiamo con sgomento: “La schiavitù, di per sé, non ripugna affatto al diritto naturale, né al diritto divino, e possono darsi a essa molti giusti motivi… Infatti, il possesso del padrone sullo schiavo non è altro che il diritto di disporre in perpetuo dell’opera del servo per la propria comodità, che è giusto che un uomo fornisca a un altro uomo… Pertanto i cristiani possono lecitamente comprare schiavi, o darli in pagamento di debito o riceverli in dono”.Questo documento costituiva la risposta ufficiale del magistero a fra Guglielmo Massaia, all’epoca vicario apostolico in Etiopia e in seguito diventato pure cardinale, il quale, notando che la schiavitù faceva parte del costume locale, chiedeva se anche gli etiopi cristiani potessero avere schiavi.

Se la Chiesa non sbaglia mai, vuol dire che non si è sbagliata neanche in punto di schiavitù; allora come mai papa Giovanni Paolo II si è scusato [2] nel suo viaggio in Africa per aver permesso la tratta dei neri? Se la Chiesa si fosse da secoli inequivocabilmente opposta a quel turpe commercio, papa Giovanni Paolo II avrebbe semplicemente richiamato con forza il documento definitivo con cui la Chiesa ufficiale aveva vietato la schiavitù già nei secoli precedenti. Purtroppo questo documento non esisteva, e anche se alcuni papi si erano in passato pronunciati contro la schiavitù, altri si erano pronunciati a favore [3]. Comunque non esisteva un documento definitivo di condanna con scomunica per chi non ottemperasse [4], al quale anche il Sant’Uffizio avrebbe ovviamente dovuto adeguarsi nel 1866.

Il fatto è che, avendo la curia romana avuto per secoli l’esclusivo monopolio per parlare di Dio, di Gesù, della Chiesa, per secoli abbiamo dovuto trangugiare il piatto che ci veniva messo davanti, presentatoci come l’unico alimento della salvezza e l’unico passaporto per l’aldilà. Altra possibilità non c’era.

Da noi la Chiesa, almeno negli ultimi mille anni e fino alla mia generazione, si è sempre identificata con il papato e la curia romana. Dire Chiesa era dire gerarchia e su questa linea, ancora nel 1994, il cardinal Ratzinger ha potuto pronunciare la frase sopra richiamata. Il centro, dunque, era Roma; il popolo ruotava attorno al centro senza alcuna possibilità di interloquire. Però, col concilio Vaticano II, è stata impressa una svolta copernicana: la Chiesa non s’identifica più con la gerarchia. La Chiesa, cioè, non è fatta dal solo clero, perché tutti gli uomini sono chiamati a formare il Popolo di Dio e tutto il Popolo di Dio costituisce Chiesa (Costituzione dogmatica sulla Chiesa – Lumen Gentium  § 13 –  del 21.11.1964.).

E allora, come si spiega che i vangeli si possano sempre re-interpretare, anche da parte dei laici facenti parte del Popolo di Dio (cfr. Lumen gentium § 3: ogni laico, in virtù dei doni che gli sono stati fatti, è testimonio e insieme vivo strumento della stessa missione della Chiesa), mentre nessuno, neanche il papa, neanche il Padreterno in persona se scendesse sulla terra, ha la libertà di re-interpretare il dogma, che pur sempre si basa inizialmente sull’interpretazione delle Scritture, soprattutto quando si riconosce che il magistero non è superiore alla parola di Dio, ma ad essa serve? (Costituzione dogmatica sulla divina rivelazione del 18.11.1965 – Dei Verbum - § 10). Se, come aveva ben chiarito papa Giovanni XXIII “non è il vangelo che cambia, ma è che noi oggi lo capiamo meglio”, dovremo chiederci: per quale motivo se oggi si interpreta in altro modo il vangelo, e questa nuova interpretazione dà torto a ciò che si è insegnato e creduto in passato, non si dovrebbe poter cambiare anche il dogma, che magari poggia su un’interpretazione del vangelo ormai considerata errata?

Se poi mi si dice che è impossibile che l’insegnamento ritenuto vero cinquant’anni o vent’anni fa possa essere sbagliato oggi, come mai i principi non negoziabili dell’800 sono oggi considerati sbagliati? Si pensi solo a come il concilio Vaticano II ha cambiato la dottrina sulla libertà religiosa, quando per una millenaria tradizione culturale era proibito cambiare religione. Allora si può cambiare!

La realtà è che, anche se il concilio Vaticano II ha riconosciuto libertà di coscienza, di religione [5], la maggior parte del magistero (compreso il papa emerito) non ha ancor digerito queste “novità” ormai vecchie di mezzo secolo e continua a sostenere che «l’argomentazione che si rifà al dovere di seguire la propria coscienza non può legittimare il dissenso» [6]; per cui si auspica che tutti siano sempre ossequienti con la debita venerazione verso il magistero della Chiesa.

Ma in tal modo si dimentica che, col concilio Vaticano II, è stato anche affermato un altro grande principio: “La verità non s’impone che per forza della stessa verità” (Dichiarazione sulla libertà religiosa del 7.12.1965 - Dignitatis humanae, § 1 verso la fine).

Questo può significare una sola cosa: una verità non può essere più imposta autoritativamente dal magistero cui bisogna essere sempre ossequienti, men che meno sotto minaccia di scomunica. Perciò o i dogmi s’impongono per la propria evidenza, oppure non si è più obbligati a credere in virtù della sola autorità della Chiesa. In altre parole, oggi si crede o non si crede ai dogmi in forza del ragionamento, non perché si è obbligati a un’irrevocabile adesione di fede; oggi non si possono più difendere ipotesi che non sono razionalmente plausibili.

Con questo siamo davanti a un’improvvisa rivoluzione? Niente affatto. Già papa Giovanni Paolo II aveva riconosciuto (Enciclica Fides et ratio § 2) che ogni verità raggiunta è sempre solo una tappa verso quella piena verità che si manifesterà nella rivelazione ultima di Dio, richiamando in proposito Paolo: «Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente» (1Cor 13, 12). Perciò questo papa già escludeva che, pur dopo la rivelazione, l’uomo potesse conoscere nel modo più pieno Dio, l’Assoluto, e la sua volontà. Ogni verità, cioè, è sempre parziale, mai assoluta. Se questo vale per l’uomo, vale allora anche per il magistero che ha il monopolio sul depositum fidei, ma è pur sempre composto da uomini.

Dopo di lui, anche papa Benedetto XVI, nel confermare che di Dio non sappiamo sostanzialmente niente, ha aggiunto che possiamo guardare le cose sempre e soltanto da un solo lato, cogliendone così un solo aspetto per volta, dove uno sembra essere in contraddizione con l’altro, senza riuscire ad abbracciare il tutto. Solo girando attorno, solo osservando ed esprimendo tanti diversi aspetti, apparentemente contraddittori, riusciamo ad accennare alla verità, che tuttavia nella sua totalità non vedremo mai (Ratzinger J., Introduzione al Cristianesimo, ed. Queriniana, Brescia, 163 s.); e ultimamente ha perfino riconosciuto che “Nessuno osa più dire ‘Possediamo la verità’, cosicché anche noi teologi abbiamo tralasciato sempre più il concetto di verità” (Ultime conversazioni a cura di Seewald P., ed. Corriere della sera, Milano, 2016, 225). Ma allora, non si contraddicono queste affermazioni papali, le quali riconoscono che non ci può essere una concezione statica della verità, con l’asserita verità immutabile contenuta nei dogmi?[7] E se in realtà esistono perfino ‘aspetti apparentemente contraddittori,’ come riconosce Benedetto XVI, come si fa a negare la facoltà di dissentire? Non sottintendono questi riconoscimenti papali che tutta la materia religiosa deve poter essere ormai sottoponibile a critica avvalendosi di argomenti di ragione? Come ha argutamente osservato un teologo (Mancuso V., Io e Dio, Garzanti, Milano, 2011, 107), pretendere come fa ancora buona parte del magistero che si debba credergli perché è esso a dire che ciò che insegna lo riconosce la ragione, significa mortificare la stessa ragione, in quanto qualcun altro ordina ciò che la ragione deve fare; al contrario ciò a cui può arrivare la ragione deve essere essa sola a stabilirlo, non certo l’autorità della Chiesa. Stesso discorso va ripetuto per la libertà di coscienza, che non può essere ingabbiata dall’autorità della Chiesa (con la scusa che solo essa sa formare una retta coscienza). Gesù non ha detto che bisogna credere alla verità insegnata dai sacerdoti, ma ha detto: “perché non giudicate da voi ciò che è giusto?” (Lc 12, 57). Questo significa che la verità non si dona una volta per sempre, come fosse una statua di marmo, ma si manifesta gradatamente nella storia, e il cammino nella storia porta inesorabilmente con sé anche il cambiamento delle culture, delle tradizioni, dei modi di vedere e agire, perfino dello stesso significato delle parole, per cui necessariamente cambia anche il nostro angolo visuale sulla verità (come appunto per la schiavitù), che resta sempre parziale, come hanno riconosciuto anche questi due papi portati in palmo di mano dai credenti più ortodossi.

Dunque, anche nella Chiesa avvengono i cambiamenti, ma molto lentamente, quasi impercettibilmente, e spesso senza neanche essere formalmente ufficializzati. Questo è successo e continua a succedere nella storia della Chiesa, che viaggia sempre con passo cauto e lento: “avanti piano piano, quasi indietro!” Pensiamo a come con la nota 351 dell’Esortazione apostolica Amoris Laetitia 19.3.2016, dicendo che “in certi casi, potrebbe essere anche l’aiuto dei sacramenti”, l’attuale papa ha dischiuso a un possibile ‘ il pregresso divieto di dare la comunione ai divorziati risposati (confermato ancora dai due papi precedenti), seppur valutando caso per caso, aprendo una breccia nella precedente dottrina del ‘no’ (cfr. n. 349 Compendio Catechismo).

Ma siccome molti sono convinti che questo papa sia mezzo eretico, per cui non conta quello che lui dice, vediamo che fine hanno fatto i sani principi non negoziabili di ieri (che oggi risultano tutti negoziati).

Solo per fare qualche esempio: quanti di voi sanno che nel 1832, Papa Gregorio XVI nell’enciclica Mirari vos, riteneva assurdo delirio la libertà di coscienza, oltre che errore velenosissimo la libertà di pensiero e di stampa propugnata dai liberali; che col Sillabo dei principali errori della nostra età, promulgato da Papa Pio IX l’8.12.1864, il Cap. III, XV condannava la libertà di religione, e il Cap. X, LXXIX condannava la libertà di opinione e pensiero; che nel 1888 papa Leone XIII, con l’enciclica Libertas ancora condannava la libertà di coscienza e di stampa; che nel 1930, Papa Pio XI, nell’enciclica Casti connubii, condannava coloro che andavano predicando l’uguaglianza di diritti fra i coniugi, così offuscando “il candore della fede e della castità coniugale, scalzando la fedele ed onesta soggezione della moglie al marito”; che nel 1951 Pio XII ribadiva davanti alle ostetriche che non vi è altro mezzo che il battesimo per comunicare la vita soprannaturale al bambino?

In sostanza, ancora dopo 500 anni dal concilio di Firenze del 1442, Pio XII non faceva che ripetere quanto affermato da quei padri conciliari: tutti i non battezzati – per cui, fra gli altri, tutti i musulmani e tutti gli ebrei, - quando muoiono, vanno dritti all’inferno per l’eternità, perché la salvezza c’è soltanto dentro il recinto della Chiesa cattolica, mediante il battesimo. Col passare dei secoli anche la Chiesa ha capito che non era proprio un bel segno di amore divino mandare anche gli incolpevoli neonati morti senza battesimo all’inferno (come sostenuto con convinzione da sant’Agostino), per cui aveva escogitato il Limbo; dopo svariati ulteriori secoli anche questa soluzione sembrava assai poco amorevole, e il Limbo è venuto sostanzialmente meno appena col documento del 20.4.2007, approvato da papa Benedetto XVI, in cui si dice che il tradizionale concetto di Limbo riflette, forse, una «visione eccessivamente restrittiva della salvezza». Anche qui il cambio di rotta è estremamente cauto, quasi sottotraccia; ma c’è.

Di fronte a questa cautela, non dovremmo avere tutti il coraggio di gridare ad alta voce, pretendendo una risposta dai rappresentanti della Chiesa: com’è possibile che la religione cattolica abbia trasformato anche la nascita di un bambino in qualcosa di sporco, di impuro? Come può essere che Dio, l’infinitamente buono, faccia immediatamente perdere al nuovo nato la sua amicizia – perché questo è ciò che avviene col peccato originale [8]? Di più: come può esserci in un bambino appena nato un qualcosa che Dio già odia? Come può conseguentemente la Chiesa affermare, di fronte a questa dimostrazione di odio, che Dio ama immensamente anche ogni peccatore? Non vi sembra invece molto più cristiana l’idea di Tagore Rabindranath, grande poeta bengalese (figlio di un brahmino induista), il quale ha invece scritto che ogni bambino che nasce porta con sé la speranza che Dio non è ancora deluso dell’uomo?

Poi, visto che il concilio Vaticano II – con la Costituzione dogmatica sulla Chiesa – Lumen Gentium  § 16,  del 21.11.1964 – ha concluso che anche senza battesimo le persone possono accedere alla vita eterna presso Dio, volendo Dio che tutti gli uomini siano salvi, oggi è chiaro che in quei principi non negoziabili del passato c’era forse una «visione eccessivamente restrittiva della salvezza». Da notare, però, che neanche il concilio Vaticano II ha detto apertamente che il concilio di Firenze si era sbagliato.

Ora, se tutti i concili sono infallibilmente assistiti dallo Spirito Santo, in realtà qui ci sono due verità che si scomunicano a vicenda. L’ultimo concilio si è limitato a dare un contrordine per almeno 2/3 dell’umanità, che – secondo l’infallibile concilio di Firenze - da cinque secoli stava arrostendo all'inferno! E tutte queste persone che sono bruciate all’inferno, non si metteranno a rincorrere con bastoni nodosi i santi padri di Firenze che li hanno mandati (per sbaglio) laggiù?

E non faranno lo stesso anche coloro che, in seguito alla Bolla inter Caetera del 1493, con cui papa Alessandro VI aveva diviso le Americhe come fossero terre sue, offrendole in dono a Spagna e Portogallo, erano stati colpiti da scomunica automatica per aver osato infrangere il duopolio commerciale di questi due Stati cristiani? Chi oggi oserebbe sostenere che la Chiesa non aveva in allora sbagliato? Però non mi risulta che neanche questa scomunica sia mai stata formalmente revocata.

Allo stesso modo non mi risulta revocata la scomunica contenuta nella bolla Romanus Pontifex di papa Niccolò V [9],  che prevedeva l’embargo di prodotti strategici (come armi e legno, navi, ecc.) verso i Saraceni, perché se venduti ai nemici avrebbero potuto rafforzarli, il che costituiva una “grave offesa a Dio”. Se solo pensate alle armi vendute dagli europei e dagli americani ai Paesi musulmani del Golfo in questi anni…altro che invocare le radici cristiane d’Europa: oggi mezzo mondo occidentale dovrebbe essere scomunicato.

È tragico allora dover riconoscere la fatica che ha sempre fatto il clero riguardo a questa libertà di coscienza, pur rivendicata già nel vangelo (Lc 12, 57: “non lasciare che siano altri a giudicare ciò che è giusto, ma ciascuno deve essere in grado di farlo da sé”). Per il vangelo l’uomo deve camminare per proprio conto (Gv 5, 8-15), sulle proprie gambe (Mateos J. e Barreto J., Il Vangelo di Giovanni, ed. Cittadella, Assisi, 1982, 261), anche a costo di sbagliare (come insegna la parabola del figliol prodigo), senza che la gerarchia possa intervenire sulla sua libertà che è uno spazio sacro e inviolabile (2Cor 3, 17).

Allora, se Dio ci lascia liberi di scegliere, e perfino si può rifiutare Dio; se Dio accetta anche di essere rifiutato pur di non privare l’uomo della libertà, dovremmo anche chiederci: come può l’uomo (seppur consacrato) pretendere di togliere a un suo simile l’uso della libertà che ha ricevuto in dono? Sarebbe come sostituirsi a Dio (Samir Khalil Samir, L’alfabeto della convivenza, “Avvenire” 1.11.2008, 33). Sottomettere un altro uomo, anche costringendolo ad accettare una specifica dottrina religiosa, è voler non solo sostituirsi a Dio, ma fare anche quello che Lui, autolimitandosi, non ha voluto fare come Dio. Ecco perché, se Dio non ci fa suoi servi, se non pretende da noi obbedienza, neanche il magistero sacerdotale può obbligarci all’ obbedienza. Diceva bene un grande pensatore ebreo (Buber M., Gog e Magog, ed. Neri Pozza, Vicenza, 1999, 60): «Dio è il Dio della libertà. Egli che possiede tutti i poteri per costringermi, non mi costringe. Egli mi ha fatto partecipe della sua libertà. Allora io lo tradisco se mi lascio costringere».

E frate Vannucci (Nel cuore dell’essere, ed. Fraternità di Romena, Pratovecchio (AR), 2004, 117), poco dopo il concilio, aveva correttamente annotato che se le congregazioni romane che presiedono alla dottrina della fede fossero state di quel valore che pretendono di avere e che molti, oggi, riconoscono loro, questo risulterebbe dai vangeli: "un giorno a Roma si fonderanno quei dicasteri, ascoltateli!" Invece nessun vangelo lo dice. Gesù ha soltanto detto: "ascoltate lo Spirito santo" (Mc 13, 11; Gv 14, 16.26; Gv 16, 13). E lo Spirito santo ognuno lo ascolta in sé, senza che la Chiesa possa ascoltarlo per lui.

Certamente non è una novità che i capi di un’istituzione religiosa pretendano di porsi alla guida di una comunità trasformandola in un gregge obbediente da comandare. Quando nel Vangelo di Giovanni (Gv 7, 44-48) le guardie mandate dai farisei e dai sommi sacerdoti ad arrestare Gesù tornano a mani vuote, i capi si adirano perché non l’hanno catturato, e sdegnati esigono una spiegazione; al che le guardie rispondono che non l’hanno arrestato “perché mai nessuno ha parlato come quest’uomo”. Mai nessuno ha parlato come quell’uomo? A queste parole i capi danno fuori di matto e gridano alle guardie: “ci ha creduto forse qualcuno dei capi?” Spiegazione per i meno avveduti: chi vi ha autorizzato a pensare diversamente da come pensiamo noi che siamo i capi? Siamo noi capi a decidere cosa dovete e come dovete pensare. Spetta solo ai capi (oggi al magistero della Chiesa, in fedeltà alla Sacra Scrittura e Tradizione), interpretare e insegnare come gli altri devono pensare. Il popolo-gregge non può neanche sognarsi di pensare diversamente da come pensano i pastori del gregge. E da subito, la Chiesa cattolica ha fatto propria l’idea propria dei capi farisei, come si vede nel primo concilio di Gerusalemme, nella disputa fra la Chiesa ufficiale e Paolo (At.15,19): “Per questo io sentenzio…” dice Giacomo. “Io giudico”, e gli altri? Gli altri, zitti; decido io che sono il capo; gli altri hanno l’unico compito di dire “sì”. Appunto Chiesa docente e Chiesa discente, come ci hanno sempre insegnato. Ecco l’autoritarismo che emerge già nella primissima chiesa di Gerusalemme. Il dissenso non è ammesso, a partire dal primo concilio della Chiesa fino a papa Benedetto XVI.

Prendiamo allora atto, con piacere, che finalmente perfino il magistero della Chiesa, abbandonati i principi non negoziabili del 1800, in allora considerati diabolici tanto da sanzionarli perfino con la scomunica di chi li propugnava, riconosce oggi i diritti dell’uomo e delle sue libertà fondamentali, fra cui la libertà di coscienza e di religione (così Fuček I, I dieci comandamenti, in Catechismo della Chiesa Cattolica, ed. Piemme, Casale Monferrato (AL), 1993, 1008s.), anche se non ha mai riconosciuto esplicitamente che in passato avesse sbagliato, né ha mai detto di aver ritirato la scomunica di allora. Peggio: oggi nell’ambiente cattolico c’è perfino chi presenta un po’ sfrontatamente la Chiesa come fosse stata da sempre la paladina della libertà dell’uomo, come se avesse da sempre difeso «il valore della libertà religiosa basato sulla dignità dell’uomo inteso come essere che cerca la verità» aggiungendo impudentemente che, senza la libertà religiosa, «ogni altra libertà diventa monca, una parodia di se stessa» (vescovo Negri L. e Cascioli R., Perché la Chiesa ha ragione, ed. Lindau, Torino, 2010, 28).

La strategia curiale è rimasta inalterata nei secoli: non riconoscere mai che in passato il magistero ha sostenuto tesi oggi riconosciute errate, guardarsi bene dal citare direttamente cosa hanno detto i predecessori, e siccome la maggior parte della gente non va a leggersi i documenti del passato, il silenzio è normalmente sufficiente per far credere, dopo che è passato un po’ di tempo, che le affermazioni di oggi sono quelle che la Chiesa ha da sempre sostenuto.

Il fatto è che la Chiesa – finché resta così strutturata [10] - non potrà mai riconoscere esplicitamente di aver sbagliato perché questo vuol dire ammettere di non essere stata sempre tenuta per mano dallo Spirito santo ma, quel che è peggio, significa che, se ha sbagliato una volta, può sbagliare altre volte. Quindi, se oggi dice quando prima diceva no, questo non avverrà mai alla luce del sole, ma solo furtivamente [11].

È stato proprio per timore di contraddire il proprio passato che la Chiesa, dopo essersi legata da sola mani e piedi con le sue statuizioni infallibili e i suoi dogmi, fa così fatica a guardare il futuro e a cambiare. Ricordo che papa Paolo VI, con l’enciclica Humanae Vitae, non aveva aperto ai contraccettivi solo perché lo avevano proibito i suoi predecessori, quando invece l’apposita commissione incaricata di studiare il tema aveva dato ‘via libera’ al cambiamento (dicono con una maggioranza di 71 su 75) [12].  Ma nell’enciclica non viene affatto spiegato in base a quale ragionamento logico la contraccezione non naturale andrebbe contro la volontà di Dio, conosciuta evidentemente solo dal papa. Solo implicitamente si capisce che, ammettendo i contraccettivi, si sarebbe dovuto riconoscere che Pio XII aveva sbagliato quando, il 29.10.1951, in un discorso alle ostetriche cattoliche, aveva preso posizione contro i metodi contraccettivi non naturali: “Non prestatevi mai a qualsiasi cosa contraria alla legge di Dio… Iddio obbliga i coniugi all’astinenza se la loro unione non può essere compiuta secondo le norme della natura”. Anche in questo caso non era stata data una spiegazione sul perché, ma si può pensare che il suo era comunque da considerarsi un atto definitivo su una dottrina riguardante la morale (come con atti definitivi si erano pronunciati i sopra richiamati Gregorio XVI, Pio IX e Pio XI). Probabilmente Pio XII, a sua volta, si sentiva obbligato a confermare l’Enciclica Casti Connubi del suo predecessore Pio XI, dove, di fronte al fatto che molte coppie cercavano di fare sempre meno figli senza rinunciare al sesso, richiamava duramente gli sposi all’ordine: il sesso fra coniugi era solo un rimedio alla concupiscenza, mentre il fine primario del matrimonio restava quello di fare figli, per cui “non vi può esser ragione alcuna, sia pur gravissima, che valga a rendere conforme a natura ed onesto ciò che è intrinsecamente contro natura”. Da notare che il can.1013 del codice di diritto canonico, nel quale era contenuta questa dottrina, è stato abolito appena nel 1987, e che ancora nel XX secolo era stato condannato dal Sant’Uffizio il libro del tedesco Doms Herbert il quale aveva osato affermare che finalità principale del matrimonio non era la procreazione, bensì la comunione profonda degli sposi.

Quando Paolo VI ha scritto l’Humanae Vitae, non aveva osato tirare direttamente in ballo il can. 1013 del codice canonico per giustificare la sua presa di posizione, perché ormai la maggior parte delle persone non riteneva più ragionevole quella norma, e vedeva ormai nell’amore, nel reciproco aiuto e nell’affetto vicendevole il fine primario del matrimonio: l’idea di Doms Herbert era cioè diventata idea comune e, come dice Lumen Gentium, §12: “La totalità dei fedeli, avendo l'unzione che viene dal Santo, (cfr. 1 Gv 2,20 e 27), non può sbagliarsi nel credere”. Oggi, nell’Esortazione Amoris Laetitia (§ 150) papa Francesco parla del meraviglioso regalo della sessualità fattaci da Dio. E di nuovo questa non è l’opinione di un papa eretico, perché già il papa emerito aveva furtivamente mosso un piccolo passo in questa stessa direzione, quando aveva parlato di gioia del sesso e della sessualità come dono [13]. Ennesima dimostrazione che la Chiesa avanza e cambia, ma a passi da formica. Questo vuol dire però che, in passato i chierici, votati al celibato ed estranei a questo settore della vita coniugale, avevano caricato sulle persone sposate pesi che loro non spostavano neanche con un dito (Mt 23, 4). Gesù ha raccomandato di guardarsi da simili persone che credono di servire Dio negando ad altri i diritti fondamentali. 

In conclusione, alla luce di quanto detto, mi sembra che non ci siano motivi per negare che si possa discutere anche dei dogmi perché, anche col rischio di sbagliare, dobbiamo seguire la nostra coscienza [14] e la nostra ragione; anzi diventerebbe colpa morale se uno credesse quando la ragione gli dice di non credere.

Dario Culot

 

[1] In Collectanea S. Congregationis de Propaganda Fide seu Decreta Instructiones Rescripta pro apostolicis Missionibus, vol. I, n. 1293, ed. Typographia Polyglotta, Roma, 1907: tamen servitus ipsa per se et absolute considerata iuri naturali et divino minime repugnat, pluresque adesse possunt iusti servitutis tituli… Dominium enim illud, quod domino in servum competit non aliud esse intelligitur quam ius perpetuum de servi operis in proprium commodum disponendo, quas quidem homini ab homine praestari  fas est… Christiani igitur  licite possunt  servos emere, atque in debiti solutionem, vel in donum recipere.

[2] Vedasi il viaggio in Senegal di Giovanni Paolo II nel lontano 22 febbraio 1992, quando nell’Isola della Gorée, uno dei luoghi simboli dopo furono deportati milioni di sorelle e fratelli africani da parte dei negrieri europei, ha chiesto perdono.

[3] Ad es., papa Gelasio (Epist. 14, 14), alla fine del V secolo, proibì l’ordinazione sacerdotale degli schiavi o la loro ammissione nei monasteri, perché in quei casi avrebbero smesso di essere schiavi pregiudicando il diritto di proprietà dei loro padroni. Il papa minacciava perfino di scomunica chi non avesse restituito uno schiavo sacerdote o monaco, per evitare che ci potessero essere danni per la Chiesa. Mille anni dopo, usciva la bolla Romanus Pontifex, di papa Niccolò V, dell’8.1.1454. Il testo latino è reperibile nel Bollarium Romanum, in  http://www.icar.beniculturali.it/, Tomo V, bolla n.VIII, §5, e potremmo così tradurre il passo: “poiché abbiamo concesso precedentemente con altre lettere nostre, tra le altre cose, piena e completa facoltà al re Alfonso di invadere, ricercare, catturare, conquistare e soggiogare tutti i Saraceni e qualsiasi pagano e gli altri nemici di Cristo, ovunque essi vivano, insieme ai loro regni, ducati, principati, signorie, possedimenti e qualsiasi bene, mobile ed immobile, che sia di loro proprietà, e di gettarli in schiavitù perpetua e di occupare, appropriarsi e volgere ad uso e profitto proprio e dei loro successori tali regni, ducati, contee, principati, signorie, possedimenti e beni, in con­seguenza della garanzia data dalla suddetta concessione…”

[4] Curioso notare, ad es., come il concilio di Trento (Concilio di Trento, Sessione V, decreto sul peccato originale, canone 1, in www.totustuustools.net/concili) colpisca con scomunica chi nega il peccato originale di Adamo ed Eva come fatto storico, mentre la Costituzione In supremo apostolorum fastigio di Papa Gregorio XVI del 1839 si limita ad ammonire e scongiurare di por fine all’infamia della schiavitù (Denz. 2746). Dunque c’è la conferma che non esisteva un documento di condanna definitiva e irrevocabile per il commercio di tutti gli esseri umani, tanto è vero che ancora alla fine del 1800 c’erano molti dubbi in proposito. Scrive infatti il gesuita Giacomo Martina, storico della Chiesa, nell'opera dedicata a Pio IX, a proposito del contrasto fra abolizionisti e schiavisti: “Pio IX sostanzialmente favorevole ad una graduale evoluzione della schiavitù e contrario ad una abolizione immediata...esortò l’episcopato ad evitare ogni discussione sul problema della schiavitù ed intervenne solo due volte...per disapprovare più o meno esplicitamente le due tesi opposte degli abolizionisti e dei conservatori” (Martina G., Pio IX, Volume 1, Gregorian&Biblical BookShop, Roma, 1985, 494.). 

[5] Dichiarazione sulla libertà religiosa – Dignitatis Humanae § 9 – del 7.12.1965; vedi anche Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo – Gaudium et spes §44 – del 7.12.1965: «L'esperienza dei secoli passati, il progresso della scienza, i tesori nascosti nelle varie forme di cultura umana, attraverso cui si svela più appieno la natura stessa dell'uomo e si aprono nuove vie verso la verità, tutto ciò è di vantaggio anche per la Chiesa».

[6] Ratzinger J. – Benedetto XVI, L’elogio della coscienza, ed. Cantagalli, Siena, 2009, 117. Ma è stato forse scomunicato Benedetto XVI quando, da giovane teologo progressista, aveva scritto (Scritto di Ratzinger J., in raccolta solo tedesca degli anni 1962-65, citato da Küng H., La mia battaglia per la libertà, ed. Diabasis, Reggio Emilia, 2008, 511 s.): “Al di sopra del papa… sta ancora la coscienza individuale, alla quale prima di tutto bisogna obbedire, in caso di necessità anche contro l’ingiunzione dell’autorità ecclesiastica”? Possiamo forse chiederci: Benedetto XVI era un sosia di Ratzinger?

[7] Il dogma è la risposta della Chiesa alla rivelazione divina (Pannenberg W., Cristologia: lineamenti fondamentali, Morcelliana, Brescia 1974, 56). Quindi è una risposta umana. Perché neanche il Padreterno la potrebbe più cambiare?

[8] Ladaria L.F., La Caduta, in Catechismo della Chiesa cattolica, ed. Piemme, Casale Monferrato  (AL), 1993, 700.

[9] Cfr. anche precedente nota 3. Il testo latino è reperibile nel Bullarium Romanum citato, Tomo V, §8. In italiano potremmo così tradurre: “… alcuni uomini, trascinati dalla cupidigia, possano salpare verso quelle regioni e, desiderosi di usurparle a loro favore… portarvi o trasportarvi – sia per lucro che per malvagità – ferro, armi, legno per costruzioni ed altre cose e merci, che è proibito consegnare agli Infedeli o insegnare ai medesimi l'arte della navigazione, per cui essi diverrebbero nemici più forti e tenaci del Re e dell'Infante, così che il progresso della impresa verrebbe ostacolato o forse completamente annullato, non senza grave offesa a Dio ed immenso discredito dell'intera Cristianità…”

[10] Tutto, all’interno della Chiesa, deve essere determinato, o per imposizione o per proibizione. Imposizione e proibizione richiamano però il concetto di potere. In questo senso oggi l’istituzione fa problema, il dogma fa problema, al punto che la Chiesa è divenuta per molti, essa stessa, l’ostacolo principale alla fede. Non sono parole mie; le ha dette mestamente papa Benedetto XVI, (Ratzinger J., Introduzione al Cristianesimo, ed. Queriniana, Brescia, 2000, 14 e 330). Ma anche questa non è una novità: già ai tempi di Gesù il Tempio, invece di essere il luogo dell’incontro con Dio era diventato il suo contrario, un ostacolo, tanto da portare Gesù a una critica radicale del Tempio (Cugini P., Visioni postcristiane, EDB, Bologna, 2019, 36).

[11] Alfred Loisy citato da Fabre G. e Venturini K. (a cura di), La Chiesa tra restaurazione e modernità, Il Mulino, Bologna, 2017, 220: “La chiesa è sempre stata così: essa ha sempre cambiato, malgrado sé stessa. Oseremo dirlo? Essa ha sempre cambiato pur facendo finta di restare sé stessa, ed insistendo che essa non cambiava. La Chiesa, dunque, continuando a vivere, continuerà a cambiare”.

[12]  Sandri L., Il papa gaucho e i divorziati, Gioacchino Onorati ed., Canterano (RM), 2018, 62.

[13] Benedetto XVI, Luce del mondo, ed. Libreria editrice Vaticana, Città del Vaticano, 2010, 151.

[14] E allora, anche il passo di Marco (Mc 16, 16: «Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato») può essere inteso in questi termini: chi, in coscienza, vedendo che deve credere, crederà e sarà battezzato, sarà salvo; chi, in coscienza, vedendo che deve credere non crederà non si salverà.